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La crisi (pianificata) dell’università si vede meglio da sud

L’università italiana è tra le ultime in Europa per finanziamenti e per numero di iscritti e laureati, ricercatori e dottori di ricerca. Il quadro, già fosco, si incupisce quando ci si concentra sulla situazione delle università del Sud, sempre più penalizzate da criteri per la distribuzione delle risorse ideati per premiare le realtà con le performance migliori. Quale sviluppo possiamo immaginare per il paese e per il Mezzogiorno senza puntare sull’istruzione superiore e la ricerca?

24/04/2015
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ROARS

di Francesco Sinopoli

(Pubblicato sul numero 1 di Italianieuropei 2015)

Istantanea (triste) del nostro sistema universitario

Negli ultimi anni il sistema universitario italiano è stato interessato da molteplici interventi sul piano della governance, del funzionamento, dell’organizzazione dell’offerta formativa, del reclutamento. L’ultimo in ordine cronologico risale al 2010 ed è stato accompagnato dalla riduzione in meno di tre anni del 15% del fondo di funzionamento ordinario a cui ha fatto da corollario una fortissima limitazione del turn over. L’opinione di chi scrive è che tali scelte, definite convenzionalmente “riforme”, per ragioni diverse abbiano inciso negativamente sull’offerta formativa, indebolito la capacità di ricerca, cronicizzato il ricorso al lavoro precario, pregiudicando la funzione pubblica e la missione istituzionale dell’università proprio in una particolare congiuntura che avrebbe richiesto la sua completa realizzazione. Oggi il nostro paese si colloca ben al di sotto della media europea per finanziamenti all’università, per numero di studenti iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione. La spesa cumulativa per studente universitario ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate; il corpo docente dell’università è diminuito del 22% negli ultimi dieci anni. I corsi della medesima percentuale.

Gli iscritti delle nostre università al primo anno erano 338.482 nell’anno accademico 2003-04 e si sono ridotti a 260.245 nell’anno accademico 2013-14. In compenso, le tasse di iscrizione sono aumentate in media del 50%, passando da 632 a 948 euro per anno e diventando tra le più alte in Europa. Come risulta dal rapporto dell’OCSE “Education at a Glance” [1] abbiamo solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, oc- cupando il trentaquattresimo posto su 37 nazioni. Un indicatore che rimane stabile da alcuni anni in Italia, mentre continua a crescere in tutto il resto del mondo. In Corea del Sud hanno raggiunto il 64% nel 2011 (erano il 37% nel 2000 e meno del 10% nel 1980).

In Giappone sono il 59%, in Canada e in Russia il 57%, in Gran Bretagna il 47%, in Francia il 43%. Negli ultimi dieci anni l’università ha espulso più di 93 ricercatori precari su 100, ed è riuscita a superare il definanziamento solo attivando altri contratti precari: mediamente tra i 13 e i 30 per ogni singolo ricercatore in meno di dieci anni. Il nostro corpo accademico è composto oggi per il 48,35% da docenti e ricercatori strutturati e per la restante parte da assegnisti di ricerca (17,4%), dottorandi (28,1%), ricercatori a tempo determinato (6,2%) [2].Nel 2014 ci sono stati 2324 pensionamenti, mentre sono stati attivati solo 141 contratti a tempo determinato in tenure track [3].

Lo Spirito dei tempi con venticinque anni di ritardo

Queste scelte di policy, se così si può dire, sono state adottate dopo un lungo periodo in cui quasi settimanalmente editoriali di importanti quotidiani spiegavano che la spesa per l’istruzione era troppo alta e inefficiente, che avevamo troppe università, troppi corsi di studio, che la ricerca italiana aveva un ruolo marginale nel panorama mondiale. Si invitava, quindi, il legislatore a non aumentare la spesa in istruzione e ricerca ma, piuttosto, a ridurre gli sprechi, costruire una governance più efficiente, salvare solo le eccellenze da premiare con le risorse sottratte alle parti inerti e meno produttive del sistema. Tali suggerimenti, provenienti da firme blasonate, spesso accademici della medesima scuola economica o che hanno adottato il metro di un certo pensiero mainstream nelle loro discipline, hanno trovato terreno fertile in una fetta ampia dell’opinione pubblica, impressionata dai ripetuti scandali che riguardavano soprattutto i concorsi universitari.

Si tratta, del resto, di misure che si ispirano a principi niente affatto originali. È l’onda lunga di quel processo neoliberista di ristrutturazione delle agenzie formative e più in generale dei settori pubblici che, contenuto negli anni Novanta dalla cultura dell’autonomia, si cerca invece di realizzare compiutamente dal 2008 in poi attraverso due imponenti edificazioni normative: la legge 150/2009 e la legge 240/2010. Conta poco che siano passati venticinque anni tra la bocciatura della comunità accademica di Oxford nei confronti della richiesta di concedere il titolo ad honorem di Doctor in Civil Law a Margaret Thatcher e il nostro presente [4]. L’idea, cara ai conservatori, che affamare la bestia serva a renderla mansueta viene riproposta in particolare per l’università. Coerentemente, uno degli ultimi tasselli è rappresentato da un sistema di valutazione incentrato su un’ottica essenzialmente punitiva. Non è questa la sede per una disamina delle modalità operative dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, che sono state oggetto di ampie discussioni;[5] ci si limiterà a sottolineare che il sistema delle classifiche introdotto con il metodo di presentazione dei dati dell’esercizio VQR ha legittimato le differenze già esistenti sulla base delle quali è oggi distribuita la quota cosiddetta “premiale” dei finanziamenti alle università, che, come vedremo, aumenta esponenzialmente a scapito del fondo di funzionamento ordinario.

Sulla carta questa Agenzia avrebbe dovuto rappresentare il completamento del progetto riformatore degli anni Novanta avviato dalla legge 168/1989, consistente in un sistema della ricerca e dell’università autonomo, auto-governato e responsabile, quindi valutato rispetto agli obiettivi ma dotato delle risorse per funzionare. Nei fatti l’ANVUR è giunta a certificare la fine di quell’idea, contribuendo a realizzare un sistema fortemente centralistico e burocratico sulle macerie (e sui fallimenti) dell’autonomia.[6]

L’impatto delle riforme sugli atenei del sud

La crisi del sistema universitario meridionale è ben fotografata da ultimo nel Rapporto Svimez 2014, da cui emerge lo strettissimo rapporto tra la drammatica condizione giovanile nel Sud e il declino dei suoi atenei e del sistema regionale di diritto allo studio. Se le risorse diminuiscono, anche le opportunità formative calano e inevitabilmente una generazione intera viene esclusa dallo studio senza avere prospettive di lavoro. Basta guardare i tassi di passaggio dalla scuola superiore all’istruzione terziaria: nell’anno scolastico 2012-13 sono scesi al 51,7% al Sud e al 58,8% al Nord, riportando il paese indietro di dieci anni. Si assiste a una nuova migrazione dal Sud che interessa soprattutto giovani e giovanissimi. Dal 2001 al 2013 tra le persone che hanno lasciato il Sud ben 494.000 (il 69,8%) sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 34 anni, mentre 188.000, il 26,5% del totale, sono giovani laureati.7 Naturalmente l’effetto sulle immatricolazioni doveva prima o poi evidenziarsi. Nell’anno accademico 2012-13, infatti, il numero di giovani meridionali che si è iscritto all’università è diminuito del 30% rispetto all’anno 2003-04. Certo, come abbiamo visto, il calo riguarda tutto il paese, ma a Sud è più accentuato. Nello stesso periodo il numero di iscrizioni è, infatti, diminuito del 25% al Centro e del 10% al Nord.8 Il numero degli immatricolati a Sud è decisamente inferiore al resto del paese e inizia a evidenziarsi anche una riduzione dei laureati rispetto agli anni precedenti.9 I pochi giovani meridionali che si iscrivono all’università – uno su quattro – scelgono sempre più raramente un ateneo nella propria Regione, preferendo, per il 25%, una sede diversa contro il 9% dei giovani del Centro, l’8,8% del Nord-Est e l’8% del Nord-Ovest. Nel 2010 i giovani laureati di età inferiore ai 35 anni erano il 15,6% della popolazione nel Sud contro il 22,4% nel Centro-Nord e una media OCSE pari al 40%. La crisi del sistema universitario meridionale investe anche i giovani ricercatori. Infatti, se le posizioni di dottorato bandite in Italia si riducono del 19% dal 2008, nel Sud il calo arriva fino al 38%, accompagnandosi a una riduzione netta dei corsi (−57%) che comporta l’estinzione di vere e proprie tematiche di ricerca [10].

Se verranno confermati i tagli al fondo ordinario, il sostanziale blocco del reclutamento e il definanziamento del sistema di diritto allo studio, gli atenei del Sud saranno costretti a ridurre ancora l’offerta formativa e, di conseguenza, a veder diminuire il numero degli immatricolati. Insomma, saranno condannati a un declino irreversibile di cui il fenomeno migratorio è una spia rilevante.

Peccato che non si traggano le conseguenze di questa situazione al momento dell’assegnazione delle risorse. Dopo il taglio di 1 miliardo di euro pianificato nel 2008, che ha determinato una riduzione del 15% del Fondo di finanziamento ordinario, incrementare, come sta avvenendo, la quota premiale puntando ad arrivare fino al 30% del Fondo stesso ha rappresentato un grave problema per gli atenei penalizzati, in primo luogo quelli meridionali, in quanto i 22 atenei del Sud e delle Isole beneficiano solo del 24,71% di queste risorse, a fronte del 25,99% attribuito ai 12 atenei del Centro e del 46,60% attribuito agli atenei del Nord. Infatti, attraverso i meccanismi in vigore fino a oggi, dal 2011 al 2013 sono state drenate dalle università del Nord a quelle del Sud risorse per 160 milioni di euro. Nella nuova attribuzione del fondo per il 2014 la quota premiale del finanziamento passa dal 13,5% del 2013 al 18%; nel decreto, evidenzia il MIUR, si terrebbe conto degli atenei nei contesti economicamente più deboli, mentre nessun ateneo vedrà ridursi i finanziamenti sotto il 2,7%. Il MIUR stima un miglioramento per oltre il 50% delle università. Una parte è assegnata in base al criterio del costo standard, una formula ancora non chiara che, afferma sempre il MIUR, verrebbe compensata da un correttivo riferito al contesto territoriale.11 Non siamo nelle condizioni di valutare se questi correttivi saranno effettivamente in grado di produrre gli effetti previsti dal ministero. Certo è che il disegno di legge di stabilità attualmente in discussione, salvo modifiche che in molti auspichiamo, continua ad aumentare la quota premiale di 150 milioni di euro, collocandosi nel solco delle scelte di policy ampiamente discutibili alla luce di quanto visto fino a oggi. Qui non si tratta di essere a favore o contro l’esistenza di processi valutativi ma di discutere di come e con quali obiettivi fare la valutazione. Ad avviso di chi scrive, se il fine è quello di incentivare il miglioramento della qualità, recuperando quindi le strutture che hanno evidenziato criticità, la definizione degli indicatori non è neutra, [12] e comunque sarebbe impossibile farlo sottraendo ancora fondi al finanziamento ordinario. Si devono poi necessariamente considerare le condizioni di partenza, che sono profondamente influenzate, nel nostro paese più che altrove, dalla collocazione geografica. Tuttavia, l’impressione è che si sia adottata invece un’ottica punitiva sulla base di una precisa ideologia della valutazione già richiamata in precedenza.

Fino a oggi la riduzione delle risorse si è combinata a un singolare sistema di distribuzione delle quote finalizzate al reclutamento che ha reso ancora più drammatica la situazione di diversi atenei. Si sono privilegiati alcuni indicatori finanziari e non la qualità dei ricercatori da assumere [13] e si è utilizzata una “moneta”, quella dei cosiddetti “punti organico”, che sottrae costantemente risorse alle assunzioni.[14]

In particolare, università come Bari, Catania, Messina, Palermo, Napoli “Federico II”, Sassari, Teramo hanno nei fatti, in ragione di questo meccanismo, beneficiato di un turn over ridotto a meno del 7%, che inoltre, diversamente dal resto della pubblica amministrazione, calcola le risorse a livello nazionale e poi le distribuisce agli atenei indipendentemente dai pensionamenti avvenuti nella singola sede. Ciò produce effetti a cascata sull’offerta didattica e sulla qualità della ricerca. Se, infatti, non ci sono prospettive di reclutamento è inevitabile che i giovani ricercatori o professori tenderanno a emigrare per un posto stabile o per fare carriera. E non si tratta di fenomeni di mobilità, assolutamente necessari, ma di vere e proprie fughe senza ritorno.

La via per un nuovo sviluppo (fondato sulla sostenibilità) passa dall’università e dalla ricerca

L’idea che sia possibile risalire la china della grave crisi del nostro paese tagliando ancora la spesa pubblica e puntando sull’attrazione di investimenti diretti esteri presuppone oggi una svalutazione progressiva del lavoro. In questa ottica una parte delle nostre università potrà tranquillamente diventare liceo e poi chiudere nell’arco di qualche anno. Si tratta di una opzione molto rischiosa, tanto per il Sud quanto per il Nord, perché parte da una analisi sbagliata delle ragioni del nostro declino e propone come soluzione una ricetta chiaramente fallimentare, oltre che socialmente insostenibile.15 Al contrario, serve una nuova politica dello sviluppo che abbia come presupposto l’estensione dei diritti, a partire da quello all’istruzione per tutto l’arco della vita, capace di accrescere le capabilities di ciascuno. Per un paese dove l’indice di Gini peggiora da dieci anni ininterrottamente la costruzione di opportunità attraverso l’istruzione superiore e la ricerca nel Mezzogiorno e nelle aree più svantaggiate è un dovere. Se il Sud affonderà ancora di più nel sottosviluppo civile, sociale, economico e legale, trascinerà anche ciò che ancora funziona nel resto del paese.16 L’obiettivo non può che essere un cambiamento radicale della nostra specializzazione produttiva, orientandola verso beni ad alto valore aggiunto per i quali avremo bisogno di università qualificate per ricerca e didattica, al Sud come al Nord.[17]

Non esiste eccellenza definita a priori, così come non esiste alcuna eccellenza nel deserto. Certo, servono anche obiettivi precisi che richiedono una rigorosa valutazione ex post degli investimenti ed ex ante dei progetti. Occorre puntare su energie rinnovabili e, quindi, tecnologie e innovazione applicata a esse, beni culturali, tutela e valorizzazione turistica del territorio e dell’ambiente con relativa prevenzione dei rischi, riqualificazione dell’ambiente urbano. Serve una nuova politica economica fondata su investimenti diretti in istruzione, ricerca e tecnologia e guidata da un nuovo protagonismo dello Stato che metta al centro la sostenibilità.18 La ricetta, in definitiva, è l’opposto di quella che viene adottata oggi: servono più ricercatori, più offerta universitaria e rifiuto delle categorie suicide di adeguamento alla domanda del mercato. Non riduzione dell’offerta universitaria ma sua qualificazione attraverso investimenti mirati e frutto di una regia nazionale. È necessario costruire un sistema universitario non competitivo ma cooperativo, partendo proprio dal Sud attraverso la creazione di reti reali tra gli atenei meridionali accompagnate da una progettazione infrastrutturale conseguente, tenendo a mente il ruolo strategico che hanno sempre avuto le università nello sviluppo dei sistemi locali. Sono certamente possibili e praticabili aggregazioni regionali e interregionali, che partano, però, da una analisi vera delle filiere della conoscenza e dell’offerta formativa dei singoli atenei su cui investire nel futuro.

«La questione del capitale immateriale, delle competenze e delle conoscenze è centrale rispetto ai processi di sviluppo, in ogni paese e, dunque nel nostro. Centrale è pure, ed ancora rispetto ai processi di sviluppo, la questione del Mezzogiorno e dei mezzogiorni d’Europa e del mondo. Il tema di questo rapporto è perciò all’incrocio di due grandi questioni: quella della crescita del sistema dell’alta formazione e della ricerca e quella del superamento del divario che separa il Sud dal Nord del nostro paese».19 Così scriveva Antonio Ruberti nell’“Introduzione” al “Rapporto finale” della Commissione nazionale per il Mezzogiorno. Difficile trovare parole più attuali di queste per indicare una possibile prospettiva non solo per il nostro Sud.

  1. OCSE, Education at a Glance 2013. OECD Indicators, Parigi 2013, disponibile su www. oecd.org/edu/eag2013%20%28eng%29–FINAL%2020%20June%202013.pdf.
  2. FLC CGIL, Ricercarsi. Indagine sui percorsi di vita e di lavoro del precariato universitario, disponibile a questo indirizzo.
  3. Cioè con un percorso che può portare all’assunzione stabile previa valutazione.
  4. Riporta questo aneddoto Francesca Coin nell’introduzione del report di novembre 2014 dell’inchiesta FLC CGIL citata precedentemente. Le cause di quella durissima posizione si riassumono tutte nel documento firmato da 275 accademici contro la concessione dell’onorificenza: «Mrs. Thatcher’s Government has done deep and systematic damage to the whole public education system in Britain, from the provision for the youngest child up to the most advanced research programmes».
  5. Si rinvia al dibattito su roars.it. In particolare, tra i tanti contributi, si vedano G. De Nicolao, VQR. Gli errori della formula ammazza-atenei dell’ANVUR, in “www. roars.it”,16 febbraio 2012; F. Sylos Labini, Università: che fretta c’è?, in “www. roars.it”, 11 febbraio 2012.
  6. F. Sinopoli, Sapere è liberta. Per una politica della conoscenza, in “Articolo 33”, 3-4/2011.
  7. Svimez, Rapporto Svimez 2014 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna2014.
  8. P. Greco, I giovani in fuga dalle Università del Sud, in “roars.it”, 18 aprile 2014.
  9. ANVUR, Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, Roma 2014,disponibile su www.anvur.org/attachments/article/644/Rapporto%20ANVUR%20 2013_UNIVERSITA%20e%20RICERCA_integrale.pdf.
  10. ADI, IV Indagine annuale ADI su Dottorato e Post Doc, Roma, 30 maggio 2014, disponibile su www.dottorato.it/documenti/speciali/IV%20INDAGINE%20ADI%20 2014.pdf.
  11. Comunicato stampa del MIUR del 31 ottobre 2014, disponibile su hubmiur.pubblica. istruzione.it/web/ministero/cs311014bis.
  12. FLC CGIL, Effetti delle valutazioni ANVUR sull’assegnazione delle risorse per la premialità agli atenei, disponibile a questo indirizzo.
  13.  B. Cappelletti Montano, Al cambiavalute del MIUR a rimetterci sono le università, in “roars.it”, 19 giugno 2014.
  14. F. Sinopoli, Appunti su contratto unico e articolo 18 aspettando il “Job act”, in “www.syloslabini.info”, 10 gennaio 2014.
  15. S. Ferrari, Rileggere il divario Nord Sud e l’intervento pubblico, in P. Greco, S. Termini (a cura di), Memoria e progetto. Un modello per il Mezzogiorno che serva a tutto il Paese, GEM Edizioni, Monte San Pietro (BO) 2010.
  16. Ibid.
  17. P.Greco,ProgettoMezzogiorno,inP.Greco,S.Termini(acuradi),op.cit
  18.  A. Ruberti, Introduzione, in A. Golini (a cura di), Università e ricerca nel e per il Mezzogiorno. Rapporto finale della Commissione, Laterza, Roma-Bari 1989.
  19. B. Cappelletti Montano, Il Robin-Hood al contrario del D.M. “Punti organico 2013”, in “roars.it”, 20 ottobre 2013.

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