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Unità-Ma quale America amiamo-di Gianni Vattimo

Ma quale America amiamo di Gianni Vattimo Sarà anche vero che, come dicono in tanti in questi giorni (e da ultimo, con particolare efficacia, Giorgio Ruffolo su la Repubblica del 21 febbraio), l'...

22/02/2003
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l'Unità

Ma quale America amiamo
di Gianni Vattimo

Sarà anche vero che, come dicono in tanti in questi giorni (e da ultimo, con particolare efficacia, Giorgio Ruffolo su la Repubblica del 21 febbraio), l'antiamerikanismo (così Ruffolo) è un vecchio vizio della sinistra anni Cinquanta; ma se è per questo, anche gli argomenti con cui oggi lo si contrasta, a cominciare da quelli usati e abusati dalla stampa anglo-americana contro i "traditori" francesi e il "verme" Chirac, sono roba ormai preistorica: gli americani ci hanno liberati dal nazismo, ci hanno difeso dalla minaccia sovietica, hanno pagato il piano Marshall...
Tutte verità sacrosante, ma non è questa l'America contro cui gridano le piazze pacifiste di tutto il mondo. E Bush che vuole comunque cambiare il regime in Iraq, bombardando preventivamente a tappeto i poveri iracheni a cui, se sopravvivranno, vuole fare il dono della democrazia, non è né Roosevelt né Truman impegnati contro Hitler.
Ma insomma, possiamo convenire, dovremmo convenire tutti, che americanismo e antiamericanismo sono due posizioni troppo simmetriche e troppo legate entrambe a situazioni superate per avere una qualche utilità nel dibattito di oggi. Non è vero che gli "antiamerikani" cerchino nell'opposizione agli Usa la base della loro identità europea. C'è da temere invece che proprio i filoamericani vedano in questo loro sentimento la sola possibilità di unirsi in un fronte comune: la dimostrazione lanciata da Giuliano Ferrara all'indomani dell'11 settembre la dice lunga su chi è che cerca identità politica nel rapporto con gli Usa, e così i discorsi della maggioranza di destra in Parlamento durante il dibattito sull'Iraq: esemplari per tutti quelli di Berlusconi e di Martino, un liberale che può avere solo questo amerikanismo "viscerale" in comune con Bossi e Fini.
Il punto è che qui ne va dell'identità europea. Di cui alla destra non importa niente - sono gli Usa quelli che non devono essere lasciati soli a nessun costo, anche a prezzo di una guerra sanguinosa e senza sbocchi prevedibili. Una guerra di cui faremmo volentieri a meno, ma che ha (avrà avuto) almeno il merito di mettere in chiaro che, proprio per l'Europa e la sua possibile funzione autonoma nella politica internazionale, distinguersi dagli Usa è di importanza vitale. Chi ci predica come valore prioritario l'amicizia con l'America - non con gli americani, molti di loro pacifisti più di noi, ma con Bush - è lo stesso che pensa di salvare l'economia italiana imitando il suo liberismo (salvo le leggi sul falso in bilancioe il conflitto di interessi), seguendo il suo modello in fatto di privatizzazione della salute, dell'istruzione, della ricerca scientifica (difendere i brevetti farmaceutici prima di tutto), delle risorse naturali; e in fatto di politica energetica e ambientale (Kyoto!).
È questa l'America che dovremmo ancora considerare come il baluardo del mondo libero? Stando dentro la Nato che si muove solo ai suoi cenni, senza rilevare quanto anche sull'Onu la pressione statunitense sia stata finora, e minacci di essere in futuro, determinante per togliere a questo consesso anche il poco di democrazia che, nonostante tutto, cerca di mantenere?
Quando vogliono essere meno brutali, i sostenitori dell'amicizia con Bush ci chiamano non antiamerikani ma terzomondisti. Un epiteto che non ci sembra affatto da respingere: se c'è un futuro per la politica europea, esso coincide con l'amicizia prioritaria con il terzo mondo, quello che, come il Brasile di Lula, cerca faticosamente di liberarsi dal dominio del capitale e della politica di potenza ameriKana. Non è un orizzonte politicamente meno squallido che restare i vassalli della superpotenza, considerata ormai come il destino a cui non si sfugge e che quindi conviene assecondare, anche contro le speranze dei tanti cittadini democratici americani e soprattutto contro le aspettative di quel "terzo mondo" che, invece, dovremmo "riformisticamente" lasciare al suo destino o semplicemente in balia del capitalismo compassionevole delle multinazionali dei farmaci e del loro protettore Bush?


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