FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3775677
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità-Il grande vuoto

Unità-Il grande vuoto

04.2003 Il grande vuoto di Furio Colombo "Guerra è sempre", grida il Greco di Salonicco, ebreo scampato per caso allo sterminio, ne "La Tregua" di Primo Levi. Il film di Francesco Rosi ha colto...

06/04/2003
Decrease text size Increase text size
l'Unità

04.2003
Il grande vuoto
di Furio Colombo

"Guerra è sempre", grida il Greco di Salonicco, ebreo scampato per caso allo sterminio, ne "La Tregua" di Primo Levi. Il film di Francesco Rosi ha colto la profezia di quelle poche parole (e il senso di quel libro che infatti si chiama non 'pace' ma 'tregua') in una scena indimenticabile.

Ora che James Woosley ha parlato all'Università di California e ha detto "questa è la quarta guerra mondiale, e durerà più della altre", ora che George Bush ha annunciato a Tampa, davanti ai suoi soldati che lo acclamano, che "il tempo della guerra sarà di dieci, forse quindici anni", sappiamo che la terribile profezia di Mordo Naum, il Greco di Salonicco, si sta avverando.

James Woosley è stato capo della Cia e adesso è ministro designato delle Informazioni nel progettato governo americano del dopo Saddam Hussein. Dunque uno che sa di che cosa sta parlando. E lui dice, nella seconda parte della frase appena citata, che "Siria, Iran e mondo islamico saranno i prossimi obiettivi di guerra".

George Bush è il presidente degli Stati Uniti. Ha detto ai suoi soldati ciò che, un tempo, avrebbero detto disfattisti e avversari, propaganda nemica e sabotatori: la guerra durerà 10 anni. Nella vita di una persona giovane dieci anni è sempre.
Anche nella seconda guerra mondiale girava lo spettro della guerra infinita. Racconta William Dikins nel suo libro "The Brutal Friendship" del progetto di alcuni uomini di "intelligence" inglesi e americani: deposti Hitler e Mussolini, la guerra poteva continuare deviando contro l'Unione Sovietica tutte le forze disponibili al tempo di quel piano, nel luglio del 1944.

Lo storico inglese ricorda la risposta del Presidente americano Roosevelt, che si è opposto con fermezza e con sdegno a quel progetto, appena glielo hanno illustrato. Ha detto: "La guerra è un incidente con uno scopo. Finisce e basta".
Da allora tutta la cultura dell'Occidente vincitore si è modellata intorno all'idea di pace come stato di normalità, e intorno alla costruzione di strumenti (le Nazioni Unite ma anche la Nato) concepiti allo scopo di mantenere la pace.

I giudizi politici, fra coloro che hanno attraversato, con punti di vista e aspettative diverse, gli anni della guerra fredda, sono spesso lontani.

Ma su un punto si può convenire: la guerra è apparsa agli occhi di tutte le generazioni, dopo il secondo conflitto mondiale, uno strumento screditato, un vecchio arnese a cui facevano da ostacolo non solo le organizzazioni deliberatamente create per l'incontro in luogo del conflitto, ma anche le alleanze militari. Abbiamo già scritto (su l'Unità del 1°aprile) che l'Art. 1 del trattato della Alleanza Atlantica esclude la guerra e rinvia alle regole delle Nazioni Unite per la soluzione delle controversie internazionali.

È un trattato militare, e dunque si potrà parlare di ipocrisia. Ma non occorre essere i posteri, che esamineranno in futuro questi documenti, per capire che abbiamo vissuto finora in un'epoca e in una cultura che non crede alla guerra e che la respinge, al punto che non si deve neppure evocarla. Quest'epoca è finita l'11 settembre 2001.
Il mondo - e non solo l'America - è stato colto di sorpresa dal terribile evento dell'11 settembre. Il mondo - e non solo l'America - è stato colto di sorpresa dalla dottrina dell'attacco preventivo e della guerra infinita.

Il primo shock ha creato panico e spaesamento, perché spingeva verso un futuro pieno di insicurezza. Il secondo shock ha creato panico e spaesamento per la spinta brutale all'indietro, verso un passato pieno di guerra. Dice un proverbio americano che due cose brutte non ne fanno una buona. Ma questo è il punto di disorientamento in cui il mondo è stato sospinto: orrore come risposta all'orrore.

La spinta verso il passato è così brutale che si riforma tutto il peggio della cultura di guerra: la propaganda, il sostegno, l'elogio del colpire duro, l'irrisione per il pacifismo, che viene descritto come spregevole o ridicolo, l'emergere di un opportunismo di guerra, che porta alcuni a schierarsi subito, con tutti i segni possibili di fedeltà, dalla parte del vincitore, la divisione fra culture buone, da sostenere senza discutere, e culture cattive, da distruggere senza perdere tempo in chiacchiere. È la ricerca a tutti i costi di un conflitto di civiltà, invocato proprio perché serve a giustificare, con il suo presunto stato di necessità, l'uso e l'invocazione della guerra.

Su questo punto, uomini e donne del mondo devono molto al Papa, non come capo della Chiesa, ma come unico leader che si è preso la responsabilità di pronunciare parole ferme di guida in un momento assurdo. "Questa", ha detto, "non è una guerra di religione". È una frase più forte, più efficace di un esercito. Ha probabilmente disarmato molte mani armate già pronte.

Negli anni ci ricorderemo di un Papa che ha visto il vuoto di equilibrio, di senso morale, ma anche di senso comune, che all'improvviso si è creato nel mondo. E ha visto accadere l'incredibile: la morte ingiusta e spaventosa di tremila persone nell'attentato inconcepibile delle Torri gemelle di New York, ha tolto improvvisamente valore alla vita umana, ci ha riportato a un mondo in cui i destini di milioni di persone sono affidati al cinismo e alla vanagloria dei generali.

Il Papa, da solo, ha visto e denunciato l'incredibile errore. Ha detto parole tremende. Ha detto: "Dio si nasconde". Ha detto: "La terra è diventata un grande cimitero. Quanti uomini, tanti sepolcri, un grande pianeta di tombe, le tombe sparse sui continenti del nostro pianeta...".

Si è reso conto del silenzio, del conformismo, dell'opportunismo, della preferenza a tacere che ha cominciato a segnare il mondo nei giorni in cui l'annuncio della guerra infinita si è fatto più forte e più netto e più irreversibile. È il momento in cui sono apparse, l'una di fronte all'altra, la proclamazione di due guerre sante, l'annuncio, da questa parte del mondo, che tutto stava per avvenire in nome di Dio.

Ecco di che cosa dobbiamo essere grati al Papa: ha ritirato dalla guerra il nome di Dio. Ha proclamato alto e forte e scomodo - fino al punto di essere maltrattato - che Dio non vuole avere niente a che fare con la dottrina della guerra preventiva e della guerra infinita.

La nitidezza di visione profetica di Giovanni Paolo Secondo non ha bisogno del sostegno degli eventi di cronaca. Ma il fatto che il papato sia insediato a Roma ha certo mostrato a lui, figlio di una tragica Europa dell'Est in cui ogni professione di fede costava cara, l'immensa ipocrisia dei suoi nuovi connazionali.

Dicono che quando il presidente Berlusconi ha voluto essere ricevuto, dopo avere affermato il suo sostegno alla guerra, dopo averlo negato, dopo avere concesso tutta la collaborazione possibile e avere detto di non averlo fatto, dopo essere stato ufficialmente incluso nella lista dei partecipanti alla guerra e avere giurato di essere non belligerante, dopo avere invocato legami (Europa, Nato, Nazioni Unite) che invece ha lavorato febbrilmente a rompere, dopo essersi presentato come mediatore mentre era un militante strettamente legato (e ufficialmente ringraziato) al progetto di guerra infinita, in quella circostanza il Papa, sia stato, nell'incontro con Berlusconi, fermo e durissimo. Ricordate? L'uomo più vanitoso del mondo non ha potuto ottenere neppure una fotografia di quell'incontro.

Da allora il primo ministro italiano è praticamente scomparso, nei giorni peggiori della vita del Paese. Da allora coloro che partecipano alla sua maggioranza fingono accettazione delle parole del Papa, relegandole nel "dovere del Pastore di dire la sua" e dedicando ai milioni di persone che dimostrano per la pace il sarcasmo, il dispetto e il disprezzo che non osano rivolgere a lui.

Ma se le piazze sono piene, le tribune dei leader sono vuote. Lo ha detto bene il sociologo Ilvo Diamanti commentando le sue ricerche (La Repubblica, 2 marzo, 9 marzo, 23 marzo). Ha detto: è la prima volta che immense manifestazioni di pace includono padri e figli, madri e figlie. Si compie il rito, raro e prezioso, del passaggio di esperienza da una generazione all'altra. Secondo, si vede, si constata la voglia di comunità, di vita insieme, negata sia dalla politica di cartapesta che dalla televisione delle veline, dei falsi esperti e del regime. Terzo, c'è un grande vuoto.

Le voci forti, nitide, inflessibili, che ognuno di noi vorrebbe sentire, ogni bambino e ogni adulto, ogni persona che ha paura perché ha vissuto e che ha paura perché è giovane e non sa ancora quello che può accadere, quelle voci non ci sono. Forse è la prima volta nella storia che una prova così grave non ha voce per raccontare, interpretare, guidare. Nessuno sembra avere il polso, l'autorità per farlo. E anche i leader di opposizione costellano i loro messaggi di frasi e di accenni per mettersi al sicuro dai fulmini dei predicatori di guerra.

Questo vuol dire che il compito di ciascuno di noi è un po' più grande. Vuol dire essere non solo i partecipanti ma anche i protagonisti del civile impegno di pace. Vuol dire darsi coraggio a vicenda nonostante la solitudine e il vuoto. Vuol dire tenere testa alla disinformazione deliberata che piove su di noi nascondendo o esaltando la guerra.
Vuol dire non lasciarci intimidire dal rischio di essere catalogati "anti", come espediente per discriminare e spingerci fuori dal diritto di parola e di ascolto. Vuol dire non cedere al nuovo linguaggio di celebrazione della superiorità, della violenza, perfino della bellezza della guerra. Vuol dire ostinarsi a pretendere una comunicazione onesta, a uscire dal labirinto della propaganda, dei falsi argomenti, delle notizie alterate. E persino quando si è esclusi da ogni occasione di comunicare, insistere nel farlo.

Per esempio, con questo giornale. Nei prossimi giorni l'Unità distribuirà una cartolina di pace. Inviarne tante, inviarne a tutti, con il semplice messaggio "fermate la guerra, adesso, subito", in nome di quel bambino, Alì di Baghdad, che ha perso le braccia, la mamma, il papà e tutti i fratelli, può essere una piccola cosa giusta.
Sono sentimenti normali di persone normali che credono fermamente in ciò che hanno loro insegnato - dopo tante rovine - coloro che li hanno liberati dal fascismo: le democrazie non fanno guerre.


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33
Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL