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Il professore sulle scale della burocrazia

La vita del professore universitario è una vita trascorsa percorrendo vorticosamente gradini burocratici che rendono reale la metafisica di Maurits Cornelis Escher. Ce lo racconta Nicola Casagli, con qualche episodio di vita vissuta, alle prese con nuovi corsi di studi internazionali e norme sull’immigrazione, tirocini professionalizzanti e norme della sicurezza. Quando il nemico non è direttamente ANVUR, ci pensa la burocrazia italica a creare gradini impossibili.

16/10/2018
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ROARS

Nicola Casagli

Ti dicono che bisogna essere internazionali, non solo nella ricerca, ma anche nella didattica.

Ti dicono che bisogna attrarre gli stranieri e insegnare in Inglese, anche se tu sei nella città che ha inventato la Lingua Italiana e la custodisce con l’Accademia della Crusca.

E allora organizzi un nuovo corso di studio internazionale.

Mandi la proposta all’ANVUR, perché ormai tutte le università sono commissariate da questo mostro burocratico infestato da scarafaggi.

E allora l’ANVUR ti boccia la proposta, non perché non sia fatta bene o non sia scientificamente valida, ma perché collide con gli interessi di bottega degli ordini professionali, entità che – come noto – esistono solo e soltanto in Italia.

E allora rifai tutto da capo, inserendo norme e clausole che possono essere comprese solo dagli azzeccagarbugli degli ordini professionali, ma ovviamente non dagli stranieri a cui il nuovo corso è rivolto.

E allora ricevi 120 richieste di nulla osta all’iscrizione: 2 dall’Italia e 118 dal resto del Mondo, a ulteriore conferma che il corso è concepito per attrarre studenti stranieri.

E allora, dopo attento screening, con tanto di commissioni e verbali, ne accetti un centinaio perché bisogna essere selettivi.

E alla fine, a rendere vano tutto questo, ci pensano gli uffici delle ambasciate, che negano il visto agli studenti extra-comunitari rendendo loro impossibile l’iscrizione. Sarà per la stretta sull’immigrazione?

Ti dicono che bisogna fare l’alternanza scuola-lavoro.

Che gli studenti universitari devono fare esperienza diretta nel mondo delle professioni.

Perché la Repubblica è fondata sul Lavoro, anche se il 42% dei giovani il lavoro non lo ha mai visto.

Tu pensi che prima di lavorare sarebbe meglio studiare e che nel Medioevo le università le inventarono proprio per questo.

Ma poi pensi che i bei tempi del Medioevo sono finiti per sempre e che adesso siamo nel pieno dei secoli bui, in cui chi non ha mai lavorato né insegnato insegna agli altri come lavorare.

E allora ricorri ai tirocini.

Almeno esiste già un sistema organizzato e una piattaforma informatica per evitare di perdere tempo in scartoffie, firme digitali, PEC e altre idiozie più o meno digitali.

E’ bene che gli studenti non sappiano che il mondo del lavoro è ridotto ormai a questo, per non far perdere loro la speranza nel futuro.

E allora mandi decine di studenti a fare tirocini qua e là.

Tornano contenti, hanno visto come funziona il mondo esterno, hanno qualche speranza e motivazione in più per completare rapidamente il corso di studi.

E allora ti dicono dagli Uffici che non si può più fare.

Almeno non negli studi professionali individuali e associati, che sono i principali creatori e datori di lavoro nelle professioni tecniche.

Dicono che adesso c’è una norma regionale, o forse statale, o forse chissà, che obbliga chi ospita un tirocinio a nominare un RSPP e a fare un DVR, in adempimento delle norme sulla sicurezza.

Peccato che gli studi professionali individuali e associati non siano tenuti a questi adempimenti, riservati a soggetti giuridici che hanno lavoratori dipendenti.

E allora è ovvio che nessuno si mette a fare RSPP, DVR e altre incomprensibili sigle, al solo fine di ospitare un tirocinio.

Il risultato è che ora i tirocini si faranno solo negli enti pubblici, che sono bravissimi a fare RSPP, DVR e altri acronimi con tutte le possibili combinazioni dell’alfabeto latino, ma che – notoriamente –  hanno il turn over bloccato dalle scellerate norme di contenimento della spesa.

Il #cambiamento qui all’Università non si è ancora visto.

Quel poco che si è visto è cambiato in #peggio.


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