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Una polpetta avvelenata nella legge di stabilità? Le conseguenze del nuovo limite sul fabbisogno degli atenei

Nella legge di stabilità 2018 non ci sono risorse aggiuntive per l’università. C’è però un lungo articolo (art. 78) dedicato al “Fabbisogno finanziario [delle] Università” dove si definiscono le regole per calcolare l’ammontare massimo complessivo di risorse che può essere effettivamente speso nel corso dell’anno per le università. 

07/11/2018
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ROARS

Alberto Baccini

Nella legge di stabilità 2018 non ci sono risorse aggiuntive per l’università. C’è però un lungo articolo (art. 78) dedicato al “Fabbisogno finanziario [delle] Università” dove si definiscono le regole per calcolare l’ammontare massimo complessivo di risorse che può essere effettivamente speso nel corso dell’anno per le università. L’art. 78 contiene una prima innovazione: il tasso di crescita del fabbisogno degli atenei è stabilito in misura fortemente ridotta rispetto alla normativa precedente: non crescerà più automaticamente del 3% ogni anno, ma crescerà come il Pil reale (se va molto bene intorno all’1% annuo). Questo potrebbe innescare tensioni di cassa sulla gestione corrente di alcuni atenei, che dovranno far fronte agli scatti sbloccati dei docenti (il che potrebbe convincere Rettori e CDA a rendere sempre più selettive le regole di valutazione per la concessione degli scatti). Il secondo elemento di novità è lo scorporo delle spese per ricerca e investimenti dal calcolo complessivo del fabbisogno. A parità di FFO, verranno liberate risorse per gli atenei con elevata attività progettuale e/o che si trovano un tesoretto accumulato da spendere per investimenti e ricerca. Non è difficile immaginare che gran parte degli atenei in queste condizioni si trovino nel Nord del paese. E non è difficile prevedere che il risultato sarà la differenziazione tra atenei. E’ anche del tutto probabile che la misura finisca per alimentare ancora il precariato della ricerca poiché gli assegnisti potranno essere assunti senza intaccare le capacità di spesa degli atenei. L’art. 78 della legge di stabilità appare in perfetta continuità con le politiche universitarie degli ultimi dieci anni. Non male per un governo “del cambiamento”.

Nella legge di stabilità 2018 non ci sono risorse aggiuntive per l’università. C’è però un lungo articolo (art. 78) dedicato al “Fabbisogno finanziario Università” i cui contenuti fortemente tecnici hanno suscitato discussioni e perplessità. Proviamo a chiarirne il senso.

Le università concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, quindi deve essere definito il loro fabbisogno. Il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche è un indicatore dell’andamento complessivo dei conti pubblici valutato in termini di cassa. Nel nostro caso: l’ammontare massimo complessivo che può essere effettivamente speso nel corso dell’anno per le università. Fino al 2018, i livelli di fabbisogno erano stati definiti nella legge di stabilità 2016 (art. 1 commi 747-749), si ritiene dunque di dover intervenire di nuovo per ridefinirli negli anni a venire.

Nella relazione tecnica di accompagnamento alla legge di stabilità, si indicano chiaramente gli obiettivi dell’art. 78:

“La disciplina ed il monitoraggio del fabbisogno finanziario del sistema universitario statale, per il periodo 2019-2025, è finalizzata ad evitare che il comparto possa, in assenza di regole, generare un livello di fabbisogno non compatibile con gli equilibri di finanza pubblica e contestualmente sostenere il rilancio degli investimenti e della ricerca sul territorio nazionale.”

Rispetto alle regole valide fino al 2018, nell’art 78 ci sono due novità.

La prima novità è che si definisce un limite molto più stringente per la dimensione del fabbisogno in termini di tasso di crescita. Il fabbisogno viene determinato infatti incrementando ogni anno il fabbisogno dell’anno precedente di un importo pari al tasso di crescita del PIL reale stabilito nell’ultima nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Nell’ultima nota di aggiornamento (p.23) le stime di crescita del PIL reale sono rispettivamente 1,2% 2018; 0,9% 2019; 1,1% 2020 e 2021. Quindi a fine periodo se la crescita sarà quella stimata (e c’è solo da incrociare le dita) il fabbisogno risulterà incrementato del 3,1%. Che è molto  meno del 3% annuo stabilito dalle norme previgenti.

Nei prossimi anni le università si troveranno a far fronte agli scatti sbloccati dei docenti; è possibile, ma i dati andrebbero studiati più a fondo, che questo possa far emergere tensioni di cassa sulla gestione corrente per singoli atenei se non per il sistema nel suo complesso (questo punto era chiaro agli estensori della manovra 2007 -Governo Prodi- che ridusse dal 4% al 3% l’incremento del fabbisogno delle università). Nella misura in cui gli atenei si troveranno a far fronte a problemi di cassa, è possibile che Rettori e CDA siano spinti a rendere sempre più selettiva la valutazione per la concessione degli scatti legati al “merito”.

La seconda novità è che dal calcolo del fabbisogno sono stralciati (non concorrono al calcolo) “le riscossioni ed i pagamenti sostenuti per “investimenti ed attività di ricerca”. (art. 78 comma 1). Questo significa che a regime[1] le spese per investimenti e ricerca sono aggiuntive rispetto al “fabbisogno”. Di fatto questo sistema serve a liberare dai vincoli di spesa imposti dall’ammontare complessivo del fabbisogno, le risorse proprie degli atenei, e le risorse eventualmente accantonate negli anni precedenti. Verosimilmente esistono atenei che hanno risorse finanziarie accantonate che non possono spendere e che con questa norma vengono liberate.

Le modalità tecniche con cui verranno attuati i commi 1-3 dell’art. 78 saranno definiti con decreto del MEF di concerto con il MIUR. Per cui per capire come saranno conteggiate le spese per ricerca bisognerà aspettare quei decreti. La Relazione tecnica contiene però una importante precisazione:

“si precisa che le riscossioni ed i pagamenti per la ricerca, oggetto di esclusione, si riferiscono esclusivamente alle riscossioni ed ai pagamenti direttamente imputabili all’attività progettuale degli atenei”.

La nota tecnica indica la volontà del governo di escludere fina da subito ogni possibile interpretazione estensiva della idea di “spese per attività di ricerca”, per esempio in relazione alla possibilità di conteggiare parte dello stipendio di docenti e ricercatori come spese per ricerca.

Al comma 5 si dice che entro il 15 marzo di ogni anno il MIUR indica agli atenei il loro fabbisogno (cioè quanto possono spendere per cassa nel corso dell’anno) sentita la CRUI, “tenendo conto degli obiettivi di riequilibrio nella distribuzione delle risorse e di eventuali esigenze straordinarie degli atenei, assicurando comunque l’equilibrata distribuzione del fabbisogno, al fine di garantire la necessaria programmazione delle attività di didattica e della gestione ordinaria”. Il passaggio riprende quasi letteralmente quanto previsto dall’art. 1 comma 637 della legge 27/12/2006 n. 296 che contiene le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello stato.

In sintesi. L’art. 78 contiene una prima innovazione rispetto alle norme precedenti: il fabbisogno degli atenei non è incrementato automaticamente del 3% ogni anno come da 296/2006, ma è aumentato in misura pari al tasso di crescita del Pil reale. Il secondo elemento di novità è lo scorporo delle spese per ricerca e investimenti dal calcolo complessivo che permetterà agli atenei “ricchi” di spendere per “investimenti” e “ricerca” il tesoretto accantonato senza rispettare i vincoli del fabbisogno.

Verosimilmente il combinato disposto delle due misure darà luogo a una spinta verso la differenziazione tra atenei: a parità di FFO, verranno liberate risorse per gli atenei con elevata attività progettuale e/o che si trovano un tesoretto accumulato da spendere per investimenti e ricerca (al MEF/MIUR sanno quali sono?). Non è difficile immaginare che gran parte (tutti?) degli atenei in queste condizioni si trovino nel Nord del paese.

E’ anche del tutto probabile che la misura finisca per alimentare ancora il precariato della ricerca. I vincoli assunzionali degli atenei (punti organico) sono definiti da altre norme, e vista la precisazione di cui sopra, appare molto difficile pensare che il regolamento riesca a definire come per ricerca le spese di personale a tempo indeterminato. L’art. 78 permette però di scomputare dal calcolo del fabbisogno le spese per assegni di ricerca (e forse anche le borse di dottorato finanziate su progetti di ateneo) in quanto spese per ricerca. Niente di più probabile che si continui ad alimentare la sostituzione di personale strutturato con personale precario (assegnisti) che può essere assunto senza intaccare le capacità di spesa degli atenei.

L’art. 78 della legge di stabilità appare in perfetta continuità con le politiche universitarie degli ultimi dieci anni: differenziazione territoriale delle università e precarizzazione del personale di ricerca. Non male per un governo sedicente “del cambiamento”.

[1] Al punto 2 ho scritto a regime perché per il 2019 le uniche spese che non concorrono al calcolo del fabbisogno saranno gli investimenti (comma 2), e ci sono anche vincoli per il 2020 (comma 3).nualità.


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