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I pericoli per la scuola delle nuvole virtuali

un caso che investe, ormai, gran parte del mondo dell’istruzione Usa

20/12/2013
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Corriere della sera

Alcuni distretti scolatici americani, come quello di Hillsborough, in New Jersey, stanno introducendo in via sperimentale materiali di Google — tablet Nexus 7, applicazioni dedicate, una versione di Google Play modificata per le scuole — in tutte le classi dal «kindergarden» alla quarta elementare: un’iniziativa che rivoluziona il modo d’insegnare e il rapporto dei bambini con l’apprendimento. Esperimento interessante e, certo, non unico: sono moltissime le scuole che hanno già adottato gli iPad della Apple mentre da anni Bill Gates finanzia con la sua fondazione filantropica, oltre alla lotta alle malattie endemiche in Africa, anche quella contro il decadimento del sistema scolastico Usa. Che lui cerca di rilanciare, a partire dallo Stato di Washington (quello della sua azienda), con potenti iniezioni di software . Soprattutto quello firmato Microsoft, ovviamente.
Ancora una volta iniziative interessanti, sostenute da uno sforzo d’innovazione sicuramente ammirevole. Ma anche una rivoluzione tecnologica e culturale che rischia di provocare disorientamento e danni di lungo periodo per via di una gestione piuttosto casuale delle nuove soluzioni. Dietro le quali non c’è quasi mai una riflessione approfondita da parte dei responsabili scolastici sull’impatto che l’universo digitale sta avendo sulla formazione dei ragazzi e sui programmi scolastici. A proporre, sviluppare e incanalare, sono le aziende digitali: le società della Silicon Valley sono i soggetti che ne sanno di più, quelli più in grado di guardare lontano, è vero. Ma i loro interessi non possono coincidere con quelli dei responsabili di un sistema scolastico.
Una conferma viene da un altro caso che investe, ormai, gran parte del mondo dell’istruzione Usa. Parliamo dell’elaborazione dei dati degli istituti e di quelli dei risultati degli studenti, ormai trasferiti in un universo impalpabile. I dati, in sostanza, emigrano dai vecchi registri cartacei alle cloud : quelle nuvole virtuali zeppe di informazioni che continuano a moltiplicarsi nell’etere fino a diventare l’archivio digitale delle nostre vite. Nulla di strano se lo fanno anche le scuole. Ma ora quelle nuvole sono in mano ad aziende informatiche che non fanno mistero di voler realizzare profitti utilizzando i dati degli studenti. Dati che vengono depositati nella cloud senza alcuna precauzione né garanzie circa il rispetto della privacy degli allievi. Qualche giorno fa la stampa Usa si è improvvisamente accorta di questa nuova minaccia: ha scoperto, ad esempio, che solo nel 7 per cento dei casi le scuole che affidano dati a società private chiedono loro di non venderli. La cosa curiosa è che la scoperta non è venuta da un’indagine giornalistica né da un’iniziativa ministeriale o da un garante della riservatezza. No: tutto nasce da un’indagine della Fordham University, l’accademia dei gesuiti Usa. Dopo la pubblicazione dello studio si sono mossi in tanti. Per gli attivisti dello «Student Privacy Project» quella di affidare i dati a società private è una scelta «priva di basi legali e tecniche» mentre Microsoft, che ha cofinanziato la ricerca della Fordham, riconosce che il problema è reale, ma vorrebbe che a risolverlo fossero le stesse aziende con l’autoregolamentazione.
 
@massimogaggi