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Corriere: Le imprese aprono le porte, però non vogliono burocrazia «Non è apprendistato, chiamatelo anno sabbatico»

Che ne pensano le aziende della possibilità di accogliere adolescenti campioni di sms in tuta da rapper? Sulla carta tutti favorevoli: da Confindustria alle associazioni dei piccoli. Ma quando si esamina la questione nei dettagli, arrivano i distinguo.

22/01/2010
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Corriere della sera

M olte famiglie non vedono l’ora di mandarli a lavorare: «Scaldi il banco? Allora meglio la fabbrichetta o il laboratorio dell’artigiano, così capisci cosa vuol dire faticare». E anche la scuola non ha nulla da ridire: quantomeno gli insegnanti si risparmieranno la frustrazione del confronto con gli alunni più riottosi. Ma le aziende? Che ne pensano le aziende della possibilità di accogliere adolescenti campioni di sms in tuta da rapper? Sulla carta tutti favorevoli: da Confindustria alle associazioni dei piccoli. Ma quando si esamina la questione nei dettagli, arrivano i distinguo.

Quindicenni analfabeti

Più di tutti parla chiaro Paolo Galassi, presidente di Confapi: «L’idea è buona. Ma non chiamiamolo apprendistato. Meglio "anno sabbatico". Un quindicenne oggi sa a malapena leggere e scrivere. Non possiamo farci carico noi di quello che dovrebbe fare la scuola. E, in più, pagare pure uno stipendio».
Per essere capita fino in fondo la questione merita un passo indietro. Oggi l’apprendistato è regolato da una legge del 2003 (governo Berlusconi) in cui si spiegava che i ragazzi potevano entrare in azienda a 15 anni. Poi, nel 2007, il governo Prodi ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni. L’altroieri in commissione Lavoro della Camera è arrivata una sorta di «terza strada». Resta l’obbligo scolastico fino a 16 anni ma, per soddisfarlo, l’ultimo anno si può scegliere: o la scuola o l’apprendistato.

Un contratto, anzi tre

Ma non l’apprendistato come lo conosciamo oggi. Spiega Michele Tiraboschi, consulente del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: «Al momento sono tre le forme di apprendistato ma soltanto una è davvero utilizzata. Penso all’apprendistato professionalizzante (la stragrande maggioranza dei contratti), che prevede 120 ore di formazione obbligatoria e una serie di agevolazioni per le aziende».
Gli apprendistati trascurati sono quello «alto», destinato ai laureati (una rarità, per ora. Millecinquecento casi in tutt’Italia, ndr). E quello «per il diritto dovere di istruzione e formazione». «È proprio questa la formula da potenziare per favorire l’inserimento dei giovani — si appassiona Tiraboschi —. Con questo apprendistato si può ottenere una qualifica. I 350 mila apprendisti che oggi hanno solo la licenza media potrebbero acquisire un titolo di studio. In provincia di Bolzano si fa già, proprio come in Germania. Ora si tratta di estendere l’esperienza al resto del Paese».

«Ma li dobbiamo pagare?»

Tra le rappresentanze dei piccoli (che poi sfruttano più di tutti il contratto di apprendistato) a non avere dubbi è la Compagnia delle opere. «Finalmente un’iniziativa che va incontro ai giovani. In particolare ai ragazzi che in una scuola liceizzata non riuscivano a dare un senso alle loro giornate sui banchi», esulta Massimo Ferlini, vicepresidente della Cdo. Le altre associazioni approvano, sì. Ma mettono anche qualche paletto. «Non è che il mondo produttivo possa risolvere da solo il problema dell’abbandono scolastico — mette le mani avanti Enrico Amadei, direttore divisione economica di Cna —. Noi possiamo dare formazione, ma l’istruzione è compito della scuola».

Gli artigiani milanesi aderenti alla Claai non vogliono trasformarsi in maestrini dalla penna rossa. «Bella idea, ma bando alla burocrazia— dice il segretario generale milanese, Marco Accornero —. Abbiamo già tanti problemi, non possiamo metterci a tenere registri e dare voti».
Il più chiaro di tutti è il presidente di Confapi, Paolo Galassi: «Almeno il primo anno un apprendista quindicenne non mi deve costare — avverte —. Dopo tutto, quei centoventimila che oggi non vanno a scuola né lavorano se ne stanno in giro a combinare guai. Per le famiglie è comunque meglio farli andare a imparare un mestiere. Noi potremmo prenderci l’impegno dell’assunzione allo scadere di quest’anno sabbatico». Confapi fa anche presente che per un’impresa assumere un minorenne è sempre un problema: «Molti associati preferiscono chi ha compiuto i diciotto anni, così evitano mille complicazioni».

Scontro politico

Le obiezioni maggiori all’operazione «apprendistato a 15 anni» vengono dal centrosinistra. «Questo abbassamento dell’obbligo scolastico ha dell’incredibile — commenta sconsolato l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu —. Anche noi sappiamo bene che ci sono 120 mila ragazzi che abbandonano la scuola prima del tempo. Ma mandarli a lavorare non vuol dire risolvere il problema. È una resa, piuttosto. Avrebbe più senso cercare per loro delle alternative accettabili dentro la scuola, valorizzando il triennio degli istituti tecnici e le scuole professionali».

Laureato o idraulico?

Dalla discussione viene fuori anche un’altra questione. «Ma l’Italia non ha bisogno di laureati come ci ripetono tutte le indagini e i libri bianchi, per ultimo il Rapporto sulla formazione in Italia voluto dallo stesso ministro del Welfare? — si chiede Fulvia Colombini, responsabile Scuola e formazione della Cgil lombarda —. Temo che alla fine solo gli immigrati o i figli di famiglie in difficoltà andranno a lavorare a 15 anni». Il rapporto in questione parla di un’Italia in cui i lavoratori a bassa qualifica dovranno scendere dal 30% di oggi al 18 per cento del 2020. «E allora? — dice Giuseppe Bertagna, direttore del centro per la qualità dell’Insegnamento all’università di Bergamo e principale ispiratore della riforma Moratti: «La verità è che c’è un pregiudizio verso chi non vuole studiare. Non si tiene conto che poi certi laureati trovano solo posti da 500 euro al mese. Oggi certi filosofi da call center si mangiano le mani


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