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Unità: La scuola che torna in piazza

Marina Boscaino

26/11/2006
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l'Unità

Le prime voci riguardavano una giornata di mobilitazione sindacale sui problemi della scuola fissata per il 3 dicembre; in molti avremmo ritenuto inopportuno manifestare il giorno dopo la protesta del centro destra, con i suoi kit del perfetto manifestante, gli ombrellini con le ironiche volgarità di cui solo organizzatori di mercati globalizzati e di kermesse mediatiche in serie sono capaci. Fortunatamente non è andata così. Il pacchetto di iniziative promosse dai comparti scuola di Cgil, Cisl e Uil - che dovrebbero accompagnare l'iter della Finanziaria al Senato, con l'auspicio di qualche cambiamento positivo rispetto al deludente esito del maxi emendamento alla Camera - partono il 6 e 7 dicembre, con assemblee e sit in. L'11 sciopereranno per un'ora gli insegnanti di materna, elementare e media, il 13 quelli delle superiori. Le iniziative - che prevedono, tra l'altro, interventi appositi per il personale precario e per gli Ata (amministrativi e tecnico-ausiliari) - culmineranno in una manifestazione nazionale il 17 dicembre.

Fortunatamente, dicevo. Perché la scuola è una cosa seria e merita spazi e tempi di riflessione (una riflessione dolorosa, amara, difficile, quella che siamo chiamati a fare oggi) appropriati. E le debite distinzioni da fenomeni che sono anni luce lontani da quella che si profila come la protesta seria, civile e decisa di un settore del Paese che - a fronte di tante promesse - continua a essere considerato da molti un baraccone ingombrante da smantellare in tempi rapidi. O meglio, da razionalizzare, come ci continuano a spiegare. A nulla è valso insistere sulla malafede che motiva quanti si lamentano che gli insegnanti sono troppi, sciorinando cifre che - se lette correttamente - danno, al contrario, il senso di alcuni interventi di eccellenza del nostro sistema educativo, come l'integrazione degli alunni diversamente abili o la garanzia di scuola alle zone meno popolate del territorio.

È stato bello e sorprendente giovedì sera sentire Oliviero Diliberto proporre come deterrente alla delinquenza diffusa a Napoli l'invio di 25 ispettori del ministero dell'Istruzione, per censire la popolazione studentesca che evade l'obbligo. Rivoluzionario perché troppo semplice, troppo poco scenografico; tanto da non suscitare nemmeno per un attimo l'attenzione dell'incalzante intervistatrice, che ha continuato implacabile a martellare domande. La stessa disattenzione, quando non indifferenza, che circonda la scuola pubblica. A meno che questa non si segnali per fenomeni negativi, che esistono e vanno combattuti con forza e convinzione; ma che non sono l'unica fotografia, né quella numericamente rilevante del nostro sistema dell'istruzione. A Scampia l'istituto tecnico Ferraris ha vinto il primo premio del concorso del Cidi «A scuola di Costituzione», dimostrando come il binomio - anche questo scontato e perciò rivoluzionario, scuola e Costituzione - possa fare miracoli. Il «caso», più o meno amplificato, toglie la scena sui media svogliati anche alle pratiche migliori, quelle che spiegherebbero ulteriore portata educativa e civilizzatrice se fossero adeguatamente raccontate, promosse, sostenute, diffuse. Il «caso», i «casi» (reali di certo, ma misteriosamente troppi, in questo periodo) sembrano la concreta e puntuale documentazione delle analisi che le voci «potenti» degli Ichino, dei Giavazzi, dei Panebianco diffondono indisturbate in uno sconcertante silenzio della politica, degli altri media, della società civile; spiegandoci quanto gli insegnanti siano degli inutili scansafatiche e alludendo a formule di «razionalizzazione» che molti tecnocrati del ministero dell'Economia sembrano apprezzare; non escludendo improvvide incursioni nel campo dei criteri di reclutamento e della riforma della professione docente.

L'eufemismo della «razionalizzazione» nasconde il dramma dei tagli. Che è un dramma nazionale soprattutto culturale. Perché ci parla di un Paese in cui i due schieramenti tanto violentemente contrapposti trovano identità di vedute nell'idea che la scuola debba essere un capitolo di risparmio. «Prima di tutto la scuola pubblica» - questo il nome del ciclo di iniziative di Cgil, Cisl e Uil - è un responsabile e civile passo per richiamare l'attenzione in maniera più convincente su una Finanziaria che non inverte questa tendenza: a cominciare dalla «clausola di salvaguardia», che vincola le 170mila assunzioni previste dal governo alla realizzazione dei risparmi di spesa da ottenere con i tagli, anche i circa 26mila posti che si determinerebbero per effetto dell'aumento del rapporto alunni per classe; per continuare con i precari, privati - con la cancellazione delle graduatorie permanenti dal 2010 - della certezza dei propri diritti; e ancora con il personale Ata, insufficiente e forse - dati i provvedimenti previsti sull'autonomia delle scuole - in procinto di sobbarcarsi numerosi oneri aggiuntivi, per i quali erano state chieste 40mila unità a fronte delle 20mila assunzioni previste. E ancora la soluzione del gravissimo problema del personale inidoneo (che, ad esempio, fa funzionare talvolta straordinariamente le biblioteche scolastiche) o dei presidi incaricati.

Speravamo che la musica cambiasse e che questo scorcio di autunno fosse davvero diverso dai precedenti. E invece ci troviamo - ancora una volta - a parlare di tagli; e ancora una volta a ricorrere allo sciopero. Il dramma è di carattere culturale, dicevo. Perché ci conferma che viviamo in un Paese che non assume le politiche della conoscenza come strumento fondamentale per la democrazia e la crescita. In Finanziaria si prevedono fondi per le scuole paritarie e si affronta il problema dell'innalzamento dell'obbligo dell'istruzione, denunciando un impianto ideologico allarmante, sul quale si deve intervenire. Il silenzio, l'attesa, la speranza di non aver capito, la cautela dettata dall’insidia peggiore - i numeri del Senato e il ricordo di Berlusconi - stanno lasciando il posto alle iniziative sindacali sui tagli; agli appelli (speravamo di non doverne fare più) del mondo della cultura e della ricerca e alle manifestazioni (a Roma, il 29 novembre) delle associazioni di insegnanti e del sindacato sull'innalzamento dell’obbligo; infine, all'amara consapevolezza che non creare il problema oggi significa lasciare spazio a una pericolosa deriva culturale e civile di cui non vogliamo essere complici.


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