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Università senza didattica? Il Ministro si rallegra

cresce continuamente – e non poteva essere altrimenti – il numero di coloro che non vogliono più fare lezione e mettersi a disposizione degli studenti, perché nessuno considererà la qualità del loro lavoro e del loro impegno

27/07/2014
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ROARS

Stefano Semplici

La riforma  dell’Abilitazione Scientifica Nazionale prefigura un’università senza didattica? Il Ministro Giannini si rallegra per la maggiore responsabilizzazione degli atenei: «la qualità delle loro assunzioni – si legge nel comunicato MIUR – peserà sulla quota premiale del Fondo di finanziamento che ricevono ogni anno». E come sarà misurata questa qualità? Prioritariamente in base alla  «qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei». Chi pensava che i professori venissero selezionati e assunti per insegnare, dunque, era completamente fuori strada. Non solo la qualità del loro lavoro con gli studenti è del tutto irrilevante prima. Resta tale anche dopo. Un ulteriore schiaffo in faccia a coloro che si ostinano a credere che la trasmissione del sapere sia per la mission delle università importante quanto la sua produzione.

Il Ministro Stefania Giannini, in un comunicato che si può leggere sul sito del Miur, esprime tutto il suo compiacimento per il lavoro congiunto fra il Governo e il Parlamento che ha portato all’approvazione in Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei deputati dell’emendamento con il quale si riforma l’Abilitazione Scientifica Nazionale dei docenti universitari. Ci sono molte ragioni per condividere questa soddisfazione. La proposta che porta come prima firma quella dell’onorevole Manuela Ghizzoni interviene su molti punti critici della normativa che ha prodotto molta confusione e molti ricorsi e lo fa con una misura di saggezza inusuale nel nostro legislatore. Non condivido tutte le scelte che sono state fatte, ma si tratta comunque di un deciso passo avanti.

Rimane purtroppo un problema di fondo, che in tanti modi e sempre invano è stato portato all’attenzione del decisore politico. A partire dalla Legge Gelmini, in un crescendo di decreti, circolari e provvedimenti di allocazione delle risorse a livello nazionale e locale, si è consolidato un modello nel quale tutti gli incentivi alle strutture (o sarebbe meglio dire le possibilità di ottenere semplicemente un trattamento meno punitivo rispetto al taglio comunque certo dei finanziamenti) sono stati concentrati sui “prodotti” della ricerca. E allo stesso criterio ci si è ispirati per definire le valutazioni dalle quali far dipendere la carriera accademica dei singoli. La didattica è diventata, nella migliore delle ipotesi, oggetto di un lip service di circostanza. Alcuni fra gli opinionisti più influenti, frequentatori abituali dei salotti televisivi più ambiti e delle colonne dei giornali più letti (evidentemente – va da sé – per la migliore qualità delle loro idee e dei loro argomenti), teorizzano apertamente la necessità di non far perdere tempo alle intelligenze più brillanti che ancora sopravvivono nei nostri atenei costringendole alla fatica di ore di lezione o, peggio ancora, esami, ricevimento, assistenza a tesi, con il corollario di tutte le incombenze che possono (devono) essere lasciate senz’altro ai meno capaci. La formula raffinata di questa convinzione è l’auspicata differenziazione fra research e teaching universities, che ha certamente i suoi pregi (oltre ad alcuni difetti), ma viene spesso confusa con l’idea che nelle prime i professori non insegnino e dunque – semplicemente – cessino di essere tali.

I risultati di questa lungimirante politica sono sotto gli occhi di tutti: fra quanti devono ancora “fare carriera” cresce continuamente – e non poteva essere altrimenti – il numero di coloro che non vogliono più fare lezione e mettersi a disposizione degli studenti, perché nessuno considererà la qualità del loro lavoro e del loro impegno. Si tratta a tutti gli effetti di tempo perso, con l’aggravante della beffa incombente di trovarsi scavalcati, nel momento in cui miracolosamente dovesse concretizzarsi la possibilità di un posto, da qualcuno che, “lavorando” magari per la stessa università, raramente si è visto in un’aula e nei corridoi del dipartimento… La situazione, ovviamente, non migliora per chi la carriera l’ha già fatta e sa che per aiutare la comunità della quale fa parte deve pensare esclusivamente a scrivere articoli e inseguire l’impact factor. Anche nel suo caso, quella di dedicarsi agli studenti appare una scelta del tutto irrazionale. E si potrebbe aggiungere che in questo sistema perfino il doveroso impegno a stanare e punire gli assenteisti rischia di diventare una forma di autolesionismo per i responsabili degli atenei: se contribuiscono adeguatamente alla VQR, è meglio continuare a far finta di nulla, per evitare che il Ministero li punisca. Gli atenei e i loro Rettori, ovviamente, non gli assenteisti…

Il Governo e il Parlamento hanno fatto un passo ulteriore in questa direzione. Il Ministro Giannini si rallegra anche per la maggiore responsabilizzazione degli atenei che sarà resa possibile grazie all’emendamento Ghizzoni: «la qualità delle loro assunzioni – si legge nel comunicato – peserà sulla quota premiale del Fondo di finanziamento che ricevono ogni anno». E come sarà misurata questa qualità? Ce lo spiega il nuovo comma 3-quinquies dell’articolo che è stato modificato: «la qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito della valutazione delle politiche di reclutamento». Chi pensava che i professori venissero selezionati e assunti per insegnare, dunque, era completamente fuori strada. Non solo la qualità del loro lavoro con gli studenti è del tutto irrilevante prima. Resta tale anche dopo, per quanto si debba riconoscere all’onorevole Ghizzoni e ai suoi colleghi di avere almeno lasciato aperto un varco di ambiguità nella normativa. Il fatto che la produzione scientifica debba essere considerata prioritaria sembra consentire, naturalmente in via subordinata, la valutazione di altri elementi. Sarebbe però interessante capire se ciò va inteso semplicemente nel senso dell’articolo 9 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 49, opportunamente richiamato nell’emendamento insieme alla Legge 240. In quell’articolo la didattica non è neppure citata.

L’emendamento Ghizzoni è un ulteriore schiaffo in faccia a coloro che si ostinano a credere che la trasmissione del sapere sia per la mission delle università importante quanto la sua produzione. Ed è tanto più grave perché il comma 3-quinquies non era in nessun modo necessario nel contesto dell’intervento proposto. Si tratta dell’ennesima stroncatura del tentativo di difendere l’idea che un’università senza didattica o nella quale la didattica è considerata un’attività fastidiosa dalla quale “proteggere” i più meritevoli non serve al paese. Qualche settimana fa, la Commissione Cultura della Camera ha ascoltato il Presidente e il Direttore dell’ANVUR, che hanno spiegato come sia da attribuire all’Europa la responsabilità del delirio normativo che rende tanto faticosa l’organizzazione della didattica nelle nostre università. Non è vero. È vero invece che l’Europa ci chiede di mettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento in cima all’agenda del cambiamento. Così si esprime, senza possibilità di equivoci, il Rapporto presentato alla Commissione nel giugno del 2013 da un gruppo di esperti, promosso dalla Commissaria per l’educazione e la cultura Androulla Vassiliou: questa qualità è «assolutamente cruciale» per ottenere i laureati «capaci di pensiero critico, creativi e flessibili che daranno forma al nostro futuro». Il nostro Governo e il nostro Parlamento, evidentemente, non la pensano così.


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