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Istruzione universitaria: lasciare o raddoppiare?

l’università è divenuta meno attrattiva nei confronti dei diplomati, con una perdita di 60mila immatricolati nel corso dell’ultimo decennio

09/05/2014
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ROARS

Federica Laudisa

L’investimento in istruzione terziaria è un investimento lungo, costoso e con un ritorno economico di medio-lungo periodo. Lungo, perché il percorso del 3+2 viene completato, in media, all’età di 27 anni, vuoi per il ritardo accumulato nel conseguimento della laurea di primo livello, terminata mediamente in 4 anni e 7 mesi (dati AlmaLaurea), vuoi perché una quota di studenti si immatricola oltre l’età canonica (uno o più anni dopo il diploma). Un laureato si affaccia sul mercato del lavoro tardi, quasi alla soglia dei 30 anni. Costoso perché, contrariamente al dire comune, l’università italiana comparata al “mercato” europeo risulta la più cara, preceduta solo dal Regno Unito e i Paesi Bassi. Se uno studente italiano paga, in media, oltre 1.000 euro di tasse universitarie l’anno, con marcate differenze da ateneo ad ateneo (in alcune realtà la media raggiunge i 1.700 euro), in diversi stati europei l’accesso è gratuito o quasi: è il caso della Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Austria (dove è gratuita per gli studenti a tempo pieno UE in corso), Germania (dove su 16 Länder solo 2 applicano le tasse universitarie pari a 500 euro a semestre), Francia (dove iscriversi ad un corso di 1° e 2° livello costa poco meno, nel primo caso, poco più, nel secondo, di 200 euro annui).

Infine, con un ritorno economico di medio-lungo periodo perché, come ben fotografa il rapporto AlmaLaurea 2014, le prospettive lavorative dei neo-laureati sono grigie, ingrigitesi ancor più nell’ultimo periodo di crisi economica. Il tasso di disoccupazione, ad un anno dalla laurea, è del 26% tra i laureati triennali e del 23-24% tra i laureati magistrali e i magistrali a ciclo unico. Quanti trovano un’occupazione debbono accontentarsi di retribuzioni basse, circa 1.000 euro netti mensili, e di contratti poco stabili: i laureati triennali con un contratto a tempo indeterminato sono il 27%, quelli magistrali il 26%, mentre nel 2008 erano, rispettivamente, il 42% e il 34%. Ma trascorsi cinque anni dalla laurea la condizione occupazionale migliora sensibilmente; la disoccupazione è meno del 10%, i guadagni si attestano sui 1.400 euro netti mensili, e la stabilità concerne il 70-80% dei laureati. Dunque la laurea paga, ma paga soprattutto “alla lunga”.

Davanti a questo scenario non c’è da sorprendersi se l’università è divenuta meno attrattiva nei confronti dei diplomati, con una perdita di 60mila immatricolati nel corso dell’ultimo decennio. La figura 1 indica chiaramente che sono soprattutto i diplomati tecnici e professionali a decidere di non proseguire gli studi, notoriamente provenienti da contesti familiari più svantaggiati, che con maggiori difficoltà possono sostenere il costo del (lungo) investimento in istruzione con una efficacia tardiva. Il tasso di passaggio è sceso dal 42% al 31% per i primi, e dal 22% al 16% per i secondi. Un calo che il nostro paese non può permettersi, già fanalino di coda per percentuale di laureati nella fascia di età 25-34 anni (pari al 21% contro una media UE del 36%), e oltretutto meno scolarizzato nel livello inferiore di istruzione, considerato che il 71% dei giovani possiede un diploma contro l’84% degli europei.

Fig. 1 - La percentuale di diplomati immatricolatisi all’università per tipo di diploma, tre anni a confronto: 2003/04, 2006/07 e 2012/13fig1

Il paradosso italiano è che il dibattito pubblico non è incentrato su come si possa conseguire l’obiettivo posto dalla Commissione Europea di raggiungere quota 40% di laureati nella popolazione giovane entro il 2020 – non solo e non tanto perché ci viene chiesto, ma perché tale obiettivo sottende l’idea ormai assodata che non ci può essere crescita di un paese senza sviluppo del capitale umano – ma in un ribaltamento di ottica che porta a guardare al dito e non alla luna, si rimane incantati nel ritornello “ci sono troppi laureati”. La diretta conseguenza è che si veicola il messaggio (da laureati) che non è indispensabile acquisire il diploma di laurea, ma è preferibile fare altro avendo “l’intelligenza nelle mani”, con il risultato di accantonare l’analisi delle problematiche e le azioni possibilmente risolutive dell’elevamento del livello di istruzione della società italiana. Ci si dovrebbe piuttosto porre delle domande, e dare delle risposte, in primo luogo su come incentivare le iscrizioni all’università, quindi su come migliorare le performance degli studenti – per ridurre il tasso di abbandono, specie al primo anno di corso, e i tempi di conseguimento della laurea (ancora lunghi nonostante successivamente alla riforma universitaria siano divenuti più contenuti) – ed infine su come favorire e ottimizzare la transazione nel mondo del lavoro.

Fig. 2 – I beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia, gli a.a. 2006/07, 2010/11, 2011/12 e 2012/13 a confronto

fig2

Il sistema di sostegno agli studenti svolge – o dovrebbe svolgere – un ruolo fondamentale nella rimozione degli ostacoli di ordine economico-sociale garantendo pari opportunità a tutti gli studenti (anche se privi di mezzi) nel raggiungimento dei più alti gradi di istruzione. Purtroppo è una politica pressoché inesistente nel nostro Paese, riguarda il 10% della popolazione studentesca ma soltanto il 7% ne beneficia di fatto – poiché essere idoneo alla borsa di studio in Italia non significa necessariamente diventare borsista (a causa di un meccanismo di finanziamento inadeguato e di risorse scarse). Il divario è eclatante rispetto ad altri paesi europei dove, come ben evidenzia la figura 2, nonostante la crisi si è continuato a investire nel diritto allo studio anche in modo consistente. Un esempio su tutti è la Francia che con i suoi 629mila borsisti (+34% rispetto al 2006/07), un numero 4,5 volte superiore a quello dell’Italia, fornisce il sostegno a circa uno studente universitario su tre; a ciò affianca una ristorazione universitaria capillare (642 mense contro le 222 in Italia) ad un costo contenuto (la tariffa è di 3,15 euro a pasto per tutti su tutto il territorio nazionale), e una consistente politica abitativa realizzata sia attraverso le residenze studentesche (accoglienti 170mila posti letto rispetto ai 40mila nel nostro Paese) sia attraverso l’erogazione di un contributo affitto (del quale sono beneficiari circa 700mila studenti).

La scarsa efficacia del diritto allo studio in Italia non dipende solo dalla sua limitata espansione ma dalla modalità in cui viene messo in pratica. I bandi del concorso sono pubblicati in tempi diversi, con scadenze diverse e soprattutto con condizioni diverse a seconda della sede universitaria scelta; tendenzialmente gli studenti sono informati a dicembre, quindi ad anno accademico inoltrato, se sono detentori di borsa di studio, e a gennaio, nell’ipotesi migliore riceveranno la prima rata (ma in alcune realtà i tempi di erogazione sono dilatati).

Vi sono ampi margini per migliorare gli interventi a favore degli studenti affinché si incoraggi ed agevoli l’accesso all’università soprattutto da chi proviene da contesti sociali meno abbienti. Invece, la parola che è ricorsa di frequente nei programmi dei Ministri che si sono susseguiti negli anni recenti è prestiti (sic!). La Gelmini li ha introdotti sulla carta con il Fondo per il merito, Profumo ha tentato di far partire la Fondazione per il merito che doveva attuarli, e ora la Giannini dichiara l’intenzione di costituire “un fondo nazionale per le borse, erogate anche nella forma del prestito d’onore”. Ma quale effetto potrebbe avere sui diplomati italiani la prospettiva di studiare indebitandosi, di affacciarsi da laureati in un mondo del lavoro assai ostico con un debito sulle spalle, posto che ricerche anglosassoni evidenziano come il timore di indebitarsi sia maggiore tra le fasce meno agiate della popolazione e rappresenti un deterrente per l’iscrizione all’università (seppure in un mercato lavorativo differente)? Deleterio.

https://www.roars.it/online/istruzione-universitaria-lasciare-o-raddoppiare/


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