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Il capitale umano che i test ignorano

Il presidente del Consiglio Monti invita a metter mano al miglioramento del capitale umano italiano, poiché il Paese è in coda per il numero di diplomati, dopo l’Estonia, la Polonia, il Cile e la Slovenia.

09/01/2012
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Il Messaggero

di GIORGIO ISRAEL

IL presidente del Consiglio Monti invita a metter mano al miglioramento del capitale umano italiano, poiché il Paese è in coda per il numero di diplomati, dopo l’Estonia, la Polonia, il Cile e la Slovenia. Occorre chiedersi se questi parametri misurino un’effettiva inferiorità formativa. Pensando alla tradizione dell’Italia sul piano culturale, scientifico, tecnico e artistico, a quel che si «respira» nel Paese, se non altro per la presenza della massima concentrazione di beni culturali del mondo, pensando alle straordinarie capacità creative in tanti campi, c’è da dubitarne, per quanto evidente sia la crisi del sistema dell’istruzione. Un corretto procedere scientifico imporrebbe piuttosto di spiegare il paradosso: quando un risultato statistico è in stridente contrasto con l’evidenza occorre verificare se non si è capito qualcosa o se è l’analisi che non funziona. Tanto più se il paradosso investe altri Paesi: incredibilmente l’Estonia è al vertice mondiale, la Francia fa una cattiva figura (sotto la media Ocse), la Spagna è al disastro, Israele è battuto dalla Slovenia.
Viviamo nella mitologia dei numeri. Gli ingegneri francesi, primi a introdurre la statistica nelle scienze sociali e nel management, ammonivano che con i numeri si dimostra tutto e il contrario di tutto. Questa saggezza si è persa e siamo all’opposto della tesi del grande matematico Poincaré, secondo cui la misurazione delle qualità «morali» è lo scandalo della scienza: si crede ciecamente a qualsiasi tabella. Occorrerebbe invece chiedersi cosa vi sia dietro quei titoli di studio messi a confronto, e magari inconfrontabili: persino i numeri possono essere incommensurabili tra loro, figuriamoci i contenuti della formazione. Un esempio per tutti. La Finlandia è comunemente indicata come un modello dell’istruzione, prima nelle classifiche Ocse.
È indubbio che le immagini delle scuole finlandesi, linde e lucenti rispetto alle aule decrepite delle nostre scuole, rafforzano tale convinzione. Ma andando a fondo si scopre che non è oro quel che luccica e che molte voci in quel Paese denunciano il grave declino della formazione matematica compromessa da un piatto pragmatismo. Come ha scritto uno dei massimi matematici finlandesi, «in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo nelle classifiche Ocse-Pisa se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche». Non è difficile dimostrare che uno studente italiano, malgrado tutto, ha una preparazione matematica superiore e assai più profonda di quella di uno studente finlandese, sebbene figuri molto più in basso nelle statistiche internazionali. Questo chi conosce la scuola lo capisce bene. Gli «esperti» fanno orecchie da mercante e si attengono ai dati numerici come se fossero le tavole del Sinai. Prima di dire che il «capitale umano» estone è superiore a quello italiano occorrerebbe esaminare a fondo il livello di alfabetizzazione, di formazione letteraria, matematica e scientifica sulla base dei contenuti della formazione, invece di giustapporre dati il cui confronto può essere privo di senso.
Il vero problema è l’obbiettivo verso cui si mira. Se com’è usuale si considera la formazione culturale una perdita di tempo, se si ritiene che la scuola debba soltanto formare forza-lavoro per le aziende, se si crede che la scienza non serva alla tecnologia e che tutto ciò che è «umanistico» è chiacchiera inutile, allora l’Italia è malmessa. Se pensiamo tornando all’esempio finlandese che non serva sapere cos’è una frazione e che la matematica debba essere ridotta a un insieme di ricette di calcolo, allora siamo malmessi. Ma una simile visione è sbagliata e miope. Se Steve Jobs fosse stato soltanto un abile tecnico informatico non avrebbe conseguito tanti successi. Per salvare l’industria musicale non bastava la tecnica Mp3 o l’invenzione dell’iPod: ci voleva un’idea rivoluzionaria della diffusione e gestione dell’informazione che è frutto di una visione culturale. Jobs stesso ha ricordato il ruolo che ebbe per lui lo studio della calligrafia, la scoperta di Leon Battista Alberti e del Rinascimento italiano e quanto questi riferimenti culturali l’abbiano ispirato. È lungimirante considerare questi «nostri» riferimenti culturali e lo studio della storia dell’arte l’ingombro che ci preclude il progresso?
Quindi, a seconda del criterio interpretativo, l’Italia è un fanalino di coda, oppure un Paese che, malgrado i suoi guai, precipita più lentamente di altri nel declino dell’Europa. Perché questo è il nodo. Come non vedere il drammatico declino culturale e dei sistemi dell’istruzione del continente? Non si tratta di riproporre la critica per aver costruito l’Europa sull’economia. Si poteva ben iniziare dalla moneta, con la ferma consapevolezza però che il primo compito era por mano a un processo di integrazione culturale e della formazione reso difficile dall’esistenza di tante lingue e culture diverse. L’obbiettivo come diceva una decina di anni or sono un intellettuale francese doveva essere la formazione di giovani dotati della conoscenza di non meno di tre delle lingue principali del continente e della capacità di assimilarne le culture portanti, di amarle come la propria. Invece non abbiamo visto che il simbolo del fallimento era tra le nostre mani: in quelle carte-moneta per le quali non si era trovato il consenso necessario a stamparvi le grandi figure della civiltà europea, e neppure i monumenti principali, bensì solo forme stilizzate. Era un fallimento provocato dal politicamente corretto che ha respinto il fatto ovvio che non tutte le culture e le lingue europee hanno lo stesso peso. Ma se non è stato possibile battere in breccia queste diffidenze e queste chiusure, su che basi costruire l’amore per la civiltà e la cultura dell’altro?
Ci si è invece rifugiati nel minimo comun denominatore, rappresentato dalle famose otto «competenze chiave» di Lisbona volte al ristretto scopo di facilitare lo scambio di forza-lavoro. È un elenco di abilità minime in termini di comunicazione linguistica, di capacità di calcolo e tecnologica, «competenze» sociali, civiche, imprenditoriali, digitali. È una miscela di formalismo e di economicismo che prefigura sistemi dell’istruzione in cui non c’è più posto per le culture del continente. Di che stupirsi se progetti che dovevano essere il motore della conoscenza culturale reciproca, come Erasmus, si sono ridotti a viaggi-vacanze in cui neppure ci si sforza di apprendere la lingua dell’altro e che offrono ai docenti di ogni Paese il mezzo gaudio di un mal comune? Di che stupirsi se le chiusure nazionalistiche sono più forti di prima?
Questi sono i veri problemi del continente, così strettamente connessi alla crisi economica che lo mette in affanno. Per il resto, sarebbe meglio evitare di trarre conclusioni affrettate da statistiche che rischiano di farci inseguire lustrini illusori i quali potrebbero indicare soltanto la via per un declino più veloce.


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