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Unità-La base dei Ds avverte il vertice: la 'leadercrazia' ha rovinato la politica

La base dei Ds avverte il vertice: la 'leadercrazia' ha rovinato la politica di Piero Sansonetti I romani sono così: scanzonati, talvolta anche un po' grevi, in genere molto ragionevoli. Le ha...

17/07/2002
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l'Unità

La base dei Ds avverte il vertice: la 'leadercrazia' ha rovinato la politica
di Piero Sansonetti

I romani sono così: scanzonati, talvolta anche un po' grevi, in genere molto ragionevoli. Le ha già viste tutte questo popolo, non si stupisce. Se ti deve colpire lo fa in silenzio, a voce bassa. Il Pci, a Roma, dopo la guerra, ha avuto una grande storia. Una storia positiva. Si è mischiato coi migliori intellettuali e col popolo delle borgate, gli ha dato dignità, speranza, forza politica. Lo ha portato fino al governo della città, spezzando la dittatura dei palazzinari democristiani. Ha avuto mitici sindaci: Argan, Petroselli, Vetere. E ha governato bene. I ds sono eredi di quel Pci: nello spirito, nel modo di concepire la politica. Molto pratici e anche un po' strafottenti. Enzo Foschi, per esempio, non alza nemmeno lo sguardo quando gli chiedi cosa pensi dello scontro dentro il partito, e dei fendenti tra D'Alema e Berlinguer. Risponde sottovoce. "Se D'Alema e Berlinguer, almeno una volta alla settimana, venissero alla festa dell'Unità e friggessero un po' di salsicce, a D'Alema e Berlinguer non passerebbe più nemmeno per la testa di fare quelle dichiarazioni...". Poi Enzo Foschi alza lo sguardo, chiede: "Ochei?", e se ne va, spiegando che non ha molto da aggiungere. In realtà dopo cinque minuti torna e parla ancora, si spiega meglio, discute, precisa, si schiera. Però quello che gli interessava di più era la secchezza di quell'idea di D'Alema e Berlinguer col grembiule da cuoco; e come tutti i romani, teatrali, è bravissimo a costruirci una scena intorno.
Foschi avrà trentacinque anni, ha la faccia del romano vero, ricorda un po' i grandi personaggi di Pasolini, come Citti quando era ragazzo. È uno che ha dedicato la vita alla politica, non è un attivista occasionale. È consigliere comunale. Ho parlato con lui e con un altro gruppo di militanti dei Ds - tutti impegnati attivamente nel partito - sotto una delle tende della festa dell'Unità di Roma. Il pomeriggio alle sette, quando il festival è ancora un po' addormentato e c'è poca gente. Alla fine della discussione mi ha colpito una cosa: mi erano rimaste in testa le facce di queste persone e le cose che mi avevano detto, ma non mi ricordavo più di che corrente fossero (di alcuni di loro non lo avevo neanche capito). Più tardi sono entrato nella cucina di un ristorante della festa - gestito dalle sezioni della zona Prenestina - e ho riaperto la discussione con i ragazzi e le ragazze che preparavano da mangiare (anzi, avevano smesso, perché l'acquazzone di lunedì sera ha mandato all'aria il lavoro dei ristoranti): sono cambiati molto i toni, più accesi, più polemici, ma la sostanza è la stessa, identica, e non lascia lo spazio a nessun dubbio: nella base del partito, nel popolo della sinistra, c'è una volontà unitaria, una richiesta di "coesione", che forse ha il difetto di essere impolitica - di prescindere dai dissensi, dai giudizi, dalle analisi - ma è così forte, appassionata, che per la sua stessa forza diventa uno degli elementi fondamentali della politica di oggi. E sta lì, sul tavolo dei partiti (degli stati maggiori) con lo stesso peso di tutti gli altri problemi ( l'articolo 18, la guerra, il giudizio che si da sul liberismo, la modernizzazione, i diritti, l'immigrazione, lo stato sociale....). Dovranno tenerne conto, se no verranno travolti.
Vicino a Foschi c'è un suo coetaneo che si chiama Giampiero Cioffredi, è l'unico che dichiara subito la corrente di appartenenza. E' uno di "Aprile", un sinistro. Però non considera D'Alema un mostro assetato di potere, non lo considera un uomo di Berlusconi, e non è interessatissimo a discutere per altri dieci anni su cosa avrebbe dovuto fare ai tempi della bicamerale e della caduta di Prodi. Dice: "Vorrei poter continuare a criticare un documento della maggioranza, o una dichiarazione di Fassino, o le scelte di D'Alema, senza dover distribuire o ricevere accuse di tradimento. Non vedo traditori in giro: vedo compagni, alcuni che la pensano come me, alcuni quasi come me, altri in modo diverso. Il dissenso è l'anima della politica, evitiamo di farlo diventare l'anima della rissa...".
Sono tutti militanti giovani, non se li ricordano i tempi cupi dello stalinismo. Però lo spettro del "tradimento", dell'accusa infamante, li fa scattare immediatamente. Francesco Simoni dice che lo stalinismo, a sinistra, è un serpente pericoloso. Torna, si camuffa. "Lo stalinismo era già una iattura quando c'era il comunismo. Fu una tragedia, una atrocità. Lo stalinismo senza comunismo è una farsa assurda". Francesco Simoni è un membro della segreteria regionale del Lazio, mentre Giampiero Cioffredi è del direttivo della federazione romana. Con loro c'è anche il tesoriere del partito di Roma, si chiama Carlo Cotticeli, parla poco - come si addice a un tesoriere - però quando parla è ancora più netto dei suoi compagni: dice che dentro la festa dell'Unità la lotta delle correnti non c'è. Su tutte le grandi battaglie il partito è unito. Il motivo delle randellate tra i dirigenti nazionali è misterioso. Mi invita a girare per la festa, a chiedere: mi giura che non troverò una sola polemica sopra le righe. Ed è vero. Poi mi dice che lui ha votato per Fassino, gli piace D'Alema, si riconosce nelle battaglie di Cofferati e vorrebbe operare per ritrovare l'unità con Cisl e Uil. Mi chiede: "Sono una bestia rara? No, rappresento la base del partito e della sinistra. Sai qual è il problema? I compagni ormai ci sono, hanno rialzato la testa, sono tanti, sono combattivi: è il partito che non c'è". E' il contrario di quello che diceva Massimo D'Azeglio dopo l'unità d'Italia: l'Italia c'è, ora bisogna fare gli italiani.
Francesco Simoni è d'accordo, mi spiega che alla festa di Roma lavorano ogni sera 350 volontari, si ammazzano di fatica, mi fa notare che negli ultimi mesi i ds hanno ottenuto un discreto successo elettorale , e che questo successo è stato merito della collaborazione di tutte le correnti, e anche - evidentemente - di un gruppo dirigente che quando smette di litigare è anche capace di fare cose pregevoli.
Allora dov'è il punto? Sotto accusa c'è l'eccesso di leaderismo. Simoni su questo è molto netto, gli altri sembrano condividere, ma sono più cauti. "Negli ultimi anni ci siamo messi in testa che la politica si faceva coi leader carismatici, con le televisioni, coi personalismi. E così si è mandata alla malora la struttura territoriale che era la forza della sinistra e che era l'ossatura della democrazia politica. Adesso dobbiamo fare il percorso inverso. Smantellare la "leadercrazia" e ricostruire le strutture della politica". Cotticeli, il tesoriere, non so se è del tutto d'accordo, perché lui ci tiene a difendere anche i leader che hanno guidato il partito in questi anni. Però vede il problema e crede che vada risolto. Cotticeli dice che questo è pur sempre il gruppo dirigente che ha superato la crisi del comunismo, che ha salvato il Pds mentre tutti gli altri partiti democratici si dissolvevano, che ha sconfitto Berlusconi nel '96, e che anche nel 2001 ha perduto ma non è stato travolto (la sconfitta, dice, è stata elettorale, non è stata sconfitta politica...). Poi però finalmente alza un po' la voce e chiede: "Il giorno che mezz'Italia era senz'acqua, il giorno che la destra ancora si leccava le ferite per la caduta di Scajola, e il governo era in difficoltà su tanti temi, compreso l'articolo 18 (anche per i grandi meriti di Cofferati), in quel giorno era proprio necessario fare una feroce dichiarazione contro D'Alema? Non era meglio fare una dichiarazione contro il governo?"
Al ristorante del Prenestino il clima è assai simile. Qui ci sono molti ragazzi, e la maggioranza è fassiniana. Alcuni di loro mi rimproverano, in quanto giornalista dell'Unità, perché dicono che il giornale è troppo di corrente, non rappresenta tutti. Però, anche nei loro rimproveri non c'è aggressività, livore, senso di appartenenza a qualcosa di diverso. C'è solo un richiesta di discutere, di allargare. Fassiniani e berlingueriani litigano tra loro scherzando, prendendosi in giro. Compreso il presidente de Municipio (il sesto), che è fassiniano, e il capogruppo che è berlingueriano. Le voci si accavallano, e alla fine si accavallano anche i concetti. Che sono tre: primo, in questo stand facciamo il culo tutti, evidentemente perché ci sentiamo tutti dalla stessa parte. Secondo, il segretario del partito è Fassino, è stato eletto dal congresso, e tocca a lui garantire il pluralismo e tocca a chi dissente rispettarlo e considerarlo il segretario di tutti. Terzo, anche Enrico Berlinguer qualche volta andava in minoranza, eppure questo non metteva in discussione l'unità del partito. Bisognerà ricominciare a considerare l'unità del partito come un valore e un bene di tutti. Che non è in contrasto con la libertà delle idee e col dissenso.
A trecento metri dalla festa dell'Unità c'è lo stadio Olimpico. Allo stadio stanno arrivando circa sessantamila giovani per sentire il concerto di uno dei cantanti più amati da questa generazione, Luciano Ligabue. Il quale Ligabue è un cantautore che piace soprattutto alla sinistra. Con Jovanotti e Piero Pelù, quattro anni fa, compose e cantò una famosissima canzone contro la guerra in Kosovo ("Il mio nome è mai più..."). Provo a fare un giro di opinioni tra i ragazzi che aspettano in fila l'apertura dei cancelli. Nessuna risposta rabbiosa contro la sinistra. Molte risposte indifferenti. Qualcuna impegnata. Parecchie risposte riecheggiano i temi dei no-global, qualcuna contiene anche apprezzamento per la sinistra tradizionale. Tutte però sono lontane. Lontane: una ragazza con la kefiah, che ha comprato alla festa e ha impreso il volto di Arafat, mi spiega che la politica per loro non ha una attrattiva sufficiente a cambiare la propria vita. E' qualcosa che guardano con la stessa intensità e lo stesso impegno che mettono su tante altre cose: lo studio, lo sport, il tempo libero, i dischi, la letteratura. Mi dice che lei è pronta a lottare contro l'abolizione dell'articolo 18, ma poi mi spiega che in un mondo diviso tra un quarto di ricchi e tre quarti di moribondi, l'articolo 18 è una goccia che non muoverà mai le sue grandi passioni.
Riferisco ai miei amici appena conosciuti della federazione romana. Gli chiedo se non c'è una rottura di generazione, a sinistra, che comunque rende monca la sinistra. Sono d'accordo, ma non drammatizzano. Dicono che dobbiamo avere un rapporto laico coi giovani. Non pensare che le scelte politiche o sono scelte di vita o sono disimpegno. Ci sono scale di valori molto importanti che non richiedono per forza l'impegno politico totale. Milioni di giovani fanno volontariato e non politica, ma non è una tragedia. Bisogna cercare un contatto non bisogna cercare di fagocitarli. Simoni dice che per la generazione loro era diverso, che loro lasciarono l'università per la politica, che fu una scelta di vita. Foschi l'interrompe con quel suo sorriso appena accennato (sempre più romanesco, sempre più simile a Citti): "Io ho lasciato l'università perché mi bocciavano sempre...".


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