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A proposito di “merito e equità”

Franco De Anna

05/02/2013
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ScuolaOggi

Mi è capitato di sentire un recente spot pubblicitario di una collana di divulgazione storica che, provocatoriamente, fa ascoltare una voce che invita gli interlocutori alla vittoria “come Napoleone a Waterloo…”; da qui lo spot continua richiamando alla necessità di “studiare la Storia”.

Efficace.

Ma poiché questo è un Paese senza memoria, anche a breve, credo non sia inutile ricordare che non si tratta di uno spot frutto della fantasia del creativo di turno..

Correva l’anno 2008. Il signor Luca Luciani, Direttore Generale di Telecom Italia per la telefonia mobile (TIM) in una convention aziendale con i suoi venditori, con foga verbale degna di miglior causa così arringava: “Perché ho la faccia incazzata? … respiro sfiducia, ..aria di aspettativa… Oggi non parlo di Alessandro… Parlo di Napoleone. Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capolavoro, tutti lo davano per cotto, per la supremazia dei suoi avversari, c’aveva cinque nazioni contro… però strategia, chiarezza delle idee, determinazione, forza, Napoleone fece il suo capolavoro a Waterloo..” Così chiamava all’impegno (!?) i suoi venditori, questo leader di un settore di “tecnologia avanzata”(?!). Probabilmente aveva appreso come motivare i dipendenti da qualche manuale di management. Ma aveva qualche “debito” in Storia.

A completare l’informazione, lo stipendio di questo grande manager era (2008) di 844mila euro l’anno (stipendio: non sappiamo di eventuali voci “incentivanti”). Prendeva in un giorno quanto un suo venditore (che doveva fare come le truppe di Napoleone a Waterloo, appunto..) prendeva in due mesi di lavoro (se basta..)

Se ne parlò allora, per qualche tempo e articolo di giornale. Poi il silenzio; e si arriva ad oggi con lo spot citato, che sembra proporre come paradossale ciò che invece è episodio reale. (Gli affezionati alla Rete potranno controllare, girò anche il video originale di quella convention..)

Un altro nome oggi sui media, quello di Alessandro Profumo; sempre nel 2007, quando era a capo di Unicredit, percepiva uno stipendio di circa 9 milioni e mezzo di euro, più azioni gratuite per quasi quattro milioni. (Marchionne a confronto, prendendo allora circa la metà, era, appunto, un modello di equità…).

Oggi è a capo del Monte dei Paschi di Siena e su di lui si confida per rimettere in sesto il disastro della terza Banca nazionale. Copre questo incarico da un anno. Ma, si sa, la questione è complessa: bisogna avere tempo e pazienza. Non conosco la retribuzione che nel frattempo premierà il “merito” di questo “salvatore”.

(I dati che cito sono stati elaborati, a suo tempo, dal “Il Sole 24Ore, sulla base dei bilanci aziendali).

L’elenco, naturalmente, potrebbe continuare. Rinvio a G. Dragoni e G. Meletti “La paga dei padroni”, Chiarelettere, 2008.

A proposito di merito ed equità.

Non metterebbe conto parlarne qui se tutto ciò non contenesse un interrogativo (sgomento) su uno slogan che vediamo percorrere una parte della discussione su e nella scuola.

Parole d’ordine (merito ed equità) certamente rispettabili e che non gettano alcun dubbio su chi le propone e sulle sue intenzioni.

Ma poiché le abbiamo sentite (almeno sul versante “merito”) da anni (almeno un decennio) provenire proprio da quel pulpito composito che ha caratterizzato la gestione del potere finanziario, economico, mediatico e del quale fanno parte gli esempi citati, è d’obbligo interrogarsi su quanto di autentico contengano e sul “debito ideologico” (ideologia in senso marxiano come “falsa coscienza”) che rischiano inconsapevolmente di pagare.

Detto brutalmente: l’ideologia del “merito” sembra avere efficacemente protetto, per una lunga fase storica, il fatto che la maggioranza dei cittadini consumasse molto di più di quanto producesse (vedi soprattutto gli USA), e che una assoluta minoranza cumulasse ricchezza “dormendo e divertendosi” o al più lavorando (nella finanza) come se giocasse a Monopoli con soldi veri (e dadi truccati).

E “l’ideologia” come tutte le ideologie, è servita almeno provvisoriamente a saldare (gestione del consenso. Vedi controllo dei media) gli uni con gli altri.

Fino ad oggi. Oggi abbiamo sotto gli occhi i risultati. La sommatoria delle due “convenienze”, travolta dalla crisi finanziaria, ha prodotto da un lato la voragine della disuguaglianza, dall’altro la difficoltà a tracciare una sensata via di uscita che riconduca alla realtà faticosa della economia reale e dello sviluppo reale.

L’altro termine “equità”, unito al primo, è in grado di “svelarne” i possibili usi “ideologici”?

Non lo so. Certamente nelle intenzioni di tanti amici che lo usano sono sicuro vorrebbe avere tale significato, e perciò si costruisce il binomio “merito ed equità”.

Mi limito ad osservare che la sua semantica è assai ambigua. In diritto il principio di equità rappresenta la possibilità del Giudice di sentenziare anche al di là della forma codificata della norma.

Nell’uso corrente indica un atteggiamento “morale” di giudizio, caso per caso, attingendo a categorie di comparazione assennata, di “pesatura” equilibrata…

Perché non usare semplicemente il termine “uguaglianza” che pure ha la medesima radice?

Il patto di cittadinanza che unisce (o lo dovrebbe) il nostro Paese (la Costituzione) impegna a “rimuovere” tutto ciò che impedisce di costruire l’eguaglianza nella realtà. E dà a tale impegno il segno di una priorità che impegna tutti.

A me pare che equità versus uguaglianza rappresenti una sorta di “attenuazione”, quasi il frutto di un “pudore” che viene da una lunga stagione nella quale l’uguaglianza sembrava avere un connotato retrò, improponibile di fronte alle prospettive vincenti della competitività, della concorrenza, dell’eccellenza dei talenti..

E senza il riferimento forte all’uguaglianza, il termine equità, con tutte le migliori intenzioni, rimane privo di riferimenti.

Ricordo, riprendendo gli esempi da cui sono partito, che alle eccezioni circa le paghe dei manager (si tenga presente che sono stipendi, non profitti… Non sono mitigati neppure dal rischio dell’imprenditore “vero”) si è sempre risposto, quasi in coro, che si tratta di retribuzioni allineate al mercato internazionale. Eque dunque. Se si assume quel riferimento.

Ma il mio non è solo un invito ad usare in modo più discriminato certe parole d’ordine, valutandone criticamente la semantica (ogni parola, specie se utilizzata in slogan e/o ripetuta come un mantra nel confronto mediatico porta con sé un “effetto alone” che è in grado di capovolgerne il significato).

Segnalo invece una questione specifica di politica scolastica.

Quando si abbia a che fare con una situazione reale di risorse estremamente limitate per alimentare una politica pubblica dell’istruzione, occorre saper discriminare e scegliere. Non è sufficiente mettere una congiunzione tra due parole.

Perseguire il merito e perseguire l’equità non sono politiche uguali. Non sono contraddittorie, ma neppure equivalenti.

Non si tratta dunque di semplice semantica (chi mai potrebbe affermare di essere contro il merito? Anche se qualcuno potrebbe eccepire, e lo fa, sugli oneri che comporta l’eguaglianza…).

Di fronte alla palese “ineguaglianza” che caratterizza i risultati del sistema scolastico italiano (bastano i confronti sulle prove INVALSI tra Nord e Sud, o la stessa variabilità dei dati all’interno di ciascun comparto geografico), quale è la priorità? Perseguire il merito? O quella che deriva dal prendere atto che una scommessa storica per la quale la “scuola per tutti” poteva contribuire all’impegno a “rimuovere” ciò che si opponeva alla uguaglianza reale dei cittadini, è tuttora inevasa, ed anzi mostra preoccupanti falsificazioni nel funzionamento della scuola stessa?

Per capire e apprezzare una politica pubblica per l’istruzione si dovrebbe poter discriminare tra le priorità. Comprendere come si combinano e selezionano gli investimenti diretti agli obiettivi eletti a priorità.

L’obiettivo prioritario è perseguire il merito, o dare nuovo vigore al significato dell’istruzione per tutti come una leva per l’eguaglianza? E se si tratta di combinare le due cose (non equivalenti, nel guidare gli investimenti) con quali fattori di combinazione/discriminazione?

Sembrano interrogativi così elementari da poter essere liquidati con uno scrollare di capo…

Teniamo conto, però, della lunga e lenta (più di un decennio) sedimentazione di significati e alterazione del “senso comune” che contribuisce non poco a rendere opachi e incerti i nostri sforzi per trovare una traccia realistica di futuro. (E anche ad usare con pudore eccessivo, parole come uguaglianza e giustizia sociale? O a lasciarle alla dimensione “dell’indignazione”, incapace di dare luogo a vere scelte politiche)

Ricordate Fukuyama, quello che “la storia è finita”? Con altrettanta sicurezza affermò, negli anni in cui quella ubriacatura era nel suo pieno, che “la guerra contro la povertà” era stata “finalmente vinta, una volta per tutte, con la sconfitta dei poveri”…

Una ispirazione comune ad affermazioni assai più recenti, come quella che la crisi non c’è, perché “i ristoranti son pieni e i voli tutti prenotati..”

Oggi possiamo solo tristemente e rabbiosamente chiederci come hanno fatto, certe “analisi”(?!) a tenere banco per una intera stagione.

A distanza di dieci anni dovremmo non avere alcun pudore nel disfarci in fretta di quelle sedimentazioni.

Anche, e soprattutto, quando si parla di istruzione.

PS. Chissà che indice di “valore aggiunto” (INVALSI), aveva la scuola che si dimenticò di bocciare il manager entusiasta di Napoleone vincitore a Waterloo.


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