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Unità-L'interesse del conflitto

L'interesse del conflitto di Furio Colombo Il mondo si confronta in questi giorni, in queste ore, con lo spettro della guerra. Ci sono coloro che credono e dicono che si deve fare, che è necessa...

22/02/2003
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l'Unità

L'interesse del conflitto
di Furio Colombo

Il mondo si confronta in questi giorni, in queste ore, con lo spettro della guerra. Ci sono coloro che credono e dicono che si deve fare, che è necessaria. Non solo Bush e Blair ma anche una parte della grande stampa internazionale. E ci sono le voci che vigorosamente dissentono, non solo Chirac e Schroeder, ma anche una grande parte della stampa internazionale. L'opinione pubblica del mondo è drammaticamente divisa. Qui non serve dire che una vasta maggioranza di questa opinione pubblica, dall'Australia a "Famiglia Cristiana", sembra orientata a un nettissimo no.

L'argomento che voglio proporre è quest'altro: tutti, i sostenitori e gli oppositori, sembrano consapevoli che guerra vuol dire morte, distruzione, vittime, dolore, disastro e conseguenze imprevedibili. Tutti perciò - anche coloro che ti dicono con persuasione che si tratta di qualcosa di necessario e anzi, a lungo andare, di qualcosa di benefico, non negano il volto cupo del disastro. Persino Condoleezza Rice, quando parla di guerra in casa sua (alla stampa americana), lo fa con i toni sobri e cauti di chi sa che torneranno a casa un bel numero di cadaveri. È la prima a dire che questa guerra è il male minore, ma resta un male. E nessuno, alla Casa Bianca, ha provato a colorare di entusiasmo l'evento.

Lo sforzo, anche retorico è di dire che la guerra è colpa dell'altro, non di negare che sarà una sequenza di fatti tragici. Al punto che persino ai bambini americani viene detto in modo piuttosto chiaro di prepararsi al pericolo e al peggio.

A New York ti colpisce per prima cosa non la diversità di giudizio che contrappone chi dà ragione a Bush e chi si oppone alla guerra. Ma il tono comune, diffuso, di ansia e di attesa che tiene tutti in sospeso. La frase più comune che ti senti dire nell'America di questi giorni tesissimi è "We cant think past Iraq".

Non me la sento di pensare al dopo Iraq. Prima dobbiamo attraversare quell'evento. Persuasi e obiettori da questo sono uniti: dall'incubo.
* * *
Il mondo si confronta in questi giorni, in queste ore con lo spettro della guerra. Per l'Italia le guerre sono due. E il tono con cui se ne parla è follemente allegro, tumultuoso, una attesa festosa, quasi una speranza, per coloro che hanno deciso di scegliere la guerra. Te la presentano non tanto come una ipotesi drammatica e inevitabile. Piuttosto come un ideale, come il momento giusto e la cosa giusta, che solo qualcuno accecato da inesperienza, ignoranza o pregiudizio non riesce a vedere.
Fa effetto, a confronto con la stampa del mondo, il buon umore con cui si parla di guerra nella stampa di casa Berlusconi. Impressiona l'effervescenza con cui la si raccomanda, e il disprezzo per coloro che esitano. Come quando, nelle scuole del Regno e di Mussolini, i maestri spiegavano ai bambini che i veri soldati sono quelli che combattono, con moschetto e pugnale, e "non quelli della Croce Rossa e degli ospedali militari, dove vanno solo gli imboscati" (testuale, scuola elementare Michele Coppino di Torino, anno 1940, classe V B).

Improvvisamente fa irruzione, nella vita politica italiana un rigurgito di fervido interventismo, di esuberante e frizzante celebrazione della guerra e di tutto il bene che ne può venire.

Come mai non si trova niente di tutto questo in alcun altro angolo d'Europa?
Non sto negando che tutta l'area delle democrazie industriali del mondo sia divisa, non solo nelle opinioni interne, ma anche nei gruppi contrapposti di governi, fra coloro che non vedono né le ragioni né l'urgenza della guerra contro l'Iraq, e coloro che di fare questa guerra sono impazienti perché ritengono di avere già esibito tutte le ragioni possibili per farla.

Ma è di guerra che si sta parlando. E persino Bush e Rumsfeld, che del progetto di questa guerra sono gli autori, stanno attenti a parlarne con il tono grave, pensoso e penoso di chi sa di descrivere un conflitto che potrebbe essere immenso, per conseguenze e per numero di vittime. Berlusconi scherza, ride, racconta barzellette, nella conferenza stampa con Blair, come aveva fatto durante l'incontro con Kofi Annan.
* * *
Ma se in Italia percepite un linguaggio diverso, sfacciato e addirittura di sfida, in cui vengono chiamati "stradaioli" non solo i pacifisti ma anche i perplessi, e in cui si irride agli indecisi che "si nascondono dietro le gonne dei cardinali" è perché la questione - qui, in questa Italia - non è Bush, non è l'Iraq, non è la guerra di cui il presidente americano parla con gravità al mondo. Non sono le armi sporche e il rischio di attacco batteriologico. Qui, in Italia, dove non esiste un governo capace di guardare con occhi adulti al dramma che il mondo sta vivendo in queste ore, qui la vera guerra è quella di Berlusconi contro gli avversari di Berlusconi. Vittoria non è domare Saddam Hussein. Vittoria è umiliare coloro che non si sono piegati al gioco di fare finta che questo sia un Paese che vive in una normale situazione democratica.

Ecco un bollettino della guerra in corso: "La gente sa che il Cav. è in sella, manovra in Europa con scaltrezza, offre all'opinione pubblica disorientata un solido ancoraggio politico con le sue cinque linee guida di politica estera approvate dalle Camere" (Editoriale, Il Foglio, 20 febbraio, pag. 3). Cav. sta per Berlusconi, è un marchio di identificazione familiare creato come una bolla di benevolenza intorno al leader. Il leader ha sempre ragione, e le sue "cinque linee" suonano Mao Tse Tung, e suonano ridicole, se si pensa all'inesistenza di esse in tutta la stampa internazionale, a cominciare dalla più amica, quella americana che ha dedicato un recente articolo ("New York Times", domenica 16 febbraio, pag. 3) ai processi di Berlusconi e non alle "cinque linee guida".
Ma per i veri credenti del culto di Arcore il mondo è visto solo come un palcoscenico (vedi Pratica di Mare).

Il mondo serve per poter dire la frase così amata negli spettacoli di giro: "Reduce dai trionfi internazionali ecco a voi, signore e signori..." (applausi scroscianti).
Purtroppo, per i veri credenti del culto Berlusconi non sono importanti le tragedie del mondo, e dunque non è importante discutere di quell'altra guerra che potrebbe incendiare il Medio Oriente, contagiare intere aree del mondo, dilagare lungo i confini - che forse senza guerra non esisterebbero - del tanto temuto "scontro di civiltà".
Coloro che si mobilitano per la pace, sia come valore totale che come obiezione a questa specifica guerra, che siano liberi cittadini o vescovi, pacifisti profondi oppure soltanto persone preoccupate del pericolo e non persuase della soluzione immensa e violenta, sono trattati con disprezzo soprattutto per la loro stupidità (è questo che si legge con chiarezza negli editoriali frizzanti del nuovo futurismo di guerra).

Infatti coloro che si mobilitano non si rendono conto che interferiscono, con il loro ostinato candore del discutere la pace, con la vera guerra, che è quella per liquidare una volta per sempre tutta l'opposizione, ovvero il progetto di un uomo-governo che detesta la minima obiezione e disprezza chi si permette di non venerarlo. Potrebbero, quest'uomo e la sua corte, perdere la splendida occasione - un po' teatrale ma efficace - di far passare tutti gli oppositori per traditori, come si usa in ogni buon regime?

Si discute sulle ragioni che in questo momento stanno muovendo Bush verso la guerra in Iraq. Ma pensate alla montagna di ragioni che motivano Berlusconi e i suoi veri credenti a volere quella guerra per poter scatenare e vincere l'altra: una opposizione così misera da schierarsi con la Croce Rossa, mentre loro, i forti e nuovi protagonisti della scena sociale, siederanno con i vincitori al tavolo delle dure condizioni post belliche.

A quel tavolo non ci saranno giudici e processi. Le miserie del Giudiziario, che pretende, nientemeno, di essere uno dei tre poteri della democrazia (come afferma - falsamente direbbe l'avvocato Pecorella - la Costituzione americana) sarebbero finalmente spazzate via. Via il lagnoso conflitto di interessi. Qui c'è l'interesse del conflitto. Che sia grande, duro, drammatico, quel conflitto, che incenerisca pure mezzo mondo. L'importante è che in Italia si possa usare per umiliare come si deve la gentarella dei girotondi, e quella dell'opposizione, e quei dubbiosi e quei pacifisti che, solo per il fatto di scendere in strada a milioni, pretenderebbero rispetto e attenzione.

Ci penserà la guerra a togliere di mezzo questa polvere di opposizione che vuole a tutti i costi deturpare la marmorea figura del leader. Il leader, giustamente, viene elogiato dalla libera stampa e dalla libera televisione di cui è proprietario, perché finalmente ha attraversato il suo Rubicone.

Tutto il mondo è in ansia per una guerra. L'Italia ne ha due. Il linguaggio aggressivo e cattivo della stampa di famiglia ci dice che anche la seconda guerra sarà spietata.
Per un regime che vuole rafforzarsi, far fuori l'opposizione è sempre un momento cruciale.
Diciamolo con il loro linguaggio: "Poche storie, si va a tempi duri".
Con tutto ciò (sia la tragedia internazionale che la commedia italiana) la sacrosanta lotta al terrorismo internazionale non c'entra niente.
Non è neppure sfiorata.


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