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La (Maria) Stella dei baroni

Chi ci guadagna

21/12/2010
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il manifesto

Mauro Volpi*

Nei mesi scorsi il ministro Gelmini non ha trovato di meglio che accusare gli studenti che hanno riempito le piazze e dato vita a varie forme di protesta, con la partecipazione dei ricercatori e anche di molti professori, di essere «difensori dei baroni». Ora, l'espressione «baroni» è quanto mai abusata ed è stata utilizzata demagogicamente agli occhi dell'opinione pubblica per squalificare l'intera Università pubblica e giustificare il suo affossamento. Ma se per baronato si intende quella parte (minoritaria) del corpo accademico la quale, più che perseguire le finalità essenziali dell'Università (didattica e ricerca), sfrutta la sua posizione per ottenere vantaggi personali o di tipo clientelare o per costituire gruppi consolidati di potere, allora la legge Gelmini appare per quello che veramente è: una legge baronale per eccellenza.
Intanto va ricordato che a monte della legge e della sua pretesa di riformare l'Università a costo zero vi sono stati i tagli operati da Tremonti, rispetto ai quali la legge di stabilità compie solo un parziale recupero per il 2011. In particolare il blocco degli scatti triennali di anzianità verrà a colpire pesantemente dal punto di vista economico non tanto i professori più anziani quanto soprattutto i ricercatori e i professori più giovani, che potranno subire decurtazioni in molti casi pari a circa un terzo dello stipendio che avrebbero dovuto percepire. Strano modo di punire i «baroni» e di incoraggiare il rinnovamento degli Atenei.
Ma veniamo ad alcuni contenuti «illuminanti» della legge Gelmini. Viene previsto che in futuro i rettori possano essere eletti non più dall'intero corpo accademico e da una rappresentanza del personale amministrativo e degli studenti, ma dai professori di prima fascia, quindi dai soli cosiddetti «baroni». Nel contempo i rettori avranno più poteri, mentre verranno ad essere notevolmente ridotti quelli del senato accademico, vale a dire dell'organo rappresentativo delle varie componenti accademiche e degli studenti, il quale si ridurrà in prevalenza a formulare pareri anche in materia di didattica e di ricerca, mentre i relativi poteri saranno attribuiti al consiglio di amministrazione. Quest'ultimo sarà aperto agli «esterni», non si sa da chi e come designati, e quindi ad ogni sorta di influenza, anche politica, e ad accordi trasversali con il baronato.
Quanto al reclutamento dei docenti, viene prevista una abilitazione scientifica nazionale, operata per ciascun settore concorsuale da una commissione composta da professori sorteggiati. Il guaio è che l'abilitazione non sarà vincolata ad un numero predeterminato e quindi risulterà particolarmente facile il suo conseguimento da parte di un alto numero di candidati e sicuramente di quelli che possono godere di appoggi «forti». Dopo di che saranno le singole Università tramite i dipartimenti ad operare le chiamate di docenti scelti tra gli abilitati. Insomma si propone un sistema che, oltre a complicare enormemente le procedure, manterrà intatto il potere di scelta del baronato indipendentemente dal merito effettivo.
Altrettanto filo-baronale è la parte del disegno di legge che riguarda i ricercatori. L'attuale fascia dei ricercatori a tempo indeterminato viene collocata ad esaurimento e non si prevede nei prossimi anni un numero adeguato di concorsi per consentire ai più bravi di divenire professori. Si tratta di una vera e propria mortificazione del merito di docenti, sui quali grava una parte consistente dell'attività didattica, che per legge non sarebbero tenuti a svolgere, che va a tutto vantaggio dei gruppi di potere e delle consorterie accademiche. Nel contempo si prevede l'introduzione di ricercatori precari, che o vincono un concorso a professore entro otto anni o sono espulsi dall'Università. Una vera e propria fascia di «portaborse» fortemente subordinata e ricattabile.
Una seria riforma dell'Università richiederebbe di stabilire premi per i docenti che più si impegnano per la didattica e la ricerca e sanzioni per gli altri. Ora, a parte l'approvazione alla camera di un emendamento che stanzia una cifra assolutamente esigua, l'unica previsione contenuta nel disegno di legge in questione è quella della istituzione di un «fondo per la premialità» di professori e ricercatori, che come unica risorsa certa avrebbe, a parte gli improbabili compensi aggiuntivi stabiliti dagli Atenei, lo storno della somma stabilita per gli scatti triennali dei docenti valutati negativamente da ogni singolo Ateneo a favore di quelli più bravi. Anche qui nessuna indicazione né seria previsione in proposito con il più che fondato timore che tutto rimanga come prima a vantaggio di chi utilizza l'Università per altri fini.
Infine, quanto al «fondo per il merito», previsto per gli studenti, si tratta di fumo negli occhi, in quanto, nel mentre si riduce drasticamente la copertura delle borse di studio per gli aventi diritto, risultano risibili ed incerte le fonti di finanziamento (come quella rappresentata dai «versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale da privati, società, enti e fondazioni»). E si tratta anche di una violazione dell'articolo 34 della Costituzione, in quanto agli studenti «privi di mezzi» non viene riconosciuto nessun titolo preferenziale, ma solo l'esenzione dal pagamento del contributo richiesto per la partecipazione alle prove nazionali necessarie al conseguimento di premi e buoni studio (che dovranno comunque essere restituiti al termine degli studi).
Altro che lotta ai privilegi e valorizzazione del merito. Sotto ogni punto di vista la legge Gelmini si dimostra per quello che è: una non riforma, destinata a peggiorare lo stato dell'Università e a perpetuare il potere dei potentati accademici.
E allora non è un caso se il disegno di legge, unanimemente criticato da studenti e ricercatori e da gran parte del personale amministrativo e dei professori, abbia ricevuto il plauso del presidente della conferenza dei rettori. Cioè del vertice nazionale del cosiddetto potere baronale.


* L'autore è professore di diritto costituzionale all'Università di Perugia ed ex membro del Csm


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