DALLA SCUOLA ALL'UNIVERSITA' IN ITALIA
Anno | Tasso di passaggio |
---|---|
2004/2005 | 73,10% |
2014/2015 | 49,10% |
IMMATRICOLATI TOTALI
2014/2015 | 2004/2005 | |
---|---|---|
Immatricolati | 270.145 | 335.541 |
Fonte: Ocse
Crollo al Sud, l'ascensore sociale si è fermato
di SALVO INTRAVAIA
ROMA - L'università è il motore della crescita economica, sociale e politica per qualsiasi paese. Ma in Italia si è ridotta a poco più di un motorino. L'ultimo rapporto a evidenziare la contrazione complessiva del sistema universitario italiano è quello pubblicato dalla Fondazione Res, l'Istituto di ricerca su economia e società in Sicilia, presieduto da Carlo Trigilia, che nel report annuale si è occupato de "L'Università italiana al Nord e al Sud". L'istituto mette in risalto i "cambiamenti profondi nella secolare storia del sistema universitario italiano" e i non pochi "elementi di criticità che ne derivano". "Per la prima volta nella sua storia", spiegano da Palermo, il sistema universitario nazionale "è diventato significativamente più piccolo".
Numeri inquietanti. Gli studenti immatricolati sono crollati del 20 per cento circa (65mila in meno in un decennio) mentre "i docenti passano da poco meno di 63mila a meno di 52mila unità, il personale tecnico amministrativo da 72mila a 59mila, i corsi di studio scendono da 5.634 a 4.628". E "il Fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%". Una raffica di dati che assomiglia a un bollettino di guerra e rappresenta, secondo gli esperti, un ostacolo oggettivo per una nazione che vuole continuare a frequentare il club dei paesi più industrializzati della Terra. "L'Italia - si legge nello studio - ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università". Una scelta politica, nonostante la crisi, opposta a quella dei maggiori paesi avanzati e in via di sviluppo. In altre parole, sottolineano gli esperti dell'istituto siciliano, "non è certo solo effetto della crisi: in Italia, la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell'intervento pubblico".
Penalizzati i più deboli. Secondo Gianfranco Viesti, che ha curato il rapporto, "senza molti buoni laureati la competitività del paese è a rischio". Inoltre, "l'università delle regioni più deboli va rafforzata al massimo, e non progressivamente indebolita, come purtroppo si sta facendo negli ultimi anni". Perché, continua Viesti, "forma le classi dirigenti, nel senso più ampio del termine; svolge attività di ricerca, anche in collaborazione con il tessuto economico locale; trasferisce tecnologie e saperi. Inoltre, specie nelle aree più difficili, è anche un presidio di civiltà". Il Mezzogiorno e i figli di operai e impiegati hanno pagato il conto più salato: 35mila dei 65mila immatricolati in meno sono spariti dagli atenei meridionali. Ma per Fabrizio Micari, neorettore dell'Università di Palermo "non ha molto significato paragonare l'Italia del 2004 con quella del 2014 perché parliamo di due mondi completamente diversi". "Gli analisti concordano nel dire - continua Micari - che gli effetti della crisi sono stati simili a quelli di una guerra". Ma per venirne fuori l'Europa ci chiede da tempo più laureati. La Strategia di Lisbona - lanciata nel 2000 con il fine di trasformare entro un decennio quella del Vecchio continente "nell'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo" - prevedeva già l'aumento del numero dei laureati. Perché i paesi asiatici e quelli in via di sviluppo del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) avevano già eroso quote enormi di mercato ai paesi europei.
Addio obiettivi europei. Un obiettivo rilanciato con la strategia Ue 2020: entro il 2020, i laureati di età compresa fra 30 e 34 anni dovrebbero toccare quota 40%. Ma l'Italia arranca. Nel 2013, figuravamo all'ultimo posto tra le nazioni dell'Unione europea a 28 paesi, con il 22,4%. La Germania poteva contare su una quota del 33% e la Francia sul doppio di giovani laureati italiani: il 44%. Il crollo degli immatricolati rappresenta quindi una specie di spettro per il nostro paese. Dal sociologo all'esperto di mercato del lavoro, l'allarme è unanime. Per Domenico De Masi, sociologo e docente all'università La Sapienza di Roma, "la laurea non serve soltanto per avere più opportunità di lavoro, ma per vivere". "Questa è una società - continua De Masi - in cui occorrerà avere tutti la laurea perché serve pure per capire il telegiornale. La nostra è una società che per essere vissuta appieno necessita di cultura e quindi della laurea". E sul calo verticale degli immatricolati non ha dubbi. "È stato introdotto il numero chiuso e il numero di studenti immatricolati è diminuito, si tratta di una decisione scellerata, una follia assoluta". Per Francesco Ferrante, docente di Economia politica e di Mercato del lavoro alla Luiss e all'Università di Cassino, "la recessione ha sicuramente ridotto per diverse famiglie la possibilità di iscrivere i figli all'università. E la contrazione ha riguardato soprattutto giovani con reddito familiare basso e basso livello di istruzione dei genitori. L'ascensore sociale, in altre parole, si è fermato".
Sul tema del valore della laurea è intervenuto di recente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti con una dichiarazione che ha sollevato un vespaio di polemiche. "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni". Parole che hanno gettato benzina sul fuoco proprio mentre tra le famiglie meno abbienti si sta diffondendo l'idea che "che laurearsi - spiega Ferrante - non conviene più". "Un'idea - sobbalza dalle sedia - assolutamente falsa". Eppure i dati diffusi pochi giorni fa da Eurostat sembrano in qualche modo dare ragione alla diffusa percezione di inutilità: solo poco più di metà dei laureati italiani (52,9%) risulta occupato entro tre anni dalla laurea, il dato peggiore nell'Unione europea dopo la Grecia e lontanissimo dalla media Ue a 28 che nel 2014 era dell'80,5%. Ma le statistiche vanno lette fino in fondo e se alla luce di questi numeri gli sforzi per laurarsi possono apparire deludenti, per i diplomati la situazione è ben peggiore con solo il 30,5% che risulta occupato a 3 anni dal titolo (40,2% nei diplomi professionali).
Facoltà scientifiche in crescita. Il crollo dei nuovi ingressi all'università riguarda infatti soltanto gli studenti delle superiori in possesso di un diploma tecnico o professionale, mentre i liceali sono addirittura aumentati. E ha colpito soprattutto le lauree sociali e umanistiche: Scienze della comunicazione, Giurisprudenza e Sociologia perdono il 45 per cento. Quelle scientifiche, fatto cento il numero totale degli immatricolati, sono passate dal 28 al 34 per cento, con Matematica, Fisica, Chimica e Ingegneria in aumento. "Io sono figlio di operai e mi sono laureato negli anni '70. Oggi non mi potrei più laureare. L'articolo 34 della Costituzione in Italia è ancora in cerca d'autore perché manca una politica strutturale sul diritto allo studio", chiosa Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. "L'aumento degli immatricolati nel settore scientifico - continua - è l'unica notizia positiva: un paese di comunicatori, umanisti e sociologi, e lo dico da latinista, non ha futuro. Il resto rappresenta una tragedia per il Paese".
Sostegno allo studio insufficiente. "E' uno scandalo - rilancia Gaetano Manfredi, presidente della Crui, la Conferenza dei rettori - che non vengano pagate tutte le borse di studio di cui gli studenti hanno diritto: non ha senso che se ti trovi in Lombardia la ottieni e se sei in Sicilia no. Su questo occorrerebbe una garanzia nazionale". "E serve - conclude il rappresentante dei rettori - un sostegno per tutti quei ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali e non proseguono gli studi perché appartenenti a famiglie meno agiate o in difficoltà. Occorre un grande Piano per il Sud".
Per Ivanhoe Lo Bello, vicepresidente Confindustria e delegato alle politiche sull'Istruzione, "la capacità competitiva di un paese si misura sulla capacità delle nostre università. Se continuiamo a perdere capitale umano rischiamo la desertificazione assoluta". E traccia anche una strada da percorrere. "Perdere 65mila immatricolati in dieci anni è un segnale preoccupante, soprattutto al Sud. Abbiamo ragazzi scoraggiati e che non hanno le risorse per sostenersi negli studi. Occorre un investimento serio su campus e luoghi dove i ragazzi possano risiedere e garantire in questo modo la mobilità a basso costo degli studenti. E anche più flessibilità didattica, con percorsi interdisciplinari, più autonomia e una valutazione rigorosa da parte di un agenzia terza. Occorre avviare una riflessione strategica e una discussione su tutto questo". Malgrado il quadro fosco e i tanti motivi di preoccupazione, c'è però chi riesce a intrvedere la luce in fondo tunnel. "Qualche segnale si scorge", dice Micari. "Il Pil - osserva - comincia a crescere e l'occupazione pure. Anche noi a Palermo abbiamo qualche indicatore positivo: le nostre immatricolazioni sono cresciute di qualche centinaio di unità. Bisogna guardare avanti con fiducia".
Più tasse e meno spesa, numeri impietosi
di SALVO INTRAVAIA
ROMA - Sull'istruzione universitaria i numeri "condannano" l'Italia. Perfino la Slovenia, tra i paesi europei, investe più del Belpaese sugli studenti. Mentre Brasile e Sudafrica, con un Pil pro-capite pari ad un terzo di quello italico, fanno meglio di noi. Stando ai dati dell'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - il Belpaese è uno di quelli della vecchia Europa che spende meno sul sistema di istruzione: appena il 7,4 per cento della spesa pubblica complessiva, contro il 9,8 della Germania e l'8,8 della Francia.
Diversa sensibilità sull'argomento dimostrano i governi dei paesi scandinavi, dove si passa dall'11,2 per cento di spesa pubblica dedicata all'istruzione della Finlandia al 14,4 della Norvegia: il doppio dell'Italia. Anche la spesa per studente conferma questo trend: l'Italia, per i soli servizi di base, investe poco più di 6mila dollari Usa a studente. Il dato riportato dall'Osce risale al 2012, ma nello stesso anno in Francia si spendevano 9mila e 500 dollari, esattamente quanto la media dei paesi Ocse, e 9mila e 200 in Germania. Uno sforzo che si traduce in un sostegno concreto per famiglie e ragazzi che vogliono avventurarsi negli studi universitari.
Il calo di iscritti e immatricolati registrato infatti in Italia non ha riscontri nella maggior parte dei paesi del Vecchio continente. Mentre da noi le aule universitarie si svuotavano, nel resto del mondo si popolavano di nuovi studenti. In appena quattro anni - dal 2008 al 2012 - nei paesi dell'Ocse in media l'aumento degli studenti universitari è stato del 9 per cento. In Spagna del 12 per cento e in Francia del 6 per cento. Una famiglia finlandese farebbe fatica a concepire una tassa per frequentare l'università perché in quasi tutti i paesi della penisola scandinava questo genere di balzelli non esistono neppure. E una grossa fetta di studenti percepisce anche contributi pubblici o la più classica borsa di studio. È sempre il caso della Finlandia dove, oltre a non conoscere tasse di iscrizione, il 52 per cento degli studenti viene sovvenzionato dallo Stato per studiare.
In Italia - il terzo paese europeo per pressione fiscale universitaria dopo Regno Unito e Olanda - le tasse universitarie sono invece sempre più salate: 1.602 dollari Usa nel 2013/2014 contro i 215 a carico dei giovani francesi. In un decennio, dal 2004 al 2014, la pressione fiscale a carico di famiglie e studenti è lievitata del 45 per cento. L'Italia è, tra i paesi europei più industrializzati, anche quello dove il sostegno pubblico agli studenti bisognosi è minimo: appena il 20 per cento. In Germania, Spagna, Grecia e Portogallo tutti gli studenti ricevono almeno un contributo. In Finlandia "soltanto" l'80 per cento e in Francia uno studente su tre. Un divario che salta all'occhio appena si fruga tra i numeri sui servizi offerti agli studenti. Nella Penisola non si va oltre ai 4mila dollari Usa, che Oltralpe diventano 5.779 e sfiorano addirittura gli 8mila dollari nel paese della Merkel. E, come se non bastasse, arriva la ciliegina sulla torta - o forse sarebbe meglio dire il colpo di grazia - della riforma dell'Isee, l'Indicatore della situazione economica familiare in base al quale si calcolano le tasse universitari e gli esoneri. Un'innovazione che da subito gli studenti hanno percepito come sfavorevole.
I primi dati forniti dall'Unione degli universitari - ancora parziali, ma riferiti al 67 per cento delle borse di studio dello scorso anno - lo confermano: a perdere il beneficio nel 2015/2016 è stato almeno uno studente su cinque. Forse il calo verticale dal 73 al 49 per cento in un decennio del tasso di passaggio dalla scuola all'università non è dovuto al caso.
Il colpo di grazia dalla riforma dell'Isee
di SALVO INTRAVAIA
ROMA - Secondo gli studenti, l'Italia è uno dei peggiori paesi europei per studiare all'università. E i dati sembrano dare loro ragione. Borse di studio col contagocce, tasse altissime e pochissimi servizi descrivono un mondo dove per sopravvivere occorre mettere in pratica l'ormai proverbiale arte di arrangiarsi italiana. Altrimenti, le alternative sono due: farsi sostenere dalla famiglia oppure gettare la spugna. E, a dare il colpo di grazia allo striminzito diritto allo studio nostrano, il nuovo calcolo dell'Isee: l'indice della situazione economica equivalente familiare, utilizzato per assegnare le borse di studio e per il calcolo delle tasse universitarie da pagare.
Lorenzo Guastalli, studente di ingegneria a Pisa, per cinque anni ha percepito la borsa di studio che gli dava diritto a due pasti che consumava alla mensa universitaria e a un alloggio gratuito. Inoltre percepiva un contributo monetario di 1.200 euro all'anno per i mezzi pubblici e i libri. Ma da quest'anno, per il cambio delle regole sull'Isee, ha perso tutti i benefici. "Ho dovuto affittare una camera e ricominciare a fare la spesa per mangiare - racconta Lorenzo - In tutto, ogni mese spendo da 500 a 600 euro che sono costretto a chiedere alla mia famiglia. Mia madre è disoccupata e mio padre fino a poche settimane fa era cassintegrato e da poco riassunto. Per fortuna, avevano dei risparmi da parte e mi danno un aiuto per laurearmi. Abbiamo la stessa macchina da vent'anni e non abbiamo mai fatto una vacanza per mettere da parte qualche soldo in famiglia. Io ormai sono all'ultimo anno della laurea magistrale e stringo i denti. Ma un ragazzo ai primi anni rischia di lasciare perdere tutto. Purtroppo in Italia come diritto allo studio siamo al medioevo". Ora Lorenzo spera nella borsa di studio straordinaria prevista dalla regione Toscana per tutti gli studenti estromessi dai benefici a causa del nuovo Isee. Ma se tutto andrà bene, la borsa arriverà a febbraio e non darà diritto all'alloggio perché a Pisa per 3mila aventi diritto i posti nelle residenze universitarie sono appena la metà.
Qualche mese fa, il Cnsu - il Consiglio nazionale degli studenti universitari, l'organo ufficiale di rappresentanza studentesca di stanza al Miur - ha pubblicato il Rapporto annuale sulla condizione studentesca in cui gli studenti bacchettano la politica. "Crediamo - si legge nel report - che lo scarso finanziamento (del sistema universitario, ndr) sia dimostrazione di una visione politica che vuole un restringimento del mondo accademico, in cui si ragiona come 'costo sul presente' e non come 'investimento sul futuro'. Al contrario, riteniamo che sia necessario puntare sull'università elevandola a priorità per il nostro paese, affinché riceva una valorizzazione coerente con il ruolo fondamentale che la conoscenza ricopre in un sistema economico competitivo e globale come quello attuale".
Una critica suffragata dai dati: nell'arco degli ultimi sei anni - dal 2006/2007 al 2012/2013 - nel nostro paese i "borsisti", coloro che hanno fruito di una borsa di studio, sono calati dell'8 per cento. Mentre in Germania si è registrato un incremento del 33 per cento e in Francia del 34 per cento. Anche la malandata Spagna ha dato fondo a tutte le proprie risorse incrementando le borse di studio addirittura del 59 per cento. In Italia, il diritto allo studio langue anche se qualche segnale arriva dall'ultima legge di stabilità approvata.
"In un solo anno - spiega Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell'Unione degli universitari - l'Italia ha perso 25 mila studenti universitari. I fattori che incidono su questa perdita sono molteplici. Innanzitutto il problema del sotto finanziamento strutturale del sistema universitario, che riguarda in primis il diritto allo studio, un diritto costituzionalmente garantito, ma che oggi sembra un privilegio per pochi". Per Alberto Campailla, portavoce di Link-Coordinamento universitario, "esiste un enorme problema rispetto all'accesso ai corsi universitari. Come denunciano numerose indagini, il crollo delle immatricolazioni ha colpito di più le fasce più povere della popolazione dimostrando l'inadeguatezza dei servizi del diritto allo studio ed evidenziando come l'elevata tassazione costituisca una vera barriera per l'accesso agli studi, con particolare gravità nelle regioni del Sud".
Qualcosa però si muove. Con l'ultima legge di Stabilità il governo ha stanziato 55 milioni in più per le borse mentre il fondo per il diritto allo studio sarà incrementato di 5milioni. E il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei crescerà di altri 55 milioni ma solo per finanziare gli atenei virtuosi. "A fronte della gravità della situazione - conclude Campailla - le misure adottate dal governo sono totalmente insufficienti, sia sul fronte del diritto allo studio che su quello del finanziamento generale all'università".
Segnali di ripresa dalle matricole 2015-2016
di CORRADO ZUNINO
ROMA - Quello in corso - il 2015-2016 - potrebbe essere l’anno (accademico) della svolta per l’università italiana. Dopo dieci anni di immatricolazioni in discesa, ovvero di due studenti in meno ogni dieci che sono passati dalla maturità all’alta educazione, i segnali indicano un cambio di direzione: il ritorno alla crescita. I dati sono parziali ma significativi, da leggere con prudenza ma anche con un principio di ottimismo. Repubblica – per confrontare i numeri ufficiali del ministero dell’Istruzione ancora in ritardo – ha chiesto a 77 singoli atenei i dati aggiornati sulle immatricolazioni in corso. Cinquantotto hanno risposto garantendo la comparazione con gli iscritti al primo anno della stagione precedente. Il risultato è che trentotto (38) atenei risultano in crescita per quanto riguarda le matricole e venti (20) sono ancora in calo.
Quello degli immatricolati è il dato più sensibile per capire lo stato di salute della singola università e del sistema italiano e, a questo punto della stagione, è un dato sufficientemente assestato (lo stesso non si può dire per gli iscritti totali). Senza offrire numeri in assoluto, è interessante tuttavia notare che diverse inversioni di tendenza si registrano in università grandi, a partire dalla più grande di tutte. La Sapienza di Roma torna a crescere dopo un lungo periodo di depressione: al 29 dicembre scorso ha registrato 18.034 nuovi studenti al primo anno, 223 in più (l'1,2 per cento). Va anche detto che il ritorno in positivo del gigante Sapienza sembra avvenire a scapito degli altri due atenei romani di riferimento: Tor Vergata con 5.130 matricole registrate a inizio gennaio perde 314 studenti (-6,1 per cento) e Roma Tre con 5.289 nuovi studenti al primo anno ne perde 304 (-5,7%). Cresce, ancora, un ateneo privato come la Luiss.
Il polo di Milano – su performance migliori anche nella scorsa stagione – nel 2015-2016 è tutto in positivo. La Statale sale a 13.202 immatricolati (+0,8 per cento), la Bicocca a 9.814 (+0,9 per cento), la Cattolica a 8.308 (+3 per cento). E così il Politecnico e le private Bocconi e San Raffaele. Lo Iulm di Milano prende duecento matricole in più che rappresentano, viste le dimensioni, quasi l'11 per cento. Cresce di poco Bologna, crescono meglio Genova, Bergamo, Pavia e Parma. Ha un boom Modena-Reggio Emilia: +12,3 per cento. E' in positivo una grande università come Padova: le immatricolazioni a inizio anno hanno raggiunto quota 11.365, +8,4 per cento. E così vanno meglio atenei medio-piccoli come Camerino e Macerata e atenei del Sud da tempo in grave difficoltà. A Catania, a ieri, i nuovi iscritti al
primo anno erano 6.469, l'11,4 per cento in più. Buoni risultati arrivano dal Politecnico di Bari, dal Molise, dalla Federico II di Napoli, dalle università del Salento e di Salerno.
E’ un quadro attendibile ma parziale: di fronte a cifre ancora mosse, le interpretazioni sono azzardate, ma - probabilmente - la lunga decade della crisi di attrazione dell’università italiana alla prossima primavera si potrà dire chiusa.