Insciallà o della buona scuola
Ecco perchè la sedicente Buona Scuola non avrà mai dagli insegnanti la risposta che i suoi creatori desiderano
Il mio amico Ahmed, che viene dal Ghana, me lo dice spesso. Io gli auguro di trovare un lavoro e di sistemarsi in Italia, e lui risponde: insciallà. Io gli dico: ci vediamo qui tra cinque minuti, e lui risponde: insciallà. Se dio vuole, insciallà.
Volendo prendere questa concezione alla stregua di una filosofia, credo di poterla capire e mi affascina anche; ma a dir la verità, quando la vedo applicata a progetti importanti provo un po’ di disappunto, mentre quando si parla di rivedersi dopo cinque minuti mi viene da sorridere: perché non posso fare a meno di pensare che la filosofia dell’insciallà tenda a sottrarre alla ragione umana il compito che le è proprio. Se c’è una cosa in cui mi sento “occidentale”, come si dice, cioè sostanzialmente greco e latino, è questa: quisque faber fortunae suae, ciascuno è artefice della propria sorte.
Si può fallire, ci si può ingannare, ma per noi questa è la via. Non sono migliore di Ahmed (che difatti ha saputo varcare il mare, mentre io per mia fortuna non so se ne sarei capace): ho solo letto Ippocrate, Tucidide e Aristotele; e ho letto Tommaso, Alberto e Dante, che dinanzi ai misteri della fede esclamava «matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer l’infinita via / che tiene una sustanzia in tre persone», ma di fronte a un progetto di riforma delle cose umane non avrebbe risposto se Dio vuole neppure al papa (anzi, tantomeno a lui). Li ho letti e ormai non posso più tornare indietro.
Ecco, alla fine dei conti, al nocciolo della questione, credo sia per questo che la sedicente Buona Scuola non avrà mai dagli insegnanti la risposta che i suoi creatori desiderano, e che a corrispettivo di tanta bontà (che ingratitudine!) perfino si stupiscono di non ricevere: perché l’unica risposta benevola e sincera che dalle nostre aule potremmo proferire è insciallà.
Diamo ai dirigenti un po’ di danaro da distribuire alla fine dell’anno a qualche docente da loro prescelto, così gli insegnanti, sapendo che il merito è valorizzato, lavoreranno di più e meglio: veramente quello che in vent’anni di insegnamento ho imparato sui dirigenti, sui docenti e sulla scuola mi dice che questo stimolo non si otterrà, e che al contrario si rischia di invelenire l’ambiente di lavoro.
Obblighiamo tutti gli studenti liceali dai sedici anni in su all’alternanza scuola-lavoro, così dopo una quindicina d’anni (bisogna essere ottimisti) lo troveranno più facilmente, il lavoro: stento a vedere il benché minimo nesso tra le due cose.
Cambiamo la formazione universitaria dei docenti sostituendo il biennio della laurea specialistica e disciplinare con un biennio pedagogico-didattico interdisciplinare, così avremo docenti più bravi: mah, finora si pensava che chi studia una disciplina per insegnarla al prossimo dovesse apprenderla meglio, non peggio di chi la studia per qualsiasi altra professione.
Assegniamo agli istituti migliaia di docenti “di potenziamento” privi di ore di lezione curricolare, perché potenziare è cosa buona: per carità, più sarà meglio di meno, però risulta che uno dei problemi della scuola italiana non sia il piccolo numero delle cose che si studiano, ma spesso il suo opposto; e un docente è tale se ha degli allievi che possa chiamare suoi.
Sostituiamo la titolarità dei docenti negli istituti con liste territoriali, da cui i dirigenti attingano ogni triennio consultando i loro portfolii pubblicati in chiaro in un portale online ed incrociandoli sagacemente con le specifiche esigenze del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (qui vien proprio da sorridere): l’esperienza della scuola e degli uomini mi dice che un sistema del genere da un lato indebolirà la libertà, l’autorevolezza e la serenità dei docenti di valore, dall’altro accrescerà l’impulso al servilismo e al disimpegno nei docenti che valgano poco, senza che in ogni caso gli studenti ne ricevano il benché minimo vantaggio. E, soprattutto, continuiamo a puntare sulla competizione tra gli istituti, perché la competizione è la spinta più potente al miglioramento in tutti i campi dell’umana società: a dir la verità, da quando si è cominciato a mettere le scuole in competizione una con l’altra abbiamo assistito solo a una continua spinta all’ipocrisia e alla vanità nel procacciamento degli iscritti, mentre le attività didattiche serie hanno lasciato la scena a iniziative ed eventi scelti in ragione della loro visibilità.
Così è, se vi piace, la politica scolastica in Italia. Idee che, se fossero espresse alla buona in una cena tra amici, forse persino nei ristoranti di Arcore e Rignano, non troverebbero più credito e attenzione di quelli che si concede per pura cortesia a interlocutori poco informati e chiacchieroni, che assurgono a Principî di Riforme.
Enrico Rebuffat*Liceo Michelangiolo, Firenze