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Lo studio universitario non è un diritto di pochi

Manuela Ghizzoni - presidente commissione cultura della Camera

17/12/2012
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l'Unità

NON È POSSIBILE CHE TUTTI VADANO ALL’UNIVERSITÀ, COSÌ COME NON È POSSIBILE CHE TUTTI VADANO ALLE OLIMPIADI. Lo hanno scritto Andrea Ichino e Daniele Terlizzese sul Corriere della Sera del 10 dicembre, ripresi nei giorni successivi da Alesina, Giavazzi e Lo Bello. Anche concedendo il beneficio di considerare l’affermazione un’iperbole giornalistica, peraltro inadatta a due brillanti ricercatori, essi vagheggiano evidentemente il ritorno ad un’università elitaria per pochissimi, forse per ancor meno studenti che nella prima metà del Novecento. Certo, si cautelano «a sinistra» affermando che dovrebbero essere scelti in base al talento personale e non alle condizioni economiche e sociali della famiglia. Ma pur sempre pochi in quanto il sistema universitario è «intrinsecamente elitario, perché si fonda su un'ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone». Ma l’università di oggi deve essere elitaria perché serve esclusivamente a formare chi è in grado di estendere le frontiere più avanzate della conoscenza, come scrivono gli stessi opinionisti? Le politiche della formazione superiore in tutto il mondo hanno scelto un’altra visione: ampliare il numero di coloro che vi accedono per favorire l’instaurarsi di una società e di un’economia della conoscenza; nello stesso tempo rendere flessibili e graduati i titoli di studio universitari proprio per rispondere alle diverse aspirazioni e capacità degli studenti. Lo abbiamo fatto (faticosamente) anche in Italia con i tre successivi titoli universitari: laurea, laurea magistrale e dottorato di ricerca. Solo l’ultimo può considerarsi davvero elitario (ma non per numeri da Olimpiadi!) ed è riservato a chi aspira ed è in grado di dedicarsi alla ricerca e quindi all’avanzamento delle conoscenze. Invece il secondo e soprattutto il primo dovrebbero formare, a diversi livelli ma non certo elitari, quote significative dei giovani per fornire al mondo del lavoro, in tutti i campi, professionisti della conoscenza capaci di dominare le sfide innovative e di produrne di nuove. Altro che tornare all’università d’antan con un balzo all’indietro di decenni che ci farebbe uscire dall’Europa e dal novero dei Paesi più avanzati. La scuola è e deve essere per tutti, ma l’università è altra cosa, scrivono ancora Ichino e Terlizzese. Sembrano premettere implicitamente che attualmente all’università vanno tutti, come vuole l’incessante grancassa mediatica per cui in Italia saremmo tutti dottori, cioè laureati. Ahimè non è vero. Citando per l’ennesima volta dati statistici Ocse stranoti, l’Italia, con il suo 15% di laureati sulla popolazione in età lavorativa, cioè tra 25 e 64 anni, occupa saldamente l’ultimo posto in Europa insieme al Portogallo e il penultimo tra tutti i Paesi Ocse, seguita solo dalla Turchia. La situazione non è recuperabile nemmeno in tempi medi visto che la media europea si situa già al 28%, la media Ocse al 31% e persino la media del G20 (che comprende anche Paesi emergenti come Cina, Brasile, India, Arabia Saudita) al 26%. Altro che sistema intrinsecamente elitario! Né siamo in fase di recupero di classifica: pur passando al 21% di laureati nella fascia tra 25 e 34 anni ci situiamo ancora all’ultimo posto in Europa (stavolta insieme all’Austria) e al penultimo nell’Ocse, mentre le rispettive medie veleggiano lontano al 35% e al 38%. Un ultimo aspetto trattato dai due economisti è quello a loro molto caro del trasferimento di ricchezza dalle famiglie più povere che non mandano i figli all’università a quelle più ricche che ce li mandano, tramite la fiscalità generale e la bassa progressività delle tasse studentesche, anche se ci sono motivi per dubitare della fondatezza dei dati su cui essi fondano il loro calcolo. Fu lo stesso argomento sollevato vent’anni fa dal sociologo Guido Martinotti – protagonista delle riforme universitarie degli anni ’90 scomparso purtroppo qualche giorno fa – con la celeberrima e icastica affermazione che diciassette famiglie che non mandano i loro figli all’università pagano il costo dell’università alla diciottesima che invece ce li manda. La situazione è molto cambiata da quegli anni lontani anche se è certamente vero che le tasse studentesche, pur molto aumentate, sono rimaste poco progressive (per scelta autonoma degli atenei su cui sarebbe il caso di dibattere). Ma è anche indubitabile che in Italia il sostegno per il diritto allo studio alle famiglie meno abbienti è molto carente e che comunque il carico delle tasse studentesche sulle famiglie italiane è globalmente tra i più alti in Europa.


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