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Corriere: «Ma non sarà vera svolta se l'istruzione è poca»

La piccola impresa Paolo De Rocco (Centrica)

04/01/2009
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Corriere della sera

MILANO — Paolo De Rocco, presidente di Centrica, dell'export tecnologico ha fatto una sfida professionale quotidiana. La piccola impresa fiorentina che gestisce assieme ad altri tre soci vende riproduzioni digitali di opere d'arte e altre tecnologie di proprietà dal Giappone alla Gran Bretagna, dal Belgio agli Stati Uniti. Ma per il «made in Italy» elettronico vede gli stessi pregi e difetti dei settori più tradizionali.Lei crede a una ripresa dell'innovazione italiana anche sui mercati internazionali? «Sì, anche se probabilmente l'export tecnologico è semplicemente cresciuto in linea con l'export italiano in questi anni. Dunque se i dati dovessero confermarlo, non mi sorprenderebbe».Giappone, Gran Bretagna, Belgio, Stati Uniti: come fate ad arrivare su questi mercati malgrado le piccole dimensioni? «Grazie alla flessibilità. Spesso riusciamo a offrire un prodotto ad hoc, ci adattiamo alle esigenze del cliente. Questa caratteristica classica da piccola impresa italiana è un punto di debolezza e di forza. Non riusciamo a completare la transizione fra servizio e prodotto e a imporre il nostro standard a causa delle nostre dimensioni ridotte. Ma riusciamo ad aggredire certe nicchie di mercato».È soddisfatto delle politiche pubbliche di accompagnamento? «Esistono i fondi del ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e i fondi europei, a cui si arriva tramite gli enti locali. Il problema è che per accedere alle facilitazioni per avere un trasferimento tecnologico, serve a sua volta un know how. Noi sappiamo farlo. Ma molte piccole imprese che potrebbero investire in innovazione spesso non hanno competenze per accedere ai fondi: così si rischiano di perdere opportunità».Come funziona la vostra collaborazione con l'università? «Noi stessi finanziamo dei progetti di ricerca tramite convenzioni. Con i fondi vengono pagati uno o più ricercatori per fare ricerca in un campo specifico. Poi però si rischia di scontare un certo ritardo rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti».Parla delle difficoltà nel creare «spin off», progetti industriali sul mercato nati dalla ricerca universitaria? «Esatto. In alcuni casi manca la cultura imprenditoriale all'interno dell'università. I professori raramente sono responsabili dei soldi che spendono e, se lo sono, lo sono per natura: non per motivi istituzionali. Ma a volte funziona. Proprio ora stiamo costituendo una spin off con l'università di Siena grazie ai risultati di un progetto finanziato da noi. Si tratta di una tecnologia innovativa per l'anticontraffazione e la certificazione di documenti digitali».Perché di esempi di collaborazione come questo se ne vedono pochi fra imprese e università italiane? «Probabilmente proprio perché questo schema di sviluppo, che è l'architettura classica dei progetti tecnologici americani, non è ancora radicato nel nostro Paese».
Federico Fubini


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