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Unità: Chi affonda l’Università

La questione del finanziamento della ricerca italiana ha raggiunto una temperatura da altoforno: quasi esplosiva, con le recenti dimissioni di Walter Tocci

26/11/2006
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l'Unità

Fulvio Esposito*

Enrico Alleva**La questione del finanziamento della ricerca italiana ha raggiunto una temperatura da altoforno: quasi esplosiva, con le recenti dimissioni di Walter Tocci, responsabile Ds Università e Ricerca. Bisbigliano che in queste ultime notti tra Camera e Senato il finanziamento del Cnr non copra più nemmeno gli stipendi (saranno i precari a farne le spese?). Il taglio alle spese delle università le mette in ginocchio, obbligate a chiudere biblioteche e laboratori. Mentre Francesco Giavazzi (sul Corriere della Sera) da sfogo a esternazioni talora davvero poco utili, l'economista Marcello De Cecco (su Repubblica) scrive cose molto sensate ed emerge come leader programmatico indiscusso di un movimento di docenti di standard internazionale, ciononostante attento alle sensibilità e alle esigenze dei giovani precari della ricerca.

I centri di eccellenza che sono tali solo per decreto ministeriale vanno abbattuti: bisogna investire seriamente su Università ed Enti di ricerca che funzionano dai tempi di Mussolini, dalla presa di Porta Pia, se non dall'epoca di Galileo Galilei. Erogare fondi su radici scientifiche robuste fertilizza giovani germogli cerebrali che altrimenti fuggiranno all'estero, quel brain drain di cui tutti si lamentano che però rischia paradossalmente di aumentare con il prossimo anno.

Il ministro Mussi ha promesso 10-20.000 ricercatori per il prossimo decennio. Il noto fisico Giorgio Parisi, Presidente della Commissione lincea per la ricerca, invoca questo ossigeno minimo, un'assunzione eccezionale per numeri di giovani ricercatori però scelti per merito, non su logiche di locale clientelismo anche nepotista. Qualcuno vorrebbe distinguere categorie di Università teaching (principalmente finalizzate alla didattica) e research universities (dove avanzamento del sapere e insegnamento invece coincidano). Questo in non pochi casi contrasta con la nostra secolare storia di insegnamento universitario e con la valutazione del Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca, che dimostra come non vi siano centri di «eccellenza totale», ma punte di prestigio già ben distribuite sul territorio.

Anche l'idea che porzioni di Enti pubblici di ricerca di punta e porzioni esclusivamente strumentali, che eroghino pareri o consulenze on demand è quantomai limacciosa. Comunque, la committenza dovrebbe essere preferibilmente pubblica ed europea, senza indulgere nel coinvolgere ditte e dittarelle localmente «paesane», magari statunitensi o asiatiche.

Certamente non siamo più ai tempi degli studenti cinquecenteschi di Galileo Galilei, quando attorno all'unico cannocchiale si alternavano pochi eletti allievi, mentre il Maestro scopriva nuovi pianeti nel firmamento sopra l'università. Ci spiegano storici della scienza e fisici fiorentini che Galileo utilizzava uno strumento ottico provvisto di una lente di non buona qualità, adoperabile solo da occhi allenatissimi e intensamente curiosi. Né viviamo ai tempi dei primi anatomisti patavini Andrea Vesalio e Gabriele Falloppio, quando il cadavere, magari sottratto illegalmente al dovuto sepolcro, veniva dissezionato con un nugolo di studenti attorno a un piccolo tavolo operatorio.

Oggi le moltitudini di studenti di medicina, biotecnologia o altre materie simili non potrebbero comunque avere così tanti pezzi anatomici per la loro esercitazioni. Anche per ragioni etiche si ricorre infatti a sezioni di tessuto umano comodamente disponibili su internet, ma occorre un professore non troppo «telematico» che le sappia spiegare. Non è perciò oggi possibile che strumentazioni tanto complesse quanto costose di biologia molecolare possano essere utilizzate per una didattica di massa «insegnamento che coincida con la verace scoperta», come una volta nella assai elitaria Università dei tempi di Galileo.

L'Italia ha bisogno di laureati, numerosi e formati in modo da non sfigurare con laureati tedeschi e francesi, cinesi o indiani; e che siano istruiti come giapponesi, coreani, irlandesi, se non come le ultracompetitive sedi inglese di Cambridge o statunitense di Harvard. Tutto questo se vogliamo che un'Italia saldamente in Europa rimanga o ritorni a essere un paese capace di competere. Se non vogliamo che figli e nipoti ripercorrano le orme e le rotte dei nonni e bisnonni, stavolta non per scendere in miniera, ma per laurearsi a Londra o a Berlino, o prendere un Dottorato a Shangai o a Bangalore. Walter Tocci lo ha capito e ci ha detto come fare. Diamo voce e seguito alla sua lezione, cominciamo a governare il sistema. Davvero.

*Rettore Università di Camerino

**Socio corr. Acc. Naz. Lincei


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