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Scheda n.4 PROTAGONISMO E PROFESSIONALITÀ DEL PERSONALE DELLA SCUOLA Il successo di qualsiasi intervento di innovazione dei sistemi formativi, così come il loro buon funzionamento ordinario,...

24/07/2005
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Scheda n.4

PROTAGONISMO E PROFESSIONALITÀ DEL
PERSONALE DELLA SCUOLA

Il successo di qualsiasi intervento di innovazione dei sistemi formativi, così come il loro buon
funzionamento ordinario, ha come presupposto il protagonismo del personale (docenti, dirigenti
scolastici, personale dei servizi generali e amministrativi).
La scuola è attraversata e frastornata da una serie di annunci, interventi legislativi, decreti e
indicazioni che hanno la pretesa di ridefinirne le finalità e i connotati senza un suo coinvolgimento,
senza un'analisi reale e approfondita dei suoi pregi e dei suoi limiti.
E' necessaria una decisa inversione di rotta: dagli interventi privi dei presupposti per un
cambiamento positivo, o connotati da intenzioni regressive, occorre passare al sostegno e al
governo dei processi di innovazione che si sono realizzati sulla base della capacità di molte
scuole,con l'impegno di una parte rilevante del personale, di individuare risposte adeguate a
problemi inediti e complessi (la scolarizzazione di massa, l'inserimento di alunni diversamente abili,
la presenza sempre più rilevante di alunni stranieri).
Nella scuola dell'autonomia, finalizzata a produrre quei processi di innovazione costante,
necessari per dare risposte tempestive ai mutamenti sempre più rapidi dei soggetti che apprendono
e delle esigenze della società, va destinata una particolare attenzione al "mestiere dell'insegnare", a
partire dalla formazione iniziale, per capire come riconoscere, valorizzare e sviluppare la
professionalità degli insegnanti: un problema strettamente connesso allo sviluppo del processo di
autonomia, sia a livello di sistema nazionale e territoriale, sia a livello delle dinamiche interne alle
scuole (dimensione individuale-collegiale dell'insegnare).
E' fondamentale determunare le condizioni affinchè l'autonomia dispieghi tutte le sue
potenzialità. Al fine di qualificare il processo di insegnamento/apprendimento, è necessario che si
conolidi tra gli insegnanti la cultura e la consapevolezza della loro funzione di professionisti inseriti
in una organizzazione, capaci di autonomia culturale, decisionale, progettuale; in grado di
governare e regolare, in ogni situazione, l'azione didattica; scegliere i percorsi culturali, adottando
strategie didattiche coerenti con gli obiettivi di apprendimento; valutare l'efficacia dei percorsi
realizzati; riflettere sulle esperienze realizzate e i problemi affrontti; lavorare e confrontarsi con i
colleghi; fare ricerca e sperimentare; aggiornarsi con continuità; realizzare corsi di recupero,
sostegno e approfondimento; riorganizzare il tempo scuola, rompere l'unità classe (quando è
necessario); negoziare con i soggetti esterni alla scuola.
Le tante buone pratiche sono la dimostrazione che questa strada è già stata intrapresa e percorsa
da molti. E' necessario sostenere questi percorsi.
Dirigenti scolastici e docenti, nella scuola dell'autonomia assumo ruoli e responsabilità
sicuramente diversi e responsabiltà maggiori rispetto alla tradizionale concezione della scuola come
apparato terminale dell'amministrazione scolastica. Proprio per questo è necessario attuare politiche
di sostegno e sviluppo delle loro professionalità, sia nella fase del reclutamento che durante tutta
l'attività di servizio. Se l'istruzione e la formazione rappresentano risorse strategiche per lo
sviluppo del paese, è anche vero che dirigenti scolastici, docenti e personale in genere,
rappresentano la risorsa fondamentale per la qualificazione e lo sviluppo del sistema di istruzione.
Una cura particolare va quindi dedicata alle problematiche del personale da affrontare con la
consapevolezza della stretta correlazione tra le questioni di merito e quelle di metodo.
Sul piano del metodo è fondamentale che gli insegnanti non siano considerati come i destinatari
di una politica sulla scuola ma i soggetti attivi di una politica per la scuola, di un processo
innovativo profondo che non può però prescindere dalle condizioni in cui realmente la scuola si
trova.
All'innovazione serve una prospettiva significativa e servono le risorse adeguate. Servono però
anche dei protagonisti consapevoli dei possibili effetti "moltiplicatori": le risorse per le scuola (che
vanno incrementate anche in una condizione caratterizzata da oggettive difficoltà complessive)
devono essere in grado di attivare la più consistente e viva risorsa di cui la scuola già dispone: gli
insegnanti.
Nel merito, sarà necessario ribadire e assicurare, ad ogni livello di esercizio delle competenze in
materia di istruzione e formazione e individuare, alcune prerogative e garanzie strettamente
connesse con i principi costituzionali già richiamati nella paragrafo "Autonomia, libertà di
insegnamento e responsabilità professionale"
1. La libertà di insegnamento, libertà sostanziale, a garanzia del diritto di tutti gli alunni ad
apprendere in condizioni di libertà e di pluralismo.
2. L'autonomia professionale, come autonomia culturale, didattica, scientifica e di ricerca, a
garanzia della qualità e della imparzialità del sistema pubblico dell'istruzione.
3. La funzione pubblica del 'mestiere', a garanzia degli obiettivi definiti dal potere pubblico
nell'esclusivo interesse della società.
4. La natura pubblica del reclutamento, a garanzia dell'imparzialità del sistema pubblico
dell'istruzione.
5. L'unicità della funzione, a garanzia dell'unitarietà del processo di insegnamento-apprendimento,
quand'anche articolata al suo interno in compiti e mansioni differenziati e nelle specificità dei vari
gradi scolastici.
6. La collegialità e la cooperazione, come dimensioni ordinarie del lavoro scolastico e di ogni
progettazione dell'offerta formativa.
7. La valorizzazione della professione, come sviluppo di competenze e di responsabilità legate al
miglioramento dell'insegnamento-apprendimento.
Sulle questioni relative alla formazione iniziale; al rapporto tra Università e Scuola per la
formazione iniziale all'insegnamento e in servizio, in particolare in riferimento all'autonomia di
ricerca prevista dall'art 6 del DPR 275/99; allo sviluppo della professione docente, è necessario
aprire un confronto con il mondo della scuola e con le sue rappresentanze sindacali e professionali,
in tutta la ricchezza delle loro articolazioni culturali ed ideali. La costruzione di un percorso
condiviso e di un ampio consenso attorno a queste questioni è un dovere della politica, non una
concessione a istanze corporative: la condizione necessaria per la praticabilità delle scelte.

SCHEDA n. 5

IL SISTEMA DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE: IDENTITÀ, RUOLI E TRASFORMAZIONI

Identità e caratteristiche della formazione professionale

E' necessario definire puntualmente l'identità della formazione professionale come sistema
distinto da quello scolastico, che si basa sulle seguenti caratteristiche, che ne costituiscono la
ricchezza e l'originalità:
- la formazione professionale è il canale indispensabile ai vari livelli, per un accesso al lavoro che
tenga conto delle domande di formazione provenienti dalle imprese e dai lavoratori, in particolare
per quanto riguarda competenze professionali adeguate a rispondere alle continue innovazioni
tecnologiche ed organizzative della produzione e del lavoro. In questo senso la formazione
professionale sviluppa una cultura del lavoro che si costruisce e si rinnova permanentemente
nell'intreccio tra formazione esterna alle imprese e formazione interna al contesto lavorativo, nel
rapporto tra agenzie formative accreditate ad hoc e imprese che si configurano come learning
organizations.
- la formazione professionale ha accumulato una cultura formativa sua propria attenta alla
personalizzazione dei percorsi formativi ai fini dell'inserimento dei giovani nel mondo del
lavoro ed della formazione continua dei lavoratori, attraverso metodologie didattiche
appropriate basate sull'accoglienza, il bilancio delle competenze, il tutorato, i progetti
formativi predisposti insieme alle agenzie formative accreditate e dal mondo del lavoro. In
questo quadro hanno grande rilevanza sociale le esperienze realizzate dalla formazione
professionale per la prevenzione del disagio scolastici e formativo, per il recupero dei
dropout attraverso metodologie didattiche finalizzate specificamente a questo obiettivo.
- la formazione professionale deve necessariamente radicarsi nel territorio, per rispondere ai
fabbisogni differenziati in esso presenti. In questo senso l'offerta formativa si accompagna
ai servizi sviluppati dalle agenzie formative, come l'analisi del mercato del lavoro e delle
figure professionali richieste rilevate dalle analisi dei fabbisogni professionali e formativi, le
iniziative di orientamento collegate alle strutture pubbliche a ciò preposte, ecc.
- il sistema della formazione professionale deve portare tutti gli utenti ad acquisire qualifiche
riconosciute a livello nazionale e comparabili a livello europeo attraverso un sistema di
certificazione delle competenze acquisite e dei relativi crediti formativi da registrare nel
libretto formativo e basati su standard nazionali definiti insieme da Stato e Regioni, con il
concorso delle Parti Sociali, e con le eventuali integrazioni di carattere regionale e
territoriale.
Le iniziative formative della formazione professionale si possono servire di integrazioni con
il sistema scolastico, in particolare per quanto riguarda l'acquisizione delle competenze di base, che
costituiscono da una lato la cultura di cittadinanza dall'altro lo zoccolo indispensabile
dell'acquisizione delle competenze professionali. Viceversa il sistema scolastico può aver bisogno
dell'integrazione con la formazione professionale per la transizione degli studenti nel mondo del
lavoro attraverso l'acquisizione di competenze professionali adeguate ai vari livelli.
Rispetto alle caratteristiche delineate la realtà dei sistemi di formazione professionale regionali
presenta elementi di forte eterogeneità e di scostamento rispetto ai parametri di qualità necessari ed
alla diffusione equilibrata dei vari livelli formativi (prima formazione, apprendistato, formazione di
secondo livello, formazione continua). Un'azione costante di omogeneizzazione quantitativa e
qualitativa deve essere messa in atto dalle Pubbliche istituzioni, Stato e Regioni, con la
generalizzazione dei sistemi di accreditamento rigorosi delle agenzie formative e con l'investimento
di adeguate risorse che permettono di dare pari dignità alla formazione professionale rispetto al
sistema scolastico.

I ruoli della formazione professionale
Sulla base di queste potenzialità la formazione professionale può svolgere i seguenti ruoli ai
vari livelli:
- durante il biennio, attraverso forme di integrazione con la scuola opportunamente modulate
nelle diverse realtà regionali, la formazione professionale deve concorrere al completamento
della formazione culturale di base ed al potenziamento delle capacità di scelta dei percorsi
successivi, favorendo l'integrazione della cultura del sapere con quella del saper fare, non
come semplice momento di esercitazione pratica, ma come fase fondamentale ed
imprescindibile del processo di apprendimento, che si basa sulla circolarità tra teoria e prassi
(anzi tra prassi e teoria, che costituisce il momento di riflessione sulla prassi)
- al termine del biennio la formazione professionale organizzerà percorsi di durata diversa
(annuali, biennali) che da una parte mettano i giovani in grado di inserirsi velocemente nel
mondo del lavoro, dall'altra forniscano le competenze necessarie per proseguire nel percorso
scolastico e formativo a quei giovani che vogliano invece continuare.
- al termine della scuola secondaria e dell'Università la formazione professionale organizzerà
percorsi che facilitino la transizione dei giovani diplomati e laureati nel mondo del lavoro.
Questi percorsi avranno diversa natura a seconda dell'esigenza di formare figure con un
profilo professionale più standardizzato e riconosciuto (in questo caso attraverso l'Istruzione
e formazione tecnica superiore, e dunque attraverso l'integrazione con il mondo della
scuola, dell'Università e dell'impresa, che consenta ai qualificati il riconoscimento di crediti
per accedere all'Università), oppure figure molto specifiche, individuate sulla base di
esigenze particolari espresse dal mondo del lavoro;
- nell'apprendistato la formazione professionale organizzerà percorsi di approfondimento e
rinforzo delle competenze tecnico-professionali di base, in stretto raccordo con l'impresa e
sulla base del profilo formativo definito dalle Regioni d'intesa con le Parti sociali. La
formazione professionale esterna sarà più consistente per gli apprendisti in età di obbligo
formativo, grazie anche all'introduzione di un sistema di incentivi differenziati per le
imprese;
- in età adulta la formazione professionale organizzerà percorsi di formazione continua, per i
soggetti occupati che necessitano di un aggiornamento o di una riqualificazione a seguito dei
processi di innovazione tecnologica o di riqualificazione produttiva, e percorsi di
reinserimento al lavoro, per i soggetti che siano in cerca di nuova occupazione, in una
prospettiva di life long learning;
L'integrazione tra scuola e formazione professionale dovrebbe trovare una sede elettiva
all'interno dei poli formativi, che dovrebbero diventare delle sedi di riferimento per tutta l'attività
formativa svolta nel settore produttivo di riferimento, dalla formazione iniziale alla formazione
tecnica superiore (ipotizzando anche un collegamento stabile con le istituzioni universitarie del
settore), alla formazione continua. Oltre all'attività di formazione, nel Polo si conduce, in raccordo
con il mondo del lavoro, un'attività di analisi, di elaborazione e di proposta, sia formativa che
culturale (borse di studio, scambi internazionali, ecc.) rivolta a tutti coloro che operano, a tutti i
livelli, all'interno del settore.
Il Polo formativo
" consentirà una più naturale integrazione ed osmosi con il mondo del lavoro: nella gestione
del Polo dovrebbero infatti essere coinvolte le rappresentanze del mondo del lavoro locale
afferenti al settore produttivo interessato.
" favorirà l'approfondimento dei fabbisogni professionali nel settore produttivo di riferimento
e l'individuazione dei percorsi formativi più adatti: le dimensioni della sede formativa e la
sua specializzazione settoriale favoriscono infatti la concentrazione di competenze
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qualificate, la ricerca sul settore professionale di riferimento, la sedimentazione e la
disseminazione delle conoscenze; la capacità di progettazione formativa dei percorsi
verrebbe dunque notevolmente potenziata; anche l'alternanza scuola-lavoro potrebbe
assumere forme nuove e più incisive;
" permetterà i passaggi dei giovani da un percorso all'altro, offrendo loro la possibilità di
modificare le loro scelte senza dover cambiare sede formativa.

SCHEDAnN. 6

INNOVAZIONE NELL'UNIVERSITA'
E CON L'UNIVERSITA'

Innovazione e sistema pubblico del sapere
In Italia la domanda di formazione superiore e di ricerca innovativa è decisamente in crescita
da alcuni anni. Non c'è analisi seria della situazione del Paese che non individui nel livello
mediamente basso dell'istruzione (meno di metà dei laureati a parità di popolazione rispetto ai Paesi
più sviluppati) e nella carenza della capacità di innovazione tecnologica i suoi principali fattori di
arretratezza in una società dominata dalla conoscenza come l'attuale.
I giovani e le loro famiglie sanno che il migliore investimento nel futuro è lo studio. Lo
dimostrano tanti segnali positivi, come ad esempio l'aumento delle immatricolazioni nelle
università (che indica il ritorno all'università di tanti giovani che l'avevano abbandonata o non
l'avevano scelta alla fine delle medie superiori) o il successo straordinario dei moltissimi corsi
professionalizzanti post-laurea. Emerge una nuova motivazione dei giovani italiani verso gli studi
superiori che andrebbe coltivata come una piantina preziosa.
Le imprese e gli enti pubblici, da parte loro, cercano intensamente innovazione e dunque
ricerca. I meccanismi di trasferimento culturale e tecnologico della ricerca alla produzione di beni e
servizi purtroppo non funzionano bene, ma l'interesse ad "acquistare" ricerca dalle università e
dagli enti di ricerca è comunque in forte crescita, come è dimostrato dalla quota crescente nei
bilanci universitari delle risorse derivanti da contratti e convenzioni di ricerca con enti esterni.
Proprio quando l'aumento della domanda dei "servizi" universitari avrebbe potuto generare
crescita nel sistema universitario italiano, a questo sistema essenzialmente pubblico sono state fatte
mancare le risorse per adeguare e migliorare l'offerta. La legislatura volge al termine senza che sia
stato risolto alcun problema dell'università italiana. Il Governo non è stato capace di portare a
conclusione nessun provvedimento organico. Si sono viste solo norme improvvisate o pateticamente
passatiste, tagli ai finanziamenti, blocco delle assunzioni, rilancio del centralismo burocratico
ministeriale a discapito dell'autonomia degli atenei. Tutto ciò ha creato un diffuso disagio e
un'ampia mobilitazione nel mondo universitario.
Noi, forze politiche di opposizione, non ci sentiamo di gioire per la paralisi decisionale degli
ultimi quattro anni. Anzi vogliamo fare un tentativo estremo perché, almeno a fine legislatura, dal
Parlamento possano venire buone notizie ai docenti, agli studenti e alle famiglie.
L'Italia soffre di una carenza di sapere. Il Paese che possiede il più ricco patrimonio
culturale del mondo ha pochi laureati e pochi ricercatori in rapporto alla popolazione, non ha un
sistema sviluppato di formazione continua lungo tutto l'arco della vita, investe poco nella ricerca e
nell'innovazione.
E' quindi importante e urgente una nuova politica complessiva del sapere, che intervenga
organicamente e strategicamente, fissando chiare priorità, su tutto lo spettro dei problemi: dalle
scuole dell'infanzia alle università ed ai centri di ricerca avanzata; dalla ricerca libera fonte di
nuovo sapere a quella orientata dalle imprese alle innovazioni tecnologiche e produttive; dalla
dimensione nazionale ed europea delle grandi sfide scientifiche a quella regionale correlata con la
programmazione e la storia economica e sociale di ogni territorio.
Uno snodo fondamentale del sistema del sapere è dato dall'Università come luogo di
compresenza della formazione superiore (trasmissione del sapere), della ricerca (creazione di
sapere), dell'avvio dei talenti migliori alle carriere dell'insegnamento e della ricerca (propagazione
del sapere).
La formazione superiore e la ricerca libera costituiscono beni pubblici di fondamentale
importanza, le università svolgono un servizio pubblico nell'interesse del Paese e dei suoi territori.
E' compito primario dello Stato sostenerle e, insieme, favorire ogni forma di integrazione
con le istituzioni territoriali pubbliche o private in base al principio di sussidiarietà.
Il mondo universitario rivolge al centrosinistra una chiara domanda: che cosa farete per
l'Università quando ritornerete a governare l'Italia? Vogliamo dare una prima risposta concreta. E'
vero che un approccio limitato alle sole università non ha quei requisiti sistemici generali che
sarebbero necessari, ma è un modo di aprire un dibattito su precise proposte programmatiche nella
speranza di condividerle con il maggior numero possibile di persone e di affinarle in un ampio
confronto di idee ed esperienze diverse.
Il punto centrale della nostra proposta è che l'Università italiana ha bisogno di innovazione,
tanto quanto il Paese. I due aspetti sono legati. Quanto più l'Università sarà capace di innovarsi nei
suoi modi e obbiettivi di funzionamento, tanto più essa accompagnerà e sosterrà l'innovazione per
lo sviluppo dell'Italia. Un'Università senza spinta non dà spinta al Paese.

Autonomia, responsabilità, valutazione per nuovi modelli di governo
Le riforme universitarie degli anni '90 hanno spesso trovato difficile applicazione negli
atenei, talora fallendo in parte i loro obbiettivi, pur ragionevoli e ben motivati. Una delle ragioni
risiede nelle antiquate forme e procedure di governo che caratterizzano sia il sistema universitario
nel suo complesso che le singole università. Democrazia collegiale ed efficienza innovativa non si
sono coniugate nel modello tradizionale di governance universitaria.
Occorre ripartire dall'autonomia, che è molto più dell'autogoverno cui le università sono da
sempre abituate. Autonomia significa capacità di darsi le proprie regole, in una possibile
molteplicità di approcci e di soluzioni che non può che far bene all'intero sistema introducendo una
positiva competizione tra diversi modelli istituzionali e organizzativi, dando anche la possibilità di
adattarsi flessibilmente alle diverse strategie e situazioni dei vari atenei.
Sedici anni fa la legge 168 introduceva l'autonomia universitaria ma poneva limiti al suo
esercizio, in particolare sui temi della governance, in attesa di una legge quadro che però non è mai
arrivata. E' giunto il tempo di farla. Una legge quadro che rimuova tutte le complicate
stratificazioni che si sono accumulate sulle università in settant'anni di legislazione disorganica e
che fissi invece nuovi e semplici principi riducendo drasticamente la burocrazia e delegando alle
singole università tutte le competenze che vi possono essere svolte più efficacemente.
Vi è innanzitutto da esplicitare un criterio generale, per quanto ovvio possa sembrare. Non
vi può essere vera autonomia se non assegnando responsabilità chiare, che evitino ogni opaca
condivisione di poteri, e operando una continua valutazione esterna dei risultati da parte di tutti i
portatori di interesse. La gestione collegiale tipica delle università deve essere mantenuta ma entro
un nuovo quadro di responsabilità individuali; l'autovalutazione, tesa al miglioramento continuo
delle proprie attività, è un punto fondamentale di ogni valutazione della qualità ma non ci si può
ridurre ad essa senza rischiare un'autoreferenzialità e un corporativismo che indispettiscono
l'opinione pubblica e rallentano l'innovazione.
Come principio di governance dei singoli atenei occorre innanzitutto stabilire che gli statuti
devono accuratamente separare i compiti e le responsabilità di governo e di amministrazione da
quelli di normazione, di garanzia e di controllo. Attualmente non vi è separazione, anzi confusione
di poteri tra il consiglio di amministrazione (che non ha la responsabilità di tutti i compiti tipici
dell'amministrazione ma, tradizionalmente, ne ha altri di tipo normativo in rappresentanza degli
interessi categoriali interni), il senato accademico (che rappresenta essenzialmente gli interessi
disciplinari di facoltà e dipartimenti ma spesso ha assunto compiti decisamente gestionali su
personale docente e attività istituzionali) e il rettore che presiede entrambi.
È opportuno che sia mantenuta l'elettività del rettore come figura che rappresenta
democraticamente l'intera istituzione (compresi gli studenti) e nella cui azione questa possa
riconoscersi. Un rettore che sia figura di vertice del corpo docente ma anche responsabile diretto
della gestione dell'ateneo insieme ad un Consiglio di Ateneo (un Board) di composizione non
elettiva in rappresentanza sia degli interessi interni che di quelli esterni all'ateneo. Il Consiglio avrà
i tipici compiti esecutivi e responsabilità di ogni vero consiglio di amministrazione. Un'università
non è un'impresa, ma la sua complessa gestione non può rifiutare i modelli migliori
dell'amministrazione elaborati dalle imprese, temperati dalle caratteristiche di democrazia e
condivisione delle scelte che devono essere tipiche di ogni istituzione che gestisce beni e interessi
pubblici.
Un senato accademico elettivo, in rappresentanza diretta di docenti, studenti e personale,
completerà il quadro degli organi di governo dell'ateneo assumendo la natura di organo di garanzia
dell'autonomia e quindi la responsabilità di ogni atto normativo interno, della valutazione e
controllo delle strategie e della gestione, della garanzia delle libertà accademiche e dei diritti degli
studenti, dell'espressione democratica delle posizioni e scelte culturali dell'università. Spetterebbe
comunque al senato esprimere o revocare la fiducia al rettore e al consiglio di ateneo.
Come ultimo aspetto della governance di ateneo sarebbe opportuno delegificarne
completamente la strutturazione interna. Ogni ateneo sceglierà come organizzarsi: l'esistenza e i
mutui rapporti di facoltà, dipartimenti, corsi di studio, centri di ricerca e di servizi e dei relativi
organi di gestione saranno interamente affidati agli statuti e ai regolamenti autonomi, purché siano
sempre salvi i principi di responsabilità (ogni atto deve avere un responsabile), di sussidiarietà (ogni
decisione sarà affidata alla struttura più vicina e più piccola possibile rispetto ai contenuti della
medesima) e di unitarietà (saranno riportati agli organi centrali gli atti di interesse per l'intero
ateneo per evitare di ridurre un'università ad una federazione di facoltà o dipartimenti).
Per quanto riguarda il governo del sistema universitario nazionale in un quadro di vera
autonomia degli atenei occorre passare dal modello burocratico-dirigistico a quello regolativovalutativo,
da una tradizione di interventi minuti e pervasivi all'innovazione di un vero governo
strategico "a distanza". Inoltre occorrerà ripensare e rivalutare profondamente il ruolo delle regioni
in tema di università nel quadro del nuovo sistema costituzionale introdotto dalla riforma del 2001.
Spetterà al Ministero definire gli obbiettivi strategici dello sviluppo del sistema ridisegnando
tutta la materia della programmazione triennale e della istituzione di nuove università, definire le
regole del gioco (con opportuni poteri sanzionatori nel caso di violazioni delle regole e di palesi
malfunzionamenti), ripartire i finanziamenti assegnati al sistema nel bilancio dello Stato, monitorare
e valutare lo stato del sistema e il raggiungimento degli obbiettivi.
La sempre maggiore importanza delle università come attori sociali principali e punti di
forza economico-sociali del territorio, addirittura in termini di marketing territoriale, richiede di
superare l'attuale inefficace modello dei comitati regionali di coordinamento per passare invece a
vere e proprie forme di governo universitario regionale sia in tema di offerta didattica che di ricerca
e trasferimento tecnologico senza naturalmente intaccare la natura nazionale e internazionale del
sistema universitario ma responsabilizzandolo e sostenendolo rispetto agli obbiettivi regionali.
Spetterà poi ad un'agenzia nazionale o ad un'Authority il compito di coordinare, guidare e
rendere pubbliche le attività e i risultati della valutazione della qualità delle attività universitarie.
L'agenzia dovrà garantire totale terzietà e quindi essere indipendente sia dal Ministero che dagli
atenei. Per essere precisi, il lavoro di esperti universitari presso l'agenzia sarà esclusivamente a
tempo pieno e con distacco dagli atenei di appartenenza, con esclusione quindi di impegni didattici,
di ricerca e gestionali che inevitabilmente comporterebbero una conflitto di interessi tra valutatori e
valutati. Nulla impedisce evidentemente che l'agenzia utilizzi come revisori professori delle
università italiane e straniere ma i rapporti di valutazione devono essere opera e ricadere nelle
responsabilità di esperti indipendenti provenienti dal mondo della ricerca e accuratamente formati.
Sia ben chiaro che la valutazione ha come obbiettivi fondamentali il continuo miglioramento
gli atenei e la trasparenza della valutazione qualitativa e quantitativa delle loro attività didattiche e
di ricerca, non quello di ripartire il finanziamento pubblico o di dare indicazioni cogenti sui criteri
della ripartizione rischiando di deformare la valutazione per tener conto delle complesse
problematiche del sostegno pubblico alle università. Sarà quindi il Ministero che giudicherà e
stabilirà come e quanto tener conto dei risultati della valutazione nella ripartizione del
finanziamento, rispondendone politicamente. Viceversa si garantirà in questo modo che la
ripartizione del finanziamento non diventi implicitamente il criterio unico di valutazione della
qualità, deformandone significato e portata innovativa.
Infine, come è tipico di ogni sistema di autonomie, non mancheranno le loro rappresentanze
a livello nazionale. Il sistema universitario è essenzialmente un sistema di atenei e quindi la
conferenza dei rettori delle università è il luogo naturale dove gli interessi degli atenei in quanto
istituzioni autonome vengono rappresentati rispetto al Governo, al Ministero, all'opinione pubblica.
D'altra parte, oltre quella al proprio ateneo, il docente universitario sente fortemente
l'appartenenza alla propria area disciplinare. E' quindi consigliabile mantenere un'altra istituzione
di rappresentanza disciplinare come l'attuale Consiglio Universitario Nazionale, con funzioni di
consulenza e proposta su tutte le materie dell'organizzazione dei saperi relative alla didattica e alla
ricerca universitaria, ma ripensandone profondamente composizione e modi di funzionamento per
evitare la frammentazione disciplinare e il corporativismo accademico.
Infine dovrà essere potenziato il ruolo del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari
come luogo di elaborazione e confronto delle proposte riguardanti le materie della condizione
studentesca nelle università e come luogo di garanzia dei diritti degli studenti.
Occorre però evitare che il Consiglio Universitario Nazionale e il Consiglio Nazionale degli
Studenti Universitari divengano surrettiziamente organi di governo del sistema confondendo il
quadro dei poteri e delle responsabilità, spingendo a forme consociative di gestione e indebolendo il
ruolo del Ministero e l'auspicabile alta professionalità delle sue strutture interne.
Nuovi docenti per una nuova universita'
Molto è cambiato nel mondo universitario e nella società dopo la legge del 1980 che ha
regolato e regola tuttora il lavoro dei docenti. La centralità degli atenei autonomi rispetto a quella
delle corporazioni disciplinari nazionali, la nuova attenzione agli studenti portata dalla riforma della
didattica, l'auto-imprenditorialità nel campo della ricerca generata in tutti i campi disciplinari dalla
necessità di reperire risorse anche fuori dai canali tradizionali di finanziamento, le nuove
responsabilità gestionali e sociali richieste ai docenti all'interno degli atenei e nella società: sono
tutti esempi di mutamenti profondi che impongono un ripensamento delle regole della professione
docente nelle università.
D'altra parte non c'è studente universitario, preside di facoltà, direttore di dipartimento o
rettore che non riconoscano l'assoluta incertezza normativa che ormai regola - o, meglio, non regola
- la prestazione lavorativa dei professori e che consente la coesistenza, accanto ad una maggioranza
di docenti che fa molto più del proprio dovere per serietà e passione, di una minoranza che si limita
al minimo indispensabile e che è comunque restia a qualsivoglia tipo di impegno innovativo e di
coordinamento.
Il professore universitario costituisce una ben definita figura professionale unitaria
caratterizzata dalla capacità di compiere autonome ricerche originali e di guidare l'alta formazione
nella propria disciplina, con inscindibilità di queste due funzioni fondamentali. Ha il diritto-dovere
sia di insegnare che di far ricerca, godendo di piena libertà accademica entro un quadro di
coordinamento dei compiti e dei programmi affidato agli organi di autogoverno delle strutture
universitarie.
L'unitarietà della professione non toglie però il fatto che i singoli professori posseggono
talenti differenti e raggiungono risultati differenti nelle loro attività, maturando nel tempo differenti
livelli di maturità e di autorevolezza scientifiche e didattiche. E' quindi tempo di introdurre una vera
"carriera" per i professori, in cui si venga reclutati con un concorso pubblico serio e competitivo e
che si percorra poi per merito, passo dopo passo, vincolando le promozioni a frequenti e stringenti
valutazioni della qualità e quantità delle attività svolte. Una carriera unitaria anche se articolata su
più livelli successivi corrispondenti non a differenti funzioni, bensì a talenti e meriti personali
differenti e a maggiori responsabilità.
Il percorso di carriera non avrà alcuna cadenza temporale predefinita, perché nel campo
della ricerca le persone molto giovani e molto dotate devono poter raggiungere rapidamente le
posizioni di vertice; ma si tratterà pur sempre di una carriera da percorrere sequenzialmente anche
se eventualmente a diversa velocità. A parte la rivalutazione annuale in base all'incremento del
costo della vita, gli avanzamenti economici dipenderanno esclusivamente dagli avanzamenti di
carriera e quindi dal superamento delle valutazioni periodiche.
All'interno della carriera unitaria, uno status economico e giuridico particolare dovrebbe
essere riservato a quei professori che avranno raggiunto risultati di importanza e notorietà
internazionale per riconoscimento della comunità disciplinare interessata e che sono in grado
quindi, non solo di far la propria ricerca ad altissimo livello, ma anche di indirizzare e guidare la
ricerca altrui, soprattutto dei più giovani.
Una volta separato il problema del reclutamento da quello delle promozioni, diventa cruciale
il concorso di ingresso che, per principio, dovrebbe contemperare le esigenze della comunità
disciplinare che coopta al suo interno il nuovo professore con quelle dell'università che lo assumerà
e del dipartimento che lo accoglierà. Tutte esigenze legittime, che richiedono una normativa
moderna e flessibile, attenta tanto alle procedure selettive a priori quanto ad un sistema a posteriori
di incentivi efficaci della qualità del lavoro di ricerca e di insegnamento per il quale occorrerà far
riferimento all'Authority di valutazione di cui al punto precedente.
Certo non si può rimanere indifferenti davanti al vasto discredito che colpisce gli attuali
concorsi universitari introdotti nel 1998, forse ben oltre i loro reali demeriti, e che indebolisce
l'intero sistema universitario rispetto all'opinione pubblica. Senza illudersi che esista un sistema
miracoloso capace di evitare tutte le patologie, si potrebbe certamente migliorare la legge vigente.
Ciascun settore scientifico-disciplinare dovrebbe eleggere ogni due anni una lista di
"commissari nazionali" (con opportune regole di non immediata rieleggibilità) e la commissione di
ciascun concorso potrebbe essere formata semplicemente sorteggiando cinque "commissari
nazionali", con esclusione dei docenti dell'ateneo interessato. Si otterrebbero subito alcuni
vantaggi: omogeneità di giudizio nel biennio, aleatorietà nella composizione della commissione,
responsabilizzazione della comunità disciplinare chiamata a scegliere una volta ogni due anni i suoi
commissari e non concorso per concorso. Inoltre, dal punto di vista procedurale, la commissione
dovrebbe essere obbligata a raccogliere sui candidati giudizi anonimi, anche comparativi, di referee
stranieri ed a tenerne conto nello stabilire chi sia il candidato più meritevole.
Sarebbe anche opportuno provvedere, con attenta gradualità temporale, a rendere
obbligatorio il possesso del dottorato di ricerca per l'accesso alla carriera universitaria. Il dottorato
costituisce il livello più avanzato della formazione universitaria, destinato a formare alla ricerca
(non solo nelle università, ma anche negli enti pubblici e privati) ma anche a formare le
professionalità più alte tramite la ricerca, come capita nei Paesi dove il dottorato ha più lunga storia.
Però non v'è dubbio che l'università dovrebbe fare i conti innanzitutto con sé stessa riconoscendo
per le sue carriere docenti il suo stesso livello formativo più alto.
Un dottore di ricerca trentenne, che ha alle spalle otto e più anni di formazione, che si è
cimentato con successo nella ricerca autonoma, è da ritenersi persona matura per concorrere ad
entrare nel grado iniziale della carriera di professore universitario come succede nelle altre carriere
pubbliche di analoga importanza e responsabilità.
Ma il problema della docenza universitaria non è solo quello di nuove e migliori regole.
Abbiamo in Italia un bisogno disperato di giovani professori universitari che insegnino e facciano
ricerca con grande libertà anche nel decennio più produttivo della vita intellettuale, quello tra i
trenta e i quarant'anni, invece che penare in posizioni incerte e subalterne che finiscono anche col
limitare l'originalità di pensiero e l'indipendenza di azione con conseguenze drammatiche sullo
sviluppo culturale del Paese.
Un impegno programmatico primario è quello di assumere, oltre il turn-over, almeno
diecimila nuovi professori universitari durante la prossima legislatura. Il rallentamento delle
assunzioni dei ricercatori e il successivo blocco hanno fatto correre il rischio di veder scomparire
interi filoni del sapere. I professori più esperti non trovano più giovani ai quali trasmettere
prestigiose tradizioni di ricerca. Persino la positiva abbreviazione dei tempi medi di laurea, che
riduce la collaborazione dei laureandi, sta giocando contro le potenzialità di ricerca delle università.
La dialettica generazionale è una forza decisiva per lo sviluppo della conoscenza e per l'apertura di
nuove strade di ricerca; quando viene a mancare, il sistema langue.
Da questo punto di vista ogni legificazione di ulteriori periodi di formazione del docente
universitario tra dottorato di ricerca e ingresso in carriera rischia di allungare e stabilizzare il
periodo di precariato. Semmai potrebbe essere meglio prevedere forme aggiuntive di reclutamento
nella carriera universitaria con gli stessi diritti e doveri di tutti i professori ma per un periodo di
tempo determinato.
Un nuovo stato giuridico non potrebbe non fare i conti con gli attuali docenti, anche se
potrebbe essere interessante riservarlo solo ai neo-assunti in modo da non contaminarlo con
l'inestricabile rete di diritti acquisiti e di aspirazioni corporative del personale in servizio.
Nell'attuale stato giuridico è conveniente e urgente trasformare i ricercatori in terza fascia docente,
chiarendo i pochi punti controversi del loro stato giuridico e i dettagli tecnici della trasformazione: è
una soluzione a portata di mano che aiuterebbe anche il varo di una legge organica per uno stato
giuridico interamente nuovo e più adatto all'oggi e al futuro.
Per quanto riguarda i doveri e i diritti, il professore universitario che garantisce una
esclusività di impegno per la sua università sarà la figura centrale. Non mancheranno però i
professori a tempo parziale che, con parità di diritti ma non di tempo dedicato e quindi di stipendio,
garantiscono all'università l'apporto scientifico continuo e regolare di persone che svolgono anche
una libera professione o comunque un'altra professione non esclusiva.
La legge darà solo linee generali per quanto riguarda i doveri didattici e l'impegno orario di
presenza chiesto ai professori universitari. I dettagli saranno lasciati ai regolamenti di ateneo e
dovranno comunque prevedere la massima flessibilità tra le due funzioni fondamentali della
didattica e ricerca, che potranno rappresentare quote diverse del lavoro di ogni singolo professore in
diversi momenti temporali della sua carriera.

Per una nuova cittadinanza studentesca
Una società che non investe sui suoi giovani è destinata a deperire. Attualmente circa metà
dei ventenni italiani frequenta l'università, in futuro questa percentuale è destinata a crescere. Le
università e il Paese hanno una responsabilità enorme per garantire che gli anni trascorsi negli studi
universitari formino al meglio professionisti e cittadini. Le università devono essere insieme
palestre e pilastri del sapere e della democrazia.
Serve una nuova cittadinanza studentesca che inglobi e potenzi il diritto costituzionale degli
studenti capaci e meritevoli di arrivare ai più alti gradi degli studi anche se provenienti da famiglie
non abbienti ma che non si fermi qui. Si amplii quindi una politica di borse di studio e, soprattutto,
di servizi abitativi e logistici per gli studenti che ne hanno diritto, soprattutto se fuori sede,
rimediando ad un'impressionante arretratezza italiana rispetto agli altri Paesi. Un maggior legame
tra servizi agli studenti e atenei sarebbe forse utile per caratterizzare l'offerta formativa di un ateneo
e per rendere più consapevoli le scelte degli studenti.
Ma si immagini anche una nuova politica di supporti alla cittadinanza studentesca, affinché
gli studenti universitari possano esprimere e dare il meglio di sé. Le città, universitarie e non,
dovrebbero farsi forti dei loro studenti universitari, della loro freschezza intellettuale e capacità
innovativa, offrendo loro spazi di presenza e di cittadinanza attiva che li facciano crescere e ne
orientino aspirazioni e bisogni. Servono anche nuovi rapporti istituzionali tra città e università su
questi temi. L'università non può essere vissuta dagli studenti come un mondo senza regole. Le città
non possono vivere le comunità studentesche universitarie come enclaves senza legami.
Si mettano università e città in grado di competere positivamente per attrarre gli studenti,
pur senza dimenticare che non si deve rischiare di privare intere regioni dei giovani più ricchi di
talento e di coraggio innovativo con una sorta di brain-drain interno, ma anzi sostenere la crescita
dei territori svantaggiati proprio investendo nei loro giovani con formazione e ricerca. La mobilità
studentesca territoriale, sia nazionale che internazionale, è un fattore potente di sviluppo e di
competizione ma va guidata, orientata e coniugata con la mobilità sociale che è un altro obbiettivo
irrinunciabile.
In questo quadro di intervento pubblico equilibratore e di salvaguardia dei ceti deboli, è
certamente pensabile far corrispondere a maggiori servizi agli studenti anche un loro maggiore
contributo economico alle università, anche differito con i vari possibili meccanismi di prestiti e
rimborsi messi a punto in questi ultimi anni.
Un altro aspetto cruciale è l'attenzione agli studenti più bravi. L'Italia ha un sistema di
grande prestigio ma quantitativamente poco sviluppato di scuole universitarie d'eccellenza. Oltre
che investire gradualmente sull'ampliamento di questo sistema, piuttosto che immaginare di istituire
nuove università d'eccellenza, sarebbe conveniente stimolare in tutte le università, ognuna nei suoi
campi di maggior prestigio e sviluppo, la messa a punto di iniziative destinate ad individuare e
sostenere gli studenti che ottengono i migliori risultati.

Formazione universitaria e ricerca libera per far crescere il paese
La nuova architettura didattica universitaria introdotta nel 1999 sta dando i primi frutti
positivi, come mostrano le analisi statistiche sugli immatricolati e sui laureati nonché la netta
diminuzione delle critiche conservatrici più virulente. Sarebbe certamente opportuna consolidarla in
una legge che aumenti ancora gli spazi di autonomia e flessibilità didattica degli atenei e chiarisca
un punto così controverso e difficile come la mobilità infracorsuale tra atenei degli studenti.
L'architettura a più livelli, europea per modello, flessibile per durata e contenuti, affievolirà
nel tempo gli effetti più perversi del tradizionale valore legale dei titoli (che pure non può essere
abbandonato ex abrupto per varie e serie ragioni) e seguirà meglio aspirazioni e necessità di
studenti e mondo del lavoro, coniugandosi anche con un'università sempre più aperta a studenti di
tutte le età e ad un sistema di formazione, anche universitaria, lungo tutto l'arco della vita.
Si tratta di un nuovo e diverso ruolo delle università nella società e nei territori, attualmente
in un'inevitabile fase di sviluppo disordinato ma che deve trovare presto un quadro stabile, più che
in norme che non servirebbero e potrebbero imbrigliare l'innovazione, in una nuova consapevolezza
sociale che l'università di un tempo, statica e dappertutto identica, non risponde più alle necessità di
una cultura e di un'economia globalizzate e mobilissime.
Per fare una buona università, anche dal punto di vista della didattica, occorre assolutamente
dare impulso all'attività di ricerca. In tutti i campi, nessuno escluso, perché l'avanzamento della
conoscenza si nutre del contributo di tutte le discipline. Un'attenzione tutta particolare deve essere
riservata alla ricerca universitaria libera, nel senso di ricerca proposta autonomamente e guidata
dalla curiosità. La storia insegna che la curiosità del ricercatore e la sua libertà di azione sono, senza
eccezioni, i fattori fondamentali di successo della ricerca.
La ricerca universitaria libera non riguarda solo la ricerca nelle discipline di base ma anche
in quelle tecnologiche e applicate. L'università deve certamente rispondere alla domanda di ricerca
che viene dal mondo esterno e dalle imprese in particolare, giustamente orientata all'innovazione e
alla produzione, ma deve essere sostenuta nel suo campo più naturale aumentando decisamente i
finanziamenti per la ricerca universitaria liberamente proposta in tutti i campi e caratterizzandone
meglio regole e competitività senza mortificare o asfissiare finanziariamente alcun settore della
conoscenza.
Non va nemmeno trascurato il fatto che la ricerca pubblica si svolge in Italia sia nelle
università che negli enti pubblici di ricerca. Separare questi due comparti è un errore, occorre
integrarli sempre più nella convinzione che entrambi possono rispondere alla domanda di ricerca
della società ma anche che entrambi possono offrire alla società il contributo strategico
fondamentale della ricerca libera.
L'università italiana ha da tempo iniziato un percorso evolutivo di innovazione e di
adeguamento ai tempi. Occorre riprenderlo con lena in un quadro di autonomia e di svecchiamento
normativo. Compito della politica e delle leggi è accompagnare intelligentemente quest'evoluzione
senza mai perdere di vista i valori fondanti millenari delle università.

SCHEDA n. 7

LA RICERCA: SPAZIO EUROPEO, IL MERITO E LA
LIBERTÀ, RICERCA E INNOVAZIONE

La rinascita civile del Paese richiede una grande politica a favore della ricerca in tutti i
campi del sapere. Il futuro dell'Italia dipende dalle opportunità di studio e di ricerca che sapremo
offrire alle nuove generazioni nei prossimi anni.
Non si tratta di obiettivi settoriali, né di esigenze meramente strumentali. Meno che mai il sapere si
può tagliare a fette, anzi richiede una crescita contemporanea della scienza nei suoi diversi aspetti,
umanistico, scientifico, economico-sociale ecc. Meno che mai si può ridurre la ricerca ad un certo
utilitarismo economico, perché la sfida è più alta e riguarda il rango culturale che l'Italia sarà in
grado di esprimere nell'epoca della globalizzazione.
Lo spirito italiano è il prodotto di secolari trasformazioni e si trova oggi di fronte ad una
transizione decisiva. Nella tradizione nazionale si intrecciano motivi molto diversi, sono presenti in
abbondanza la creatività e l'apertura verso il mondo, ma pesano anche le speculazioni e le visioni
anguste. La rendita e l'ingegno hanno sempre giocato un ruolo importante nella storia italiana. La
prima tira di più quando la nazione è rivolta al passato. Il secondo vince solo quando il Paese si gira
verso il futuro. Questo è il bivio in cui ci troviamo oggi. E siamo chiamati a scegliere, soprattutto
perché dobbiamo fare i conti con la grande novità dei tempi moderni che è la società della
conoscenza. Quel fenomeno straordinario che fa della produzione del sapere la forza fondamentale
nella trasformazione della società impone agli italiani di puntare decisamente sulla componente
creativa dell'identità nazionale. Ma questa non ci è consegnata come un'eredità, va messa alla prova
delle sfide inedite della conoscenza moderna. La creatività è un prodotto storico e come tale implica
una continua rielaborazione di fronte alle nuove frontiere del sapere. Fare dell'ingegno italiano una
forza viva della società della conoscenza è la sfida civile e culturale dei prossimi anni.
Ciò comporta decisioni coerenti per assegnare risorse adeguate allo sviluppo della cultura, della
formazione e della ricerca. Ma non basta, occorre qualcosa di più. E' la società intera che deve
orientarsi verso l'innovazione.
Il freno più forte in questa direzione è la frattura generazionale. I giovani hanno conosciuto
la flessibilità del lavoro fino al precariato estremo, ma non hanno trovato la stessa flessibilità
nell'accesso alle professioni, nella valorizzazione dei meriti, nelle opportunità della ricerca. L'Italia
delle caste, del clientelismo, delle gerontocrazie è oggi il macigno che limita la mobilità sociale e
blocca la strada alla creatività. L'accesso delle nuove generazioni è frenato in tutti i campi della
produzione intellettuale, dal lavoro, alla sperimentazione, all'espressione artistica, all'impresa. Da
qui viene l'infiacchimento dello spirito pubblico, non si inventa, non si mettono in discussione
assetti consolidati, non si rischiano percorsi nuovi. Ne risente anche il tono culturale. Viviamo di
memoria, siamo con lo sguardo rivolto all'indietro. Per uscire dal declino occorre girare il Paese
verso il futuro. Rilanciare la ricerca è il primo passo da compiere.

Lo spazio europeo della ricerca.
Guardiamo in faccia la realtà. Il sistema della ricerca è sottodimensionato rispetto al rango
del Paese. Se ci confrontiamo con l'Europa per il livello di ricchezza siamo il 14% del Pil, ma la
nostra spesa in ricerca è appena il 7.1% di quella europea. La dimensione della ricerca è molto al di
sotto della nostra ricchezza. Questo è lo squilibrio. Non si può essere la sesta potenza mondiale per
livello di ricchezza e collocarsi al 20°-30° posto per quasi tutti i parametri relativi alle strutture del
sapere. Se questa anomalia ha retto in qualche modo nella fase industriale, certamente non può
reggere quando la sfida internazionale si colloca proprio nell'economia della conoscenza. Il
problema del declino italiano è tutto qui.
Non solo siamo il fanalino di coda, ma la cosa più grave è che siamo l'unico paese europeo
ad arretrare, mentre tutti gli altri migliorano, seppure al di sotto delle previsioni. I governi
dell'Ulivo, dopo la stagnazione per l'ingresso nell'euro, riuscirono nelle due ultime finanziarie del
2000 e 2001 a realizzare forti aumenti della spesa in ricerca dell'ordine del 6% annuo, in linea con
la dinamica di crescita di Lisbona. Nel biennio successivo c'è stata però la frenata e l'arretramento
con un più 0.9% nel 2002 (sotto l'inflazione) e un meno 3.5% nel 2003. Il commissario Busquin ha
commentato questi risultati italiani con parole molto franche: "Non c'è peggior sordo di chi non
vuol sentire".
Dobbiamo prendere atto della nostra debolezza. Non ce la possiamo fare da soli a risalire la
china. Veniamo da una grande tradizione scientifica, ma anche da una lunga decadenza. Quello che
rimane di buono della ricerca italiana non è poco, ma non è neppure sufficiente per compiere quel
salto di qualità che si rende necessario nella società della conoscenza. L'unico modo per salvare il
meglio della nostra tradizione e per darle un futuro consiste nel collocare saldamente la scienza
italiana nello spazio europeo della ricerca.
Siamo un Paese con volontà debole. Solo un vincolo esterno, come è stato per la moneta,
può consentirci di risalire la china. Con Antonio Ruberti commissario siamo stati i primi a parlare
di spazio europeo della ricerca e l'Italia deve ritrovare questo ruolo di punta. Da fanalino di coda,
quale siamo oggi, a paese che più di altri spinge per il pieno sviluppo degli obiettivi di Lisbona.
Ecco la svolta che dovrà realizzare il nuovo governo di centrosinistra.
C'è una questione di attualità su cui misurare la svolta. In questi mesi in Europa si discute la
costituzione del Consiglio Europeo delle Ricerche, con l'obiettivo di integrare gli sforzi sulla
scienza di base. Il governo italiano ha sdegnosamente rifiutato di partecipare, chiudendosi in una
penosa autarchia. Quando torneremo al governo non solo porteremo l'Italia ad aderire a tale
struttura, ma spingeremo per il suo potenziamento. E ciò nell'interesse sia dell'Europa sia
dell'Italia.
Infatti, anche nel campo della ricerca si va sviluppando una competizione tra le grandi aree
del mondo. Nell'investimento in R'S i paesi europei, considerati singolarmente, vengono dopo gli
Usa, il Giappone e ormai anche la Cina. Se invece si confrontassero con una politica unitaria
supererebbero gli asiatici e presenterebbero una spesa pubblica pari a quella americana.
Qui è il bivio per l'Europa: se affronta tale sfida con 25 politiche nazionali non può che
svolgere un ruolo marginale; se, invece, concentra le sue risorse in una politica integrata
dell'Unione torna ad essere protagonista mondiale. Nasce una geopolitica della ricerca tra le grandi
aree. Nella sfida che si apre tra l'Asia e gli Usa l'Europa può pesare con la sua tradizione scientifica
e la forza della sua ricerca di base. La differenza fondamentale non è nei volumi di spesa, ma nella
governance del sistema. Nel Pacifico ci sono grandi politiche gestite in modo unitario, mentre
l'Unione europea gestisce solo il 4.4% della spesa continentale, lasciando tutto il resto ai singoli
Stati, con enorme frammentazione di obiettivi e sovrapposizione di strumenti. Questo è lo squilibrio
da superare.
Una nuova politica della ricerca, quindi, implica prima di tutto una grande politica estera. Il
governo di centrosinistra non solo dovrà riportare l'Italia nell'alveo della strategia europea di
Lisbona, ma dovrà proporre anche un ripensamento in positivo di quella strategia, proprio sugli
strumenti più adatti per realizzarla. E' ormai chiaro che non si può affidare solo alle singole
politiche nazionali il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, ma devono rafforzarsi le politiche
integrate europee sulla ricerca.
La scala europea è decisiva, ad esempio, per realizzare i grandi progetti delle infrastrutture:
satelliti, sincrotroni, sistemi ambientali, reti di calcolo, banche dati, reti di laboratori complementari
ecc.. Gli investimenti in questa direzione premiano i settori migliori della ricerca e potenziano la
capacità complessiva del sistema. In Italia in passato sono state realizzate grandi cose, ma in questo
momento non ci sono programmi rilevanti in corso e si è accumulato un grave ritardo che può
essere superato solo nel quadro di grandi programmi europei.
Inoltre, si tratta di superare un vecchio paradosso. I ricercatori lavorano quotidianamente
sulla scala internazionale, ma sono inseriti in organizzazioni, regole e finanziamenti rigidamente
nazionali. Non ha più molto senso quella N, quel riferimento nazionale che compare nell'acronimo
degli Enti di ricerca. Bisogna anzi ritrovare l'ispirazione originaria che portò nel primo dopoguerra
alla costituzione ad esempio del Cnr come sezione dell'organizzazione internazionale della ricerca.
Che ne faremo degli Enti di ricerca? Da dieci anni sono sottoposti a continue
riorganizzazioni amministrative che hanno messo nello scompiglio la vita interna, senza migliorare
l'efficacia scientifica. Di questo riformismo meramente giuridico non abbiamo più bisogno.
La vera riforma per il Cnr consiste nel rafforzamento delle relazioni internazionali con il
Cnrs francese e il Max Planck tedesco e gli altri grandi centri europei. Prendiamo i nostri migliori
laboratori e proponiamo agli altri paesi di realizzare potenti reti europee sulla ricerca di base, che
operino su programmi condivisi, regole comuni e finanziamenti costanti, pianificati in sede
europea, senza l'incertezza dei bilanci nazionali.
Non a caso l'Infn è riconosciuto da tutti come il miglior ente di ricerca italiano. Da sempre
ha operato come parte di una forte rete europea, cresciuta intorno a grandi infrastrutture come il
Cern di Ginevra, di cui l'Italia è stata protagonista. Tutto ciò, oltre al grande prestigio, ha assicurato
a quella comunità scientifica risorse costanti nel tempo e una totale autonomia dal potere politico,
requisiti essenziali per il successo. Questa è la politica che dobbiamo fare per gli enti di ricerca.
Lo sviluppo dello spazio europeo è l'unico modo per continuare a fare ricerca fondamentale
ad alto livello, di cui c'è tanto bisogno. Negli ultimi tempi, nel dibattito italiano, si è affermata
un'incredibile sottovalutazione della ricerca di base. Un malinteso pragmatismo porta a dire
andiamo al sodo, guardiamo alle applicazioni. Si raccontano favole sul modello americano: negli
USA, tra il 1995 e il 2002, il finanziamento della ricerca di base universitaria è raddoppiato, mentre
per la ricerca applicata è rimasto costante. E non potrebbe essere altrimenti. Stiamo attraversando
grandi rivoluzioni tecnologiche. La sequenza classica, dalla scoperta scientifica allo sviluppo
industriale, si è drasticamente accorciata. In biologia o in informatica un risultato di ricerca
fondamentale ha una conseguenza diretta sui processi produttivi. Con queste dinamiche il paese che
non fa ricerca fondamentale decide di scomparire dallo scenario internazionale, declassa il suo
rango di sviluppo e persegue un impoverimento culturale prima che economico.
Lo spazio europeo è decisivo anche per fare nuove politiche industriali. Quel poco che
rimane della nostra industria hi-tech non è in grado di reggere la competizione mondiale. Per
metterla al sicuro e darle un futuro dobbiamo collocarla in solide joint-venture europee.
Abbiamo un modello da seguire. La nostra impresa migliore la STM di Pistorio, terzo
produttore mondiale nella microelettronica, da sola realizza l'8% della spesa R'S privata italiana,
nacque vent'anni fà, quando da una vecchia azienda, la SGS, mediante l'alleanza con la Thomson
francese, si creò un'impresa del tutto nuova. Ecco, i nostri ministri dovranno andare in giro per
l'Europa e nel mondo, come stanno già facendo francesi e tedeschi, per internazionalizzare le nostre
imprese hi-tech, creare nei prossimi anni tante joint-venture come quella vincente di STM. In tale
direzione, bisogna guardare con molta attenzione a tutti i grandi progetti tecnologici europei, da
Airbus a Galileo, fino al recente piano Beffa che propone di costituire un'agenzia sulle politiche
industriali innovative.

La risorsa dei giovani ricercatori
Questa è l'Italia: isolati punti di eccellenza contenuti in un sistema della ricerca
paurosamente sottodimensionato rispetto al rango del Paese. Occorre chiarire un equivoco che si va
creando intorno al ritornello dell'eccellenza. Se s'intende la cosa più semplice e cioè che vanno
sostenuti con forza i migliori, si dice una verità largamente condivisa. Tutti sono d'accordo nel
premiare i punti alti della ricerca e un paese che non lo facesse sarebbe destinato a deperire. Rimane
il fatto che tali eccellenze non possono essere definite per autocertificazione degli interessati e tanto
meno possono essere scelte discrezionalmente dal potere politico, ma debbono essere dimostrate da
un credibile e autonomo sistema di valutazione dei risultati.
Spesso però l'enfasi sull'eccellenza nasconde un ragionamento perverso che non viene
dichiarato esplicitamente. Molti ritengono, infatti, che non possiamo permetterci di spendere di più
sulla ricerca e quindi le risorse attuali vanno semplicemente tolte ad alcuni e date ad altri. Questa è
la vera intenzione dell'attuale governo e, al di là delle tante dichiarazioni retoriche, è la concreta
linea di condotta seguita negli ultimi anni. Viene presentata come una novità, anzi un'autentica
prova di riformismo. In realtà è la conferma dell'esistente, poiché già oggi il nostro è, come si è
detto, un piccolo sistema a macchia di leopardo.
La vera novità sarebbe invece quella di impostare una strategia di lungo periodo per superare
il sottodimensionamento della ricerca italiana, allargando la sua base, irrobustendo le strutture e
innalzando i migliori. E questo è un approccio molto più impegnativo. Se immaginiamo il triangolo
del valore, è abbastanza semplice e poco oneroso alzare il vertice, ma è molto più costoso e difficile
elevare l'intero triangolo e ampliarne la superficie. Ma è proprio di un salto di qualità e di quantità
dell'intero sistema che abbiamo bisogno per superare l'arretratezza italiana.
Tutto ciò richiede un aumento costante dell'investimento in ricerca, con un itinerario
realistico e sicuro che ci porti verso gli obiettivi di Lisbona. Di riforme a costo zero che si limitano
a interventi normativi, che mettono nello sconquasso le strutture pubbliche aumentando la
confusione e l'incertezza, senza modificarne i caratteri strutturali, non abbiamo alcun bisogno.
Aumentare il numero di ricercatori. Ecco l'emergenza nazionale. E' un prius da realizzare
comunque, è un'invariante di qualsiasi politica positiva. La prima decisione che dovrà prendere il
nuovo governo sarà riaprire le porte ad una nuova generazione di studiosi nel settore pubblico e
incentivare l'assunzione di ricercatori nelle imprese.
Veniamo infatti da quasi quattro anni di blocco delle assunzioni che rischia di prosciugare
interi filoni. Gli anziani non trovano più giovani ai quali trasmettere prestigiose tradizioni di ricerca.
L'età media dei ricercatori è arrivata a 50 anni. Ma soprattutto la dialettica generazionale è una
forza decisiva per lo sviluppo della conoscenza e l'apertura di nuove strade di ricerca e di
invenzione. Quando viene a mancare tale energia il sistema perde vitalità, si chiude in se stesso,
perde la capacità di rinnovarsi. Molti dei difetti di conservatorismo e di autoreferenzialità della
ricerca pubblica sono la semplice conseguenza della mancanza di ricambio generazionale.
Per almeno 10 anni dovremo fare politiche di accesso dei migliori giovani cervelli nel
sistema, con i più rigorosi metodi di selezione e con l'unico criterio del merito scientifico. Non solo
per recuperare il ritardo, ma anche perché in prospettiva la risorsa umana diventerà sempre più
scarsa. Di questo si ha poca consapevolezza nel dibattito italiano, anzi, ci si diverte a rendere più
difficile la vita ai giovani ricercatori. Con la proposta di legge Moratti per l'università un giovane
potrà andare in cattedra solo dopo i 40 anni, dopo quasi un ventennio di incertezza e stipendi
sottopagati. Rendere flessibili i rapporti di lavoro viene annunciata come grande riforma
dell'università, ma non si capisce dove sia la novità, sembra piuttosto la santificazione della
situazione esistente. Già oggi, tra assegni, contratti e altri rapporti di lavoro assolutamente aleatori,
ci sono circa 50 mila giovani, un numero pari a quello del corpo docente stabile, che garantiscono la
funzionalità degli enti e delle università, senza alcuna garanzia di vedere riconosciuti i propri meriti.
La flessibilità nell'accesso va bene, ma deve essere accompagnata dalla certezza che se ci sono dei
meriti vengano poi riconosciuti, altrimenti si mortificano i migliori, si rende impossibile l'attività di
ricerca e si indebolisce l'offerta formativa. C'è stata una campagna contro i presunti privilegi dei
ricercatori. Nel paese delle corporazioni, delle rendite si punta il dito su giovani che per 1000 euro
al mese, quando va bene, continuano a fare ricerca solo perché è la passione della loro vita.
La mortificazione dei giovani la pagheremo cara in futuro. La Commissione Europea ha
stimato che se anche ci fossero i soldi per realizzare il 3% di investimento sul Pil, avremmo bisogno
di 700 mila giovani ricercatori in Europa entro il 2010, e le Università europee non sarebbero in
grado di formarne tanti. Siamo già oggi in una carenza tendenziale di ricercatori.
C'è ormai una competizione mondiale per l'attrazione di cervelli. Le vocazioni scientifiche
sono in calo in tutto il mondo. Ci sono professioni molto più redditizie nell'avvocatura e nella
finanza che attraggono i giovani più brillanti. E il fenomeno è ancora più grave in Italia. Siamo
l'unico paese europeo ad aver diminuito il numero dei ricercatori (-12%).
In futuro andremo a cercare con il lanternino i giovani scienziati, saranno la vera risorsa
scarsa dello sviluppo. E' irresponsabile quindi, continuare a penalizzare questa professione. Al
contrario, dovremmo convincere tanti giovani a prendere la strada della ricerca, rendendola
attrattiva, conveniente e prestigiosa. Invece di aumentare le forche caudine, dovremmo ricostituire
un certo privilegio del mestiere, accompagnandolo con regole severe di selezione, basate
esclusivamente sui meriti. Va innalzato lo status dei ricercatori, occorre migliorare le condizioni
materiali ed il ruolo sociale di un mestiere bellissimo, tanto trascurato quanto prezioso per le sorti
del Paese. Sarà necessario un vero e proprio Statuto del ricercatore che valorizzi la figura, definisca
i diritti, privilegi il merito, promuova le opportunità a cominciare dalla mobilità internazionale,
recependo una recente raccomandazione europea che definisce tali obiettivi.
La carenza di giovani è particolarmente grave negli Enti di ricerca, e qui non solo per il
blocco delle assunzioni, ma per un vero e proprio fossato nelle relazioni con l'università che si è
accentuato nel tempo. La separazione tra questi due campi della ricerca pubblica è esiziale e
assolutamente ingiustificata. Infatti, ciascuno manca di qualcosa che si trova nell'altro. Agli Enti
manca l'alimento delle forze giovanili che si trovano nelle università. Al contrario, ai gruppi di
ricerca universitari manca la massa critica per gestire infrastrutture e laboratori collocati negli Enti
di ricerca. E' quindi molto importante che i due campi, pur rimando distinti, intreccino relazioni
sempre più ricche e consentano una mobilità orizzontale di ricercatori. I buoni risultati di istituti
come Infn e Infm (prima dello sciagurato scioglimento) dipendono in gran parte proprio dalla
capacità di integrare la gestione di grandi infrastrutture di ricerca con la flessibilità della rete
universitaria e la ricchezza di studenti e giovani ricercatori. Non solo sarà necessario ricostituire
l'Infm, ma, anche in altri settori, si dovranno promuovere e incentivare consorzi o diverse forme di
collaborazione tra Enti e reti universitarie con l'obiettivo di rendere più forte la ricerca pubblica nel
suo complesso.

Il merito e la libertà nella ricerca
Si dovrà riportare un clima di libertà nella ricerca italiana. Il governo ha commissariato tutti
gli Enti, ha invaso l'autonomia universitaria, ha smantellato tutte le sedi di consultazione della
comunità scientifica, ha eliminato la terzietà degli strumenti di valutazione, riportando ogni cosa
sotto il controllo delle inefficienti burocrazie ministeriali.
Qualsiasi forma di autonomia è vista come il male da combattere dall'attuale governo.
Perfino Istat e Apat, che svolgono delicate funzioni di garanzia nella certificazione dei dati pubblici
e della situazione dell'ambiente, sono sottoposti ad un condizionamento pressante. Per non parlare
dei membri delle authorities, spesso scelti come volpi a guardia del pollaio.
Nel 2002 all'annuncio dei decreti di riorganizzazione degli Enti nacque un movimento di
protesta molto vivace e propositivo, animato da un'interessante esperienza associativa,
l'Osservatorio della Ricerca. Ora quelle intenzioni stanno diventando realtà ed è subentrata una
certa stanchezza per le continue ristrutturazioni. Il controllo dall'alto dei laboratori si fa sempre più
stringente. A chi fa ricerca è vietato porsi domande, deve solo eseguire. Hanno trasformato la
ricerca in una caserma.
La preoccupazione di trovare finanziamenti per la sopravvivenza instaura nuove dipendenze
del ricercatore. Gli Enti di ricerca sono ormai finanziati sotto il livello delle spese fisse, stipendi e
gestione delle strutture. Ciò significa che il contributo esterno è necessario per mantenere in vita i
laboratori. Questa regola si è instaurata in via di fatto ed è ormai ritenuta virtuosa da molti.
Andrebbe invece sottoposta ad un rigoroso esame critico. Essa, infatti, contiene un retropensiero
non dichiarato. Nelle intenzioni del governo tale sistema dovrebbe introdurre una sorta di selezione
naturale che porterebbe all'eliminazione dei settori improduttivi della ricerca. Si possono muovere
molte obiezioni a tale impostazione.
Innanzitutto, è molto discutibile che si tratti di un criterio di buona gestione della cosa
pubblica. Pagare buona parte delle spese fisse e poi far mancare la spesa marginale per l'attività di
ricerca significa sottoutilizzare le strutture pubbliche e quindi ridurne fortemente l'efficacia.
Dovendo comunque assicurare gli stipendi dei ricercatori e il mantenimento delle strutture è
sicuramente uno spreco non utilizzarli a pieno per l'attività di ricerca.
In secondo luogo, tale impostazione affida la definizione degli obiettivi alla domanda di
ricerca, cioè al lato attualmente più debole del nostro sistema. Infatti, i principali canali della
domanda presentano livelli molto scarsi e incerti. L'assegnazione di finanziamenti mediante bandi
pubblici è una voce molto piccola: oltre i bandi europei, sono disponibili somme irrisorie per i vari
concorsi nazionali Firb, Prin. Dai privati viene molto poco: solo circa l'1% della spesa delle
imprese è rivolta come domanda alla ricerca pubblica. Scarsa, inoltre, è la domanda della pubblica
amministrazione. Mancano in Italia quei programmi nazionali che in altri paesi europei sostengono
indirettamente la ricerca, nella sanità, nella gestione del territorio, nelle attività spaziali e nella
modernizzazione della burocrazia.
La domanda non è quindi in grado di regolare il sistema. Anzi, proprio il basso livello della
domanda costituisce la patologia più grave del sistema. Puntare su di essa per definire le priorità
nazionali è come tentare un salto facendo perno sulla gamba infortunata. La teoria del
finanziamento sotto le spese fisse, in queste condizioni, è solo un tentativo di coprire con la retorica
manageriale delle commesse la smobilitazione di interi settori della ricerca pubblica.
Infine, questo modo di regolazione penalizza tutti quei settori che non hanno una domanda,
pur presentando alti livelli di qualità scientifica e culturale, in particolare nell'area umanistica. Ed in
modo particolare si viene così a trascurare sicuramente la ricerca fondamentale che invece è
decisiva per il posizionamento strategico del Paese.
Nel decennio passato si è cercato un nuovo modo di regolazione del sistema, gettando a
mare l'approccio tradizionale, senza però trovare una soluzione veramente convincente. La vecchia
autoreferenzialità della comunità scientifica presentava certamente dei difetti gravi, ma conteneva
anche un prezioso principio di libertà della ricerca. La regolazione esterna ha cercato positivamente
di superare le chiusure del sistema, ma ha finito per affidare molte scelte di merito alle certezze
della burocrazia e recentemente alla frammentazione clientelare.
È aperto il problema di una terza via che superi entrambi questi limiti e non può che essere
una politica della valutazione, innovativa, rigorosa ed estesa su tutto il sistema. I trasferimenti
statali agli enti di ricerca e alle università, dopo aver assicurato una soglia fissa sufficiente per
l'attività ordinaria, devono variare secondo la valutazione dei risultati.
D'altronde i singoli ricercatori sono abituati alla valutazione e anzi il prodotto scientifico è
tale nella misura in cui viene riconosciuto valido dalla comunità scientifica di riferimento. Il nostro
Paese continua ad essere ben piazzato nelle graduatorie internazionali che misurano la produttività
scientifica dei ricercatori. Il numero di pubblicazioni e l'impact factor, quando vengono
normalizzati sull'ampiezza della comunità scientifica, collocano l'Italia ad un sorprendente terzo
posto nei paesi del G7, dopo Gran Bretagna e Canada. Nella stessa graduatoria siamo ultimi per
livello di investimento in ricerca ed in alta formazione. Ciò significa che l'unica cosa che regge il
Paese è proprio la produttività dei suoi scienziati. Nonostante la vulgata, infatti, l'investimento nella
ricerca pubblica è piuttosto efficiente, poiché ottiene risultati scientifici molto alti con il minimo di
finanziamento.
Se per il singolo ricercatore la valutazione è una regola intrinseca al proprio lavoro, le
strutture pubbliche che organizzano la ricerca, invece, non hanno alcun momento di verifica dei
risultati raggiunti. E' questo paradosso che va eliminato. Premiare le migliori strutture esalta la
qualità della ricerca e mette in sofferenza quella componente burocratica e parassitaria che pure è
presente nelle strutture pubbliche ed, anzi, è sempre riuscita a schivare qualsiasi proposito di
riforma.
Dotare il Paese di un moderno ed efficace sistema di valutazione non è una cosa semplice e
richiede un lavoro di lunga lena per approntare le strutture adeguate, affinare le metodologie e
modificare mentalità radicate. Partiamo quasi da zero rispetto agli altri, prima cominciamo meglio
è, ci vorranno anni per cambiare abitudini consolidate. La valutazione non è un giro di valzer,
attuarla veramente richiederà una grande convinzione e l'impegno prioritario per tutta la prossima
legislatura.
Va chiarita subito una discriminante: la valutazione non può essere una funzione del
Ministero, né può limitarsi alle verifiche interne degli enti e delle università. La valutazione è seria
solo se basata sulla terzietà e quindi affidata ad un organo indipendente, di grande autorevolezza
scientifica, che operi sulla base di referee internazionali.
Assumere la valutazione come criterio di regolazione del sistema è l'unico modo per uscire
dagli errori del passato. Così viene superata l'autoreferenzialità, ma allo stesso tempo si salva
l'autonomia scientifica. Così si elimina il comando politico-burocratico, ma allo stesso tempo si
assicura che i finanziamenti per la ricerca vengano indirizzati per il progresso della scienza e gli
interessi generali del Paese.
Proprio perché abbiamo intenzione di aumentare in modo consistente le risorse pubbliche
per la ricerca, non vogliamo sprecarle in una distribuzione a pioggia. Il criterio della valutazione
sarà necessario proprio per regolare una nuova fase di sviluppo e di ampliamento della base del
sistema nazionale della ricerca e dell'alta formazione.
La valutazione della ricerca pubblica è l'unica strada per garantire la libertà della scienza. E'
l'unico modo per conciliare l'autonomia con il principio di responsabilità. Non c'è scienza senza
libertà. Ce lo dice la Costituzione italiana. Ce lo ricorda tradizione scientifica nazionale. E sarà
ancora più vero in futuro. Valorizzare il merito, tramite autonomia e valutazione, sarà uno dei primi
impegni del governo di centrosinistra.

Aiutare le imprese a fare ricerca e innovazione
Siamo l'unico paese europeo ad avere una quota di ricerca privata (0.53%) al di sotto di
quella pubblica e meno della metà della media europea (1.3%) in rapporto al Pil. Il sorpasso
all'indietro è avvenuto negli anni Novanta, quando abbiamo perduto circa un terzo della ricerca
delle imprese. Il crollo ha dei nomi precisi: Fiat, Olivetti, Montedison e l'Iri che abbiamo
privatizzato senza proteggerne i prestigiosi centri di ricerca. Abbiamo perduto i pilastri
internazionali proprio mentre ci aprivamo all'economia globalizzata.
La debolezza della ricerca privata costituisce oggi la più grave delle anomalie italiane.
Risalire la china è comunque un problema duro e molto più difficile di quanto si creda. Diversi studi
hanno dimostrato che, comparando la situazione italiana con gli altri paesi, a parità di dimensioni e
specializzazioni produttive, la propensione degli imprenditori italiani a fare ricerca è nella media
europea. Il basso livello dell'investimento non è altro che un effetto della composizione
dimensionale e merceologica del sistema produttivo italiano. Trattandosi di un problema strutturale
è molto difficile che possa essere risolto esclusivamente con la pur necessaria politica degli
incentivi alle imprese. Occorrono politiche strutturate e mirate che siano capaci di creare quasi dal
nulla interi comparti produttivi nelle alte tecnologie, utilizzando l'incentivo all'interno di un'ampia
gamma di strumenti.
Occorre lavorare contemporaneamente su due fronti: creare nuove imprese tecnologiche e
favorire la diffusione delle tecnologie nelle imprese mature. Spesso vengono contrapposti, c'è chi
insiste su uno o sull'altro, ma sono due obiettivi inseparabili. Il primo riguarda il futuro e la
collocazione nella competizione mondiale, il secondo fa i conti con quello che siamo oggi per
alzarne la qualità. E' impossibile realizzare uno senza l'altro. Non si crea dal nulla una nuova
impresa tecnologica, mentre si lascia deperire quella esistente. Non si riesce a diffondere tecnologia
nella industria matura se non si è in grado di produrla.
La decisione più urgente da prendere è quella di posizionare l'Italia sulle frontiere
tecnologiche. Scienze della vita, scienze della materia e dell'informazione sono teatro di profonde
rivoluzioni tecnologiche. Il ritardo è molto forte e rischiamo di perdere definitivamente il treno. Se
non saremo in grado di presidiarle pagheremo un declassamento del rango di sviluppo.
La prima cosa da fare è un programma di finanziamento straordinario di queste tecnologie
per sostenere la ricerca, creare nuovi laboratori, inventare nuovi prodotti, promuovere la creazione
di nuove imprese e incentivare l'aggregazione di quelle esistenti. Rimane importante, inoltre, il
settore dello spazio che presenta una forte interazione tra ricerca fondamentale e innovazione
tecnologica, con una presenza ancora molto significativa dell'industria italiana.
Per quanto riguarda l'altro lato del problema, la diffusione dell'innovazione nei settori
maturi, ci sono disegni di legge dei nostri gruppi parlamentari che indicano molti strumenti utili,
dagli incentivi fiscali, allo sviluppo dei distretti industriali, alle politiche del credito per
l'innovazione, al sostegno delle piccole imprese. Le priorità dovranno riguardare i settori più
esposti alla competizione internazionale. Ad esempio, l'apertura dei mercati rischia di travolgere in
breve tempo pezzi rilevanti dell'industria tessile nazionale. Questo settore si può salvare solo
esaltando la sua tradizione di alta qualità, innestando la creatività italiana con la ricerca dei nuovi
materiali, come hanno saputo fare le imprese di maggiore successo. E' un caso emblematico del
problema generale che si pone per il nostro Paese: intrecciare l'antico saper fare con la moderna
invenzione tecnologica.
In altri settori si dovrà tornare ad impostare vere e proprio politiche industriali, tornando ad
usare questa espressione che è stata per lungo tempo bandita nel dibattito. Certo bisognerà evitare di
ripetere le ricette degli anni Settanta, ma nuove politiche industriali, rigorosamente impostate
sull'ampliamento della concorrenza, sono necessarie per sostenere la domanda di innovazione,
realizzare infrastrutture tecnologiche, calibrare gli incentivi e promuovere alleanze internazionali.
Programmi nazionali di tale natura saranno indispensabili per attuare su larga scala politiche di
innovazione tecnologica. Questa, infatti non può essere ridotta al bricolage dei casi esemplari, ma
dovrà riguardare i grandi apparati produttivi se si vogliono modificare gli aspetti strutturali del
problema italiano.
Caso tipico è il settore dei trasporti, inserito dalla Commissione tra le priorità della politica
europea per la ricerca. C'è molto da fare non solo nell'innovazione industriale, ma anche nel settore
dei servizi, con particolare riferimento alle tecnologie satellitari collegate all'entrata in servizio
dell'infrastruttura Galileo.
Infine, molta attenzione occorre mettere a due settori di grande impatto sul sistema
produttivo, l'energia e l'ICT. Sul primo il Paese rischia molto e per risollevarsi ha bisogno di tanta
ricerca sulle fonti rinnovabili, sull'idrogeno e certo anche sul nucleare di ultima generazione,
partecipando ai relativi progetti europei. Su queste e su altre politiche nazionali di sviluppo
sostenibile disponiamo di un prezioso patrimonio di esperienze come l'Enea, lasciato per troppo
tempo nell'abbandono, che dovrà essere rilanciato come grande soggetto della politica di ricerca e
innovazione.
Una questione difficile si pone nell'ICT. La domanda di innovazione digitale delle imprese è
molto bassa, meno della Pubblica Amministrazione e delle famiglie. Alcune ricerche sostengono
che il calo di produttività dell'economia italiana sia da addebitare in buona parte proprio alla scarsa
digitalizzazione dei processi produttivi. Mentre la dotazione di computer è indipendente dalla
dimensione aziendale, l'uso di internet nei processi produttivi è fortemente frenato nelle imprese di
piccole dimensioni. Probabilmente si è conclusa la fase banale di informatizzazione con
l'introduzione di computer in azienda, ma ora che occorre ripensare i prodotti e i modelli produttivi
a partire dalle nuove opportunità tecnologiche si fa sentire la debolezza della scala imprenditoriale e
la scarsa dotazione di capitale umano. E ciò ha un impatto macroeconomico significativo, poiché si
tratta di una tecnologia che incide diffusamente sui processi organizzativi, sulla qualità e la
diversificazione dei prodotti.
In queste condizioni non basta l'incentivo a comprare un computer, occorrono politiche sulla
formazione, agenzie per i distretti, supporti diffusi all'innovazione. Politiche difficili, impegnative e
inedite. Si cominci subito, prima che sia troppo tardi.

Le Regioni del sapere
Il trasferimento tecnologico richiede l'incentivazione di tutti i processi di scambio tra la
formazione del sapere e la sua applicazione produttiva. Innanzitutto, c'è da fare la cosa più
semplice, invocata da più parti e recentemente dall'accordo sulla competitività tra sindacati e
Confindustria: la detassazione dei programmi di ricerca portati avanti insieme da enti, università e
imprese.
Il trasferimento deve essere finalizzato, da un lato, alla creazione di nuove imprese, che
utilizzano i risultati della ricerca per inventare un nuovo prodotto, secondo meccanismi di
incentivazione previsti da un'apposita proposta di legge dei DS che mutua l'esperienza americana
dello Small Business Innovation Research (SBIR). Dall'altro lato, le stesse università possono
diventare incubatori di nuova imprese tecnologiche. E' un meccanismo che ha visto alcuni casi di
grande successo a livello internazionale e qualche esperienza pilota in Italia.
Strettamente collegati a tali iniziative sono le innovazioni del venture capital per la ricerca,
praticamente assenti nel nostro Paese e invece in grande sviluppo a livello internazionale. Sono
processi che implicano profondi mutamenti di mentalità e proprio per questo richiedono di essere
incentivati in modo continuo e robusto, anche rimuovendo ostacoli normativi ingiustificati.
Bisogna avere consapevolezza che il trasferimento tecnologico è un processo complesso. Non
avviene per caso, non può essere affidato allo scambio spontaneo tra scienziato e imprenditore. Non
succede quasi mai che un risultato scientifico si tramuti direttamente in applicazione produttiva. Il
passaggio da ricerca a innovazione è frutto di relazioni dense tra saperi e produzioni, richiede
strutture e politiche adeguate per determinare le condizioni di innesco dei processi.
Nell'economia moderna molte di queste relazioni tendono a convergere nell'agglomerazione
territoriale. Per questo le nuove politiche regionali possono dare un grande impulso all'incontro tra
la ricerca scientifica e le concrete dinamiche di sviluppo locale. L'esperienza consolidata
dell'Emilia e le innovazioni introdotte in Campania indicano strade percorribili. Non esistono però
modelli generalizzabili e anzi il fattore decisivo di tali politiche consiste proprio nel cogliere le
vocazioni diverse dei territori. Non solo, le soluzioni devono essere evolutive per accompagnare le
dinamiche di sviluppo. Questo è ad esempio il carattere peculiare dell'approccio campano, con una
prima fase di animazione della domanda di ricerca delle imprese, seguita poi dalla strutturazione di
scambi tra ricerca e produzioni tramite i Centri di competenza e infine verso una focalizzazione di
vere e proprie politiche industriali e attrazione di investimenti.
In queste relazioni gli enti di ricerca e le università non solo costituiscono il presupposto del
trasferimento tecnologico, ma vengono a svolgere un ruolo strategico, in quanto mettono in
relazione i territori con i processi di innovazione a livello internazionale, tramite i collegamenti
delle comunità scientifiche. Le istituzioni della ricerca pubblica vengono quindi a trovarsi in quel
crinale globale-locale, tipico paradigma dell'epoca della conoscenza, e non possono più rimanere
confinate esclusivamente nello schema classico dello stato-nazione, da cui pure hanno ricevuto
l'impulso decisivo. Le università costituiranno le chiavi del mondo per l'Italia delle cento città.
Le politiche regionali in tale approccio non potranno più avere un ruolo ancillare e
assumeranno invece una portata nuova, tutta da esplorare. Si pone anzi l'esigenza di una più chiara
ripartizione di compiti tra lo Stato e le Regioni: tra il sapere e l'innovazione, tra politiche
internazionali e radicamento locale, tra regole del sistema e applicazioni concrete, tra strategia e
tattica della grande politica della conoscenza. Questo ci deve spingere a dare un significato
pregnante alla norma federalista del Titolo V. Essa fu approvata nel 2001 "a freddo", senza
un'adeguata elaborazione concettuale e quasi come mera estensione per materia del generale
principio di federalismo. Seppure a posteriori occorre dare a quella competenza regionale una
ragione intrinseca e un rango ordinamentale, come si conviene ad una norma costituzionale.
A ben vedere questo non è solo un problema giuridico, ma sostanziale. Rimane aperto infatti
in Italia il problema di trovare il modello di innovazione e le relative istituzioni. In passato ne
abbiamo avuto uno prestigioso e peculiare, quello delle Partecipazione Statali, che assicurò ad alto
livello il trasferimento tecnologico tra la scienza italiana e l'industria, almeno fino agli anni
Sessanta. Oggi non è riproponibile, né sono disponibili per noi i modelli di altri paesi, non avremo
mai il colbertismo francese, il modello renano o le corporation americane. Forse possiamo tentare di
costruire proprio sui territori il modello dell'innovazione per la società della conoscenza. Come
abbiamo inventato in passato l'unicum dell'Iri, per il futuro potremmo essere capaci di impostare un
modello avanzato e originale di politiche locali dell'innovazione. Se il meglio della tradizione
risiede nell'Italia delle regioni e delle città, proprio da qui può nascere ancora una volta
l'invenzione.

SCHEDA n. 8

LA CITTADINANZA STUDENTESCA
E IL DIRITTO ALLO STUDIO

Negli ultimi dieci anni l'Università italiana ha vissuto notevoli cambiamenti. In questo
periodo la riforma degli ordinamenti didattici ha modificato radicalmente i percorsi di studio,
facendo emergere nuovi bisogni e nuove tipologie di studenti. E' evidente che in seguito a
cambiamenti di tale portata sarebbe stato opportuno intraprendere una seria riflessione sulle
conseguenti, nuove necessità di accesso e sostegno agli studi.
È l'idea stessa del diritto allo studio che deve essere ripensata alla luce del nuovo ruolo che
l'istruzione universitaria assume nella "società della conoscenza", in una direzione che favorisca
l'incremento di coloro che accedono alla formazione universitaria. Parlare di welfare studentesco
significa riconoscere il valore sociale del sapere che permette al sistema Paese di fare un
investimento sulla crescita collettiva e, dunque, sul proprio futuro.
In questa prospettiva, divengono essenziali al progresso del Paese gli interventi volti a
consentire a tutti gli studenti di frequentare l'Università e di terminare con successo il percorso di
studi. L'organizzazione degli studi universitari e la costruzione del welfare studentesco devono
quindi essere funzionali al pieno successo del percorso formativo.
Tali considerazioni portano ad un'attenta riflessione sulle condizioni di vita e di studio e,
soprattutto, sulle fonti di sostegno economico cui ricorrono oggi gli studenti, da un lato come
sostegno essenziale per affrontare i costi del percorso di studi e dall'altro come fonte di sostegno
per la ricerca della propria autonomia sociale. La sistematica negazione del diritto allo studio e la
mancanza di servizi alla generalità degli studenti costringe una parte sempre crescente di
studentesse e di studenti ad accettare il ricatto di un lavoro nero e precario. Tale pratica è in
aumento non solo per gli studenti che lavorano perché non possono mantenersi gli studi, ma anche
per quegli studenti che ritengono fondamentale avere una fonte di reddito per poter affermare la
loro autonomia.
I nuovi bisogni sono legati al riconoscimento della figura di studente come soggetto sociale
portatore di diritti, a prescindere dalle condizioni economiche sociali e culturali della famiglia di
provenienza. Solo attraverso l'investimento in un welfare studentesco che non sia solo assistenziale
possiamo garantire un adeguato percorso di studi volto al successo formativo della generalità degli
studenti. Non possiamo più pensare ad un sistema integrato di servizi concepito esclusivamente per
l'accesso al sistema formativo, ma si devono realizzare le condizioni per il successo formativo.
Un'attenta analisi del sistema di diritto allo studio in Italia non può, quindi, che evidenziare
l'inadeguatezza della borsa di studio come strumento di accesso al sapere basato sull'assistenza ai
privi di mezzi. Tale inadeguatezza è confermata sia dal basso numero degli studenti che hanno
beneficiato di borsa di studio nell'a.a. 2002/03 (pari circa al 14% degli studenti iscritti regolari),
sia dal crollo degli studenti beneficiari di borsa di studio nel corrente anno accademico.
Le difficoltà del percorso formativo non colpiscono solo le fasce più deboli della società ma
spesso divengono un incentivo a scegliere, anche nelle aree del Paese economicamente più avanzate
ed indipendentemente dalle condizioni economiche, la via lavorativa rispetto all'investimento nella
propria formazione.
Il welfare studentesco è una scelta di lungo periodo che vede come tappe obbligate
l'erogazione di borse di studio a tutti gli idonei e la creazione di una rete integrata di servizi alla
generalità degli studenti che comprenda: ristorazione, alloggi, sostegno alla mobilità nazionale ed
internazionale e spazi di accesso alla cultura. In quest'ottica anche le attività degli Atenei rivolte
agli studenti: il tutorato, le biblioteche, l'orientamento (in entrata ed in uscita), le postazioni
multimediali, le aule studio sono parte essenziale del welfare studentesco.
Solo attraverso un forte investimento pubblico possiamo ambire a rispondere ai nuovi
bisogni che stanno emergendo ed è per questo che solo lo Stato e gli Enti Locali possono costruire
le condizioni per il superamento dei gap sociali attraverso la costruzione di una rete che sostenga
l'accesso ai servizi collettivi a tutti gli studenti universitari, cosa che peraltro ne favorisce la
sostenibilità economica.
Il Titolo V della Costituzione, che assegna competenza esclusiva alle regioni in materia di
diritto allo studio, deve essere applicato attraverso le normative regionali, da approvare nel quadro
di una legge nazionale che determini in modo chiaro i livelli essenziali delle prestazioni a garanzia
dell'uniformità di trattamento per tutti gli studenti, indipendentemente dall'area geografica di
provenienza e dall'università in cui si iscrivono. Tali livelli devono avere una copertura finanziaria
nazionale, essendo riconosciuto il valore nazionale dell'investimento nella formazione universitaria.
Risorse regionali, che ogni anno sono crescenti, debbono continuare ad essere investite, non solo
utilizzando la tassa regionale, il cui valore deve essere maggiormente omogeneizzato nel territorio
nazionale.
Fondamentale è il ruolo dei Comuni e delle Province, accanto alle Regioni, e delle
Università, nella costruzione del welfare studentesco. Attraverso una programmazione pluriennale
gli Enti Locali, di concerto con Università ed Aziende per il DSU, possono "fare sistema" e riuscire
ad allocare al meglio le risorse disponibili. Si tratta di offrire un mix sempre più efficace di
interventi monetari (borse di studio) e di servizi, d'intesa con gli Atenei e gestiti da soggetti
pubblici regionali dedicati, confermando l'obiettivo della assegnazione dei benefici così ridefiniti a
tutti gli studenti risultati idonei.
In particolar modo il problema della casa diviene sempre più una questione centrale per
l'accesso al sapere. I costi elevati degli affitti non consentono agli studenti di scegliere in piena
autonomia l'Ateneo in cui affrontare il proprio percorso di formazione. Una questione che non
riguarda solo gli studenti. La sostanziale assenza di alloggi pubblici colpisce sicuramente molte
categorie sociali: giovani coppie, migranti, giovani lavoratori e studenti.
Gli studenti vengono, ancora oggi, considerati una categoria di privilegiati e pertanto non vi
è una considerazione tale da evidenziare la situazione degli alloggi come una vera e propria
emergenza nazionale. La condizione degli alloggi, infatti, è drammatica.
È necessario che gli Enti Locali attivino tavoli territoriali di coordinamento, volti ad una
seria attività di monitoraggio delle condizioni in cui vertono le case in affitto, e si impegnino in un
reale intervento per il miglioramento delle stesse. Devono inoltre strutturare dei veri e propri
"sportelli casa" che abbiano il compito di verificare periodicamente le condizioni degli immobili e
dei contratti stipulati anche dalle associazioni dei proprietari.
Deve maturare sempre più nei sistemi locali la consapevolezza che gli studenti
rappresentano una risorsa importante, di carattere economico, sociale e culturale per la vita delle
città universitarie. Pertanto è nella programmazione complessiva delle opportunità abitative, delle
attività culturali e del tempo libero, della mobilità urbana, oltre che più nello specifico delle attività
formative, che deve essere considerata centrale la presenza degli studenti. Nella programmazione
universitaria inoltre l'offerta di servizi agli studenti deve essere considerata elemento strutturale ed
integrante dei piani di offerta formativa; in sintesi elemento essenziale per la qualità dell'offerta
universitaria.
Dobbiamo anche riflettere sul ruolo del diritto allo studio per il secondo livello di
formazione superiore: i master ed il dottorato. L'analisi non può che essere connessa alle
mutazioni del sistema economico e lavorativo. Un sistema paese che richiede alle giovani
generazioni un più alto livello di formazione deve interrogarsi su come garantire, ai bisognosi e
meritevoli, la possibilità di accedervi. Pensare al prestito d'onore per gli alti livelli di formazione
diviene una strada percorribile, in un quadro di scarsi investimenti pubblici, nel breve periodo. Un
sistema di prestiti non deve essere sostitutivo delle attuali borse, che devono rimanere il cardine
economico per gli studenti, ma possono essere uno strumento integrativo, se erogato con precise
condizioni e garanzie in modo da non creare una generazione di debitori come è accaduto in altri
paesi europei.
Inoltre, sempre maggiore importanza assume la mobilità studentesca nazionale ed
internazionale, adeguando decisamente la capacità di accoglienza dei servizi residenziali e
favorendo l'azione congiunta di soggetti pubblici e privati. La mobilità srudentesca deve essere
sostenuta a favore dei nistri studenti verso i paesi europei e verso l'accoglienza di studenti stranieri
che intendono iscriversi ad una università italiana. Il sostegno alla mobilità rappresenta
un'importantissima opportunità per le persone ed insieme favorisce conoscenze e relazioni che
possono creare prospettive future anche in campo economico e produttivo.
Le politiche attive di citatdinanza studentesca costituiscono elemento essenziale del
welfare studentesco. Dovremo quindi prevedere per tutti gli studenti universitari la "carta di
cittadinanza studentesca". Una carta che preveda una serie di agevolazioni per fare un primo passo
verso il riconoscimento della condizione sociale degli studenti.
Per quanto riguarda il diritto allo studio nella scuola superiore, si propone parimenti un
mix di interventi economici (borse di studio) e di servizi, sostenendo in particolare i progetti di
integrazione dei ragazzi stranieri e disabili, la lotta all'abbandono e alla dispersione scolastica, e
progetti di prevenzione al disagio giovanile.
Sulla partecipazione degli studenti alla vita scolastica si fa riferimento a quanto previsto
nella scheda relativa agli organi collegiali interni (scheda n° 3) e alla normativa nazionale, tuttora in
vigore, relativa allo statuto delle studentesse e degli studenti, alle consulte e al forum, definita dalla
riforma Berlinguer1.
1 A) La disciplina delle iniziative complementari e delle attività integrative (d.P.R. 10 ottobre 1996, n.567, modificato e integrato dal
d.P.R. 9 aprile 1999, n.156 e dal d.P.R. del 10 aprile 2001, n.105): con questo regolamento si è data agli studenti la possibilità di avere la
scuola aperta il pomeriggio con degli spazi autogestiti e di avere a disposizione dei fondi spendibili solo dagli gli studenti e per gli studenti.
Grazie a questo atto si sono costituite le consulte provinciali, composte da due studenti, eletti da tutti i loro compagni della scuola, per ogni
scuola secondaria superiore.
Le consulte appartenenti ad una stessa regione danno vita ad un coordinamento regionale.
Ogni consulta elegge al suo interno un presidente e i 103 presidenti si riuniscono periodicamente nella Conferenza Nazionale dei Presidenti
della Consulte Provinciali.
B) Lo Statuto delle studentesse e degli studenti (d.P.R. 24 giugno 1998, n.249): conferisce agli studenti la titolarità di una serie di diritti e
doveri, ridefinendo lo status giuridico dei discenti;
C)Forum delle associazioni studentesche e delle associazioni dei genitori ( accordo associazioni studentesche e Ministro siglato il 30
settembre 1999, recepito nell'art.5 bis del d.p.r. 105/2001 e nel successivo decreto ministeriale n.82 del 4/05/2001, recentemente modificato
dal Ministro Moratti):
è stato istituito un forum nazionale delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative sia per la componente degli studenti che per
quella dei genitori. Sono stati inoltre istituiti analoghi forum a livello regionale.
D) Istituzione della direzione generale per le politiche giovanili (articolo 4 comma 2 del D.P.R. 6 novembre 2000, n.347):
si riporta il testo della norma.
"La Direzione generale per lo status della studente, per le politiche giovanili e per le attività motorie svolge, in particolare, i compiti relativi:
alla materia dello status dello studente; agli indirizzi e alle strategie nazionali in materia di rapporti della scuola con lo sport; alle strategie
sulle attività e sull'associazionismo degli studenti e sulle politiche sociali in favore dei giovani; al supporto dell'attività della conferenza
nazionale dei presidenti delle consulte provinciali degli studenti; ai rapporti con le associazioni dei genitori e al supporto della loro attività".

(La scheda n. 9 in corso di redazione riguarderà la proposta per un progetto di formazione lungo il corso della vita)


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