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Unità-Soldati e popolo-di Furio Colombo

Soldati e popolo di Furio Colombo Titolo triste del Riformista (17 aprile): "Stiamo guarendo dal pacifismo". Certifica che il non volere la guerra è una malattia e che il riformismo è il su...

20/04/2003
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l'Unità

Soldati e popolo
di Furio Colombo

Titolo triste del Riformista (17 aprile): "Stiamo guarendo dal pacifismo".

Certifica che il non volere la guerra è una malattia e che il riformismo è il suo contrario. Poche persone liquidano immense masse popolari del mondo democratico e non riescono a trattenere il loro desiderio di farsi trovare al posto giusto. Come si definisce il posto giusto? A quanto pare, per la definizione di "riformismo" che si ricava dal giornale bandiera di esso, il posto giusto è da qualche parte nei pressi di chi governa. Ogni scostamento porta sospetti che vanno dal "massimalismo" (parola maledetta a cui si affida la descrizione di ogni tipo di malvagità) al tradimento della patria e dei propri soldati. Difficile dire che cosa sia il massimalismo, quando si parla di pace. È possibile volere troppa pace?

C'è la questione della pace "senza se e senza ma". E la pregiudiziale espressa da alcuni, prima della guerra, sull'opportunità di rifiutare persino una "legalizzazione" da parte delle Nazioni Unite. Il fatto è che, per natura, per storia e per forza, le prese di posizione sulla pace sono tormentate e diverse. Esprimono una tensione morale che non conosce cinismo. Il cinismo si accomoda meglio dalla parte armata.

Noi, su questo giornale, avevamo detto che la pace ci sembra piena di se e di ma (nel senso che fai di tutto, pur di evitare che il bambino Alì Ismail Abbas perda le braccia e tutta la sua famiglia e tutta la sua speranza di felicità). E che le Nazioni Unite erano e dovevano restare un punto affidabile di aggancio perché una guerra così non l'avrebbero avvallata mai.

E abbiamo sempre mantenuto il dibattito su questarra, non sulla vasta questione di tutte le guerre.

È un dibattito che resta aperto e tocca le corde più sensibili e dolorose nel cuore di tanti, coloro che sono contro la guerra per fede e coloro che lo sono per passione umana e politica. Ma che ci fosse un dannoso e pericoloso massimalismo sulla pace, contrapposto a una posizione moderata del riformismo sulla guerra> ci era sfuggito.

È un nuovo modo di spezzare lo schieramento della sinistra. In questa nuova frattura un pezzo se ne va perché, da riformista, trova massimalista opporsi troppo a una guerra. Certo, opporsi è sconveniente. Ti tira addosso un sacco di malevolenza, ti mette in cattiva luce, ti espone all'accusa di essere antiamericano, accusa che ti colpisce specialmente se hai speso una vita (in opposizione perfetta con chi ti accusa) a rappresentare volto e ragioni della cultura americana.

Diciamo che contrapporre riformismo a pacifismo mostra un grado profondo di cecità rispetto a ciò che sta accadendo oggi nel mondo tragico in cui viviamo. Il teologo Enzo Bianchi, offre questa descrizione (La Stampa, 17 aprile): "Sì, l'apocalisse è anche questo alzarsi del velo sulle intenzioni e sugli interessi di chi sta facendo una guerra mascherandola con l'assurda spaccatura tra antiamericani e filoamericani. Diciamo che quando una potenza diventa superpotenza unica al mondo, le derive totalitarie sono inevitabili. La condanna della Bibbia su Babele fu una condanna verso una potenza unica, con una sola lingua, un solo nome, una sola legge: la forza".
Ecco ciò che sta accadendo. Da un lato eserciti professionali di straordinaria efficacia. Dall'altro tutti coloro che non fanno la guerra.

È una divisione estranea al mondo moderno. È una divisione antica, separazione completa fra eserciti e popolo.

Coloro che vogliono fare la guerra - e lo dicono e lo teorizzano e non truccano le carte e affermano apertamente le loro intenzioni e chiedono lealtà e seguaci - hanno a disposizione un'armata professionale. È vero che è fatta di giovani donne e di giovani uomini che si sono arruolati pensando di sopportare alcuni anni di durezze e di disciplina in cambio del college e di un lavoro migliore. È anche vero che quell'armata è un contenitore stagno. Lo chiude, da un lato, la lontananza anche fisica fra la militarizzazione professionale e gli altri cittadini, dall'altro il patto di ubbidienza assoluta che vincola i soldati professionali. Questo contenitore stagno si muove senza discussioni, senza intermediari, isolato anche dalla sua immensa potenza. Da quel poco che i non addetti al tremendo lavoro vedono della guerra in Iraq, il motto "stupore e terrore" funziona prima di tutto per gli stessi soldati della potentissima armata. Essi appaiono continuamente storditi dall'enormità delle conseguenze che ogni loro gesto provoca.

Essi sembrano destinati a restare in una esistenza lontana e separata che non è né qui né là. È "dentro" la missione guerra, impresa di dimensioni gigantesche persino quando riguarda un solo Paese, un'area limitata, una resistenza modesta e un tempo che, almeno per ora, sembra breve. Infatti tale missione è avvolta in un involucro nuovo, mai esistito. Che fa paura, prima di tutto, ai combattenti di professione: la guerra infinita, una guerra che nessuno ha mai votato.

La distanza dal resto del mondo, americano e non americano, è immensa. Infatti niente di simile si era mai verificato nella seconda guerra mondiale, a cui avevano partecipato ricchi e poveri, scrittori e contadini, il meglio della cultura creativa e scientifica insieme con tutti i livelli e tutte le possibili aggregazioni di cittadini. Nei suoi diari del 1944 Benedetto Croce racconta che doveva benevolmente ascoltare le conversazioni colte dei giovani ufficiali inglesi e americani che andavano a trovare il grande filosofo italiano. Doveva pazientare e ascoltare le loro riflessioni filosofiche prima di poter discutere del governo provvisorio e della formazione dei nuovi partiti politici italiani. Come hanno dimostrato i tragici eventi della biblioteca incendiata, del Museo saccheggiato a Baghdad (mentre continuava la distruzione degli ospedali) la situazione adesso, nel mondo delle armate professionali, è completamente diversa.

Ma lo è anche nelle piazze dei grandi Paesi industriali e democratici che sono la casa comune della democrazia.Un immenso popolo giovane e totalmente estraneo alla guerra, come nozione e come professione, e alla politica che la rappresenta o la giustifica, si presenta per marcare tutta la sua estraneità. Sentite come lo descrive il sociologo Ilvo Diamanti (La Repubblica, 13 aprile): "L'impressione è che la minaccia e poi l'avvio della guerra in Iraq abbia trasferito il 'nucleo normativo' (senso di responsabilità verso gli altri, altruismo, tolleranza) dal piano invisibile della pratica quotidiana all'esperienza visibile della mobilitazione collettiva. Perché la guerra è, prima e al di là di ogni 'ragione', un evento che sconvolge e coinvolge. Così la mobilitazione per la pace ha costituito, per questi giovanissimi, una sorta di rito di iniziazione alla politica. A una politica che, per la prima volta, parla un linguaggio a loro familiare, evoca temi nei quali si riconoscono. A una politica che diventa terapia contro il cinismo e la diffidenza, occasione per crescere, per scoprire il valore dello stare con gli altri, per rischiare anche in nome di fini irrealizzabili. Questi giovani e giovanissimi hanno scoperto la politica. Resta da vedere se e in che modo la politica si accorgerà di loro".

Se ne accorge Enrico Boselli, il riformista ammirato da Il Riformista che dice: "Siamo rimasti troppo a lungo in balia di posizioni che hanno una loro dignità ma che con la politica fanno fatica ad avere relazione". Ed ecco il punto sconsolato di questa riflessione. Possibile che "riformista" sia star lontano da questi nuovi militanti volontari, ostinarsi a diffondere messaggi di politica lontana, intrecciare dialoghi di cui non si capisce il testo o la ragione, agire con cautela circospetta, badando magari a suggerimenti autorevoli, in nome di strategie sconosciute, trasmettendo il più delle volte a circuito chiuso fra un leader e l'altro, e lasciando senza una voce autorevole le nuove masse che stanno confluendo da sole verso la partecipazione politica?

Possibile che sia meglio parlare in piccoli spazi interni per piccoli gruppi in linguaggi cifrati, invece di uscire allo scoperto e prendersi il rischio di incontrare i nuovi venuti? Nel recinto in cui si aspetta un eventuale governo futuro, ricordando ad ogni istante il governo passato, mentre un altro governo, prepotente ed estraneo, la fa da padrone, la vita è sterile.


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