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Unità-Il timer batte sempre più in fretta

2003 Il timer batte sempre più in fretta di Furio Colombo Che cosa resta tra noi e la guerra? Restano le Nazioni Unite, fragili, logore, il cui percorso forse finisce qui. Resta l'opposizio...

09/03/2003
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l'Unità

2003
Il timer batte sempre più in fretta
di Furio Colombo

Che cosa resta tra noi e la guerra?

Restano le Nazioni Unite, fragili, logore, il cui percorso forse finisce qui.
Resta l'opposizione tenace di alcuni grandi Paesi, la Francia, la Germania, la Russia. Può prevalere nei numeri, nei voti del Consiglio di Sicurezza. Comunque non fermerà l'ostinazione di guerra.
Resta il Papa che non si arrende. Resta l'opinione pubblica del mondo, un fatto nuovo e imprevisto che si oppone alla volontà di guerra. Ma è come se tutto avvenisse in un altro pianeta.
Resta, citato ovunque, ignorato nei media italiani, il progetto di indurre all'esilio (con le garanzie necessarie) Saddam Hussein, e di tentare la ricostruzione democratica di un Paese salvato dalla distruzione fisica. Avrebbe potuto essere il nesso fra la speranza e la politica. Era la proposta Pannella-Bonino che ha girato il mondo. In Italia un governo che avrebbe interesse a far notare la propria esistenza, non ha voluto toccarla. Pannella fa sapere che non intende rassegnarsi. Ma, come nel finale di un terribile thriller, il timer della guerra continua a correre.

Come è cominciato quest'incubo che sta per diventare il bollettino di una guerra senza limiti?
Improvvisamente, come in una moviola impazzita, il tempo (frasi, parole, invocazioni, slogan, immagini) ha cominciato ad andare all'indietro. Dite ad alta voce la frase: "Un governatore americano amministrerà l'Iraq dopo la vittoria", e vi ritrovate al principio dell'altro secolo, mentre si sbriciola l'impero ottomano. Invocate o maledite la "triplice alleanza" di Francia, Germania, Russia, e siete alla vigilia della prima guerra mondiale. Pronosticate, come è inevitabile, la dissoluzione delle Nazioni Unite, se il voto del Consiglio di Sicurezza sarà contro gli USA, e vi trovate, con desolazione e angoscia, nel 1939, mentre muore la Società delle Nazioni. Come nei primi maledetti decenni dell'altro secolo, c'è un Papa inascoltato che chiede la pace. E non c'è l'Europa. Ci sono gruppi contrapposti di governi in fuga verso destini separati, che non si risparmiano attacchi e denigrazioni. I Paesi dell'Unione sembrano ormai connessi soltanto dalla moneta comune e dalle quote latte.

La guerra sarà breve o sarà lunga, però di essa questo sappiamo: sarà immensa. Sappiamo anche che non finisce. Comincia nel vuoto di piani, di visione, di immagini coerenti, di ragioni (non per detestare Saddam Hussein, ma per distruggere tutto un Paese, perché questo si sta preparando), di una paurosa mancanza del nesso causa-effetto che dovrebbe guidare qualsiasi gesto razionale. Manca il nesso causa-effetto fra tutte le malefatte imputabili all'uomo di Baghdad e la tragedia del terrorismo. Manca il nesso fra la cosiddetta vittoria che, in tutti i sensi avrà un costo immenso, e la fine del terrorismo che, invece, trova terreno ideale per crescere e moltiplicare fra distruzione e vendetta.

Circolano all'improvviso notizie che dovrebbero disorientare George Bush e i suoi sostenitori, dovrebbero indurre a ripensare l'accanita, esclusiva, assoluta necessità di colpire l'Iraq proprio qui, proprio adesso, a spese di tutto, immagine, leadership, alleanze, ruolo nel mondo, destino dell'economia. Le notizie dicono che hanno catturato due figli di Osama bin Laden. Forse è meglio che non sia vero, visto che uno dei due figli, di cui è stata annunciata e poi smentita la cattura, è un bambino. Ma quella notizia ci ha ricordato il punto in cui tutto è iniziato: dalle Torri Gemelle di quel tragico 11 settembre ai Talebani in Afghanistan, al quartier generale di Al Qaeda. In Afghanistan la guerra c'è ancora, la caccia continua. Ci sono morti e imboscate. Alcuni si domandano: è questo il futuro? Altri realisticamente consigliano: non sarebbe meglio finire là dove si è cominciato e dove sono state trovate le basi del terrorismo? O il progetto è di combattere sempre, dovunque? Ma è possibile, persino per la più grande potenza del mondo? E poiché evidentemente non è ragionevole, da quando l'irragionevolezza è un buon materiale di strategia e buon consigliere di azione?

Ecco dove siamo: un cocktail di vecchia politica e di nuove armi che si realizza forgiando e rompendo alleanze, con incentivi e minacce, intorno a una volontà esclusiva a cui si può solo obbedire, perché ti annuncia le sue intenzioni ma non le spiega, e trova irritante che tu le voglia discutere. Dicono coloro che raccomandano di restare vicini a George Bush che tutta l'attenzione, e dunque tutto il peso del giudizio dell'opinione pubblica, si è spostato sulla politica americana, ignorando le malefatte di Saddam Hussein.
È una buona descrizione di ciò che sta accadendo. Ma la spiegazione è nello stupore di tanti per un comportamento di governo così strano e inedito per la cultura americana, che di solito conta sui fatti, produce documenti (come negare che persino i misfatti attribuiti agli Usa in tutti questi anni sono stati regolarmente rivelati da inchieste e documenti americani?) esige e restituisce evidenze. Adesso siamo di fronte a un nuovo, inaspettato atteggiamento di predicazione religiosa, di richiesta di fede indiscussa e assoluta. Separa, all'improvviso, il modo di governare di George Bush da gran parte dell'opinione del mondo.
Credo che stia accadendo questo: si avvicinano al percorso indicato con un martellamento continuo da Bush coloro che, in passato, non amavano e non frequentavano la cultura americana. Erano irritati dal suo pragmatismo e dalla sua ossessione di controllare tutte le fonti, di diffidare di sermoni e di prediche. Adesso il Presidente degli Usa è un predicatore che si fa fotografare sotto una immagine di Cristo, non ha difficoltà a presentarsi come la voce di Dio, a incitare ad una guerra del cui esito, in termini di proporzioni, di vastità, di vera durata (non il momento in cui apparentemente finisce, ma il tempo in cui si trascina e si riaccende) non si sa nulla.

Siamo arrivati molto avanti nell'ammasso di errori che porta alla guerra. Le Nazioni Unite erano già debilitate. È un atto estremo di fiducia domandarsi se resisteranno a questa prova. Il pericolo che ne escano svuotate è grandissimo, sia nel caso di qualche umiliante compromesso, sia nel caso di una frattura che potrebbe non avere rimedio.
L'Unione Europa ha subito la più grave ferita della sua breve storia quando l'Italia ha seguito la Spagna nel sottoscrivere l'appello di un giornale americano a sostegno del governo di Bush e contro gli altri governi europei. È stato il gesto frivolo e grave di chi pensava di farsi notare per fedeltà dalla grande potenza, e invece ha perso ogni titolo per avere un ruolo politico in Europa e nel mondo. In Italia il danno è stato pesante. Un governo senza immagine, senza politica, senza potere, si trova nelle condizioni di una filiale di vendita che non ha più alcuna possibilità di discutere il prodotto. Conosce la malavoglia degli acquirenti (ovvero la forte preferenza per la pace di una parte grandissima degli italiani, che non si dividono fra amici e nemici dell'America, ma lungo le linee di un comune spaventato buon senso). Ma non ha alcuna voce in capitolo e dispone solo di una scelta amara: o ti voltano le spalle i tuoi cittadini, o vieni messo nella lista dei diffidati dal potente governo disperatamente corteggiato.

Inutile ripetere che il governo italiano, in questa vigilia di guerra, sta commettendo una catena di errori. Sembra non possedere valori propri e un proprio percorso politico eppure non ha voluto impossessarsi della proposta di esilio per Saddam Hussein. Il problema non è se quella proposta sia realizzabile - certo è realistica. È una delle pochissime opzioni rimaste. Essa poteva dare un senso all'azione di un governo che è invece allo sbando, dice, nega, contraddice, nega di nuovo, giura e spergiura una cosa e il contrario.

Le Figaro del giorno 8 marzo si domanda: "Si può fare ancora qualcosa per la pace?". E pone in discussione proprio l'argomento dell'esilio di Saddam Hussein, un esilio che, dice, si potrebbe ottenere con una tenace pressione politica che evita la guerra, salva un popolo, porta un inizio di democrazia.

"Quante perdite, prima che il primo colpo sia sparato", scrive Nicholas Kristoff lo stesso giorno sul New York Times. Dà per scontato che sia troppo tardi, una serie di prove mancate.
Il timer della guerra e della distruzione ticchetta veloce come nel finale di un brutto thriller, di quelli che non hanno un lieto fine.

Nel momento in cui leggete, restano soltanto otto giorni di pace. Qualcuno vorrà provare a fermare il timer, dando una mano all'Onu, all'Europa, alla proposta di esilio, qualunque cosa che non sia il lampo spaventoso della guerra?


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