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Elogio delle Università Statunitensi. Conservano la Memoria nel Paese fragile

La scelta di difendere la cultura in una terra che distrugge e ricostruisce tutto

25/03/2014
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Corriere della sera

Dacia Maraini

In volo, di notte, in una cabina afosa, tengo fra le mani un diario di Albert Camus sul suo viaggio in America nel 1946. La prima notte di viaggio, lo scrittore francese si trova in una cabina di nave con diverse cuccette. Ed è preso dal panico. «Ho impressione di respirare il respiro degli altri e mi viene una voglia furiosa di andare a dormire sul ponte». Ma lo dissuade il freddo. Si rintana nel suo lettuccio con in mano Guerra e pace , «come sarei stato innamorato di Natacha!» scrive desolato. Il viaggio, ogni viaggio, che sia in nave o in aereo, è una piccola scomoda avventura dentro un tempo e uno spazio che ci sono estranei e a volte ostili. Andiamo avanti o indietro? E cosa significa trovarsi con un corpo che conserva tenacemente una memoria temporale diversa da quella in cui ci troviamo a respirare e camminare?Eppure eccomi a passeggiare per i vialetti innevati di una università americana, consapevole che il cuore pulsante di tutto questo sapere sta in una costruzione dall’aria imponente, di vago stile ateniese, che si chiama Library ed è una biblioteca. In un Paese che basa la sua cultura sulla mobilità e il provvisorio, colpisce e commuove la cura che le università dedicano a una memoria conquistata con fatica e tenuta viva con amorevole cura.
Tutto, in questa America, parla di fragilità e mobilità. Le case fatte di legno e cartone che basta un forte vento per mandarle all’aria come un castello di carte, interi quartieri di camper posteggiati sul terreno accidentato, pronti a spostarsi appena ne-cessario, verso nord o verso sud. Un Paese nomade per vocazione e per necessità, in cui ogni persona si accinge a trasferirsi, per lavoro, per amore, per vocazione. Un Paese che fa dell’automobile la sua casa, portandosi dietro di tutto, dalla culla del bambino alla cuccia del cane, dal frigorifero mobile alla televisione. Pronti a fare la fila, senza uscire dall’abitacolo dell’auto, per pagare un conto in banca, per vedere un film all’aperto, o per prendere un panino e un caffè, direttamente serviti da una giovane in maniche di camicia, che si sporge rapida e gentile dallo sportello di una banca o dal finestrino di una caffetteria.
Le università sono le grandi conservatrici di una cultura che si vuole universale e stabile, forse anche onnipotente. Fragilmente onnipotente, però, perché in quello stesso potere sta la consapevolezza di una inquietante gracilità. Eppure nessuno si sottrae al difficile compito di difendere il privilegio della conservazione, in una terra in cui tutto viene rapidamente distrutto e ricostruito senza rimpianti per il passato. Nelle università che portano nomi prestigiosi come Princeton, Cornell, Wheaton, Ithaca, Mount Holyoke, Holy Cross, il tempo viene fermato e fissato al muro, in forma di locandine che annunciano convegni, incontri, presentazioni, mostre, avvenimenti culturali di ogni genere.
Le sei università che ho nominato sono proprio quelle in cui sono stata invitata in questo scorcio di un inverno freddo e ventoso. Per fortuna le tempeste di vento sono finite quando arrivo, ma i mucchi di neve sporca sono ancora lì a rammentare le furiose nevicate, il traffico aggrovigliato, i voli cancellati, le scuole chiuse, l’acqua e la luce saltate, gli alberi caduti. Ho incontrato centinaia di studenti che parlano italiano e sanno tutto sulla letteratura, il cinema e la musica italiana. Ne ho incontrati altre centinaia, che pur non parlando italiano, sono interessati al nostro passato e al nostro presente.
Il cittadino medio americano è generalmente ignorante del mondo. Spesso non sa nemmeno dove si trovi l’Italia. Ma appena metti piede in una università, tutto diventa chiaro e lungimirante. Machiavelli e Dante sono amici da interrogare, Natalia Ginzburg e Anna Maria Ortese sono amiche di cui si consultano gli scritti.
Ed eccomi alla Holy Cross University a parlare di mappe con il canadese Mark Abley, l’indiana Gupi Ranganathan e l’inglese Harry Stuart, il quale,con dolce impassibilità, ci rivela che le mappe non sono quasi mai una definizione oggettiva della realtà, ma una interpretazione del mondo. Insomma la cartografia è relativa, dice Stuart girando faticosamente la testa fasciata — l’anziano professore è caduto scivolando sul ghiaccio ed è stato in ospedale dove gli hanno messo dieci punti —, non sancisce verità ma stabilisce regole.
Gli studenti sono affascinati. Ma lo saranno ancora di più quando un macellaio italiano, Andrea Falaschi, mostrerà loro la mappa di un corpo di maiale squartato: testa, spalla, scamerita, arista, filetto, pancetta, guanciale, prosciutto, con relativi metodi di cottura. Chissà cosa avrebbe detto Chatwin che raccontava le strade cantate dei nativi australiani! L’indiana Gupi, che è pittrice, ci mostra invece le mappe della memoria di una nonna malata di Alzheimer. Grovigli di pensieri, di immagini, sfilacciate e perse in un cielo cupo.
Mark Abley chiede provocatorio: ma chi credete che stabilisca i confini nelle mappe? Il cartografo, o i politici che vincono le guerre? E ricorda i territori dei nativi americani, le mappe delle riserve che perdevano continuamente territori di cui si appropriavano i conquistatori.
Mentre racconto del mio viaggio di bambina disegnato dalla mano affettuosa di una madre giovanissima, mi vengono in mente le mappe del cielo. Tante stelle, catalogate, legate le une alle altre da un disegno mitologico. Quelle stelle che ammiravo, chiarissime e solide come pietre preziose seminate nel buio, mentre me ne stavo a naso in su sul ponte della nave. Ma chi tiene conto delle profondità? E di quel mistero nero che è il tempo?
Il mio viaggio fra le sapienti università americane, dove incontro persone amabili e colte, conquistate dell’Italia, finisce alla New York University, dove mi trovo a parlare di Chiara di Assisi con la studiosa del Medioevo Jane Tylus, che ha scritto un libro su Caterina da Siena e sa tutto sui nostri secoli cosiddetti bui, che poi non sono affatto bui ma pieni di luminose contraddizioni. «Hanno qualcosa da dirci ancora oggi queste mistiche?» chiede una ragazza dal pubblico. Forse sì. In un clima di mercato, in cui tutto si vende e si compra, in cui il possesso rivela e dà valore alla persona, il richiamo alla povertà evangelica, alla sobrietà, alla commiserazione creaturale sembra attualissimo. Basta pensare alla pratica sempre più frequente di ragazze giovanissime che vendono il proprio corpo, come se fosse una piccola cosa da nulla, una proprietà da contrattare per un piatto di lenticchie. E non può essere che un’altra pratica, quella del digiuno, chiamata oggi anoressia, possa essere interpretata come il rifiuto di una mentalità diffusa che umilia e mortifica l’idea stessa di un corpo felice?
New York mi sembra involgarita, tutta tesa verso un turismo di massa, disseminata di negozi dai gadget rozzi, fabbricati in Cina; sempre più tappezzata di gigantografie del corpo femminile che promettono sogni erotici legati a qualche impresa economica: l’acquisto di una macchina lucida e potente, la visita a un supermercato, la partecipazione a un evento. E se accendi la televisione vieni assalito da un fiume di immagini di gente che spara: di giorno, di notte, da una macchina all’altra, dentro una scuola, per le strade di una pacifica città, in un aeroporto, in una stazione. Tutti sparano, anche i bambini. Solo qualche volta un giovane generoso si trasforma in corpo volante, con tanto di maschera e tuta azzurra o rossa. Vola per salvare una ragazza che sta per essere schiacciata da un mostro di acciaio sprizzante scintille di fuoco. La ragazza, bellissima e discinta, si salverà, ma la gente intorno a lei morirà uccisa da quei fucili che ormai sparano anche da soli, per la gloria di armi sempre piu efficienti e micidiali.
Eppure questo è il paese della meritocrazia. Forse la piu grande virtù in tempi di corruzione. Una virtù continuamente minacciata dalle grandi lobby, come quella delle armi, o dell’energia o delle banche. Stefano Vaccara, un giornalista italiano che vive a New York, ha scritto un libro (Editori Internazionali Uniti) per dimostrare che è stata la mafia di New Orleans, di origine siciliana, e precisamente Carlos Marcello, un potentissimo e astutissimo capomafia, a fare uccidere i due fratelli Kennedy, perché si erano messi in mente di ripulire l’America dalla criminalità organizzata che corrompeva i poliziotti e i giudici.
Le università si tengono lontane da questi orrori. E difendono, con le unghie e coi denti, la pratica della meritocrazia. Perché hanno capito che il segreto dello sviluppo sta proprio nella capacità di utilizzare i cervelli, di qualsiasi colore siano, da qualsiasi parte provengano, maschi o femmine, non importa, cristiani o mussulmani va bene, purché entrino nel sistema. Pur sapendo che, una volta dentro, possono anche cercare di farlo a pezzi. Ma il rischio vale la candela e la ricchezza che ne deriva, giova a tutti.
Dacia Maraini
 


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