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Tutti i rischi dell'articolo 18 (quella bomba intelligente che può far saltare l Ulivo)

Il centrosinistra diviso sul referendum voluto da Bertinotti. I Ds non daranno indicazioni di voto Tutte le trappole dell'articolo 18 MASSIMO GIANNINI IL referendum sull'articolo 18 è una micci...

29/04/2003
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Il centrosinistra diviso sul referendum voluto da Bertinotti. I Ds non daranno indicazioni di voto
Tutte le trappole dell'articolo 18
MASSIMO GIANNINI
IL referendum sull'articolo 18 è una miccia innescata nel motore dell'economia italiana. Se al voto del 15 giugno vincessero i "sì", la miccia esploderebbe: le tutele contro i licenziamenti senza giusta causa previste dallo Statuto dei lavoratori del 1970 verrebbero estese alle aziende con meno di 15 dipendenti, la macchina della micro-industria nazionale si ingolferebbe e il mercato del lavoro finirebbe paralizzato. Ma quel quesito è soprattutto una "bomba atomica intelligente" lanciata da Fausto Bertinotti nel campo della sinistra. È molto di più di una consultazione popolare sulla difesa di un diritto. È una contesa per l'egemonia culturale, una battaglia per la leadership politica. Con precisione quasi chirurgica, quel diabolico ordigno referendario non disturba in nessun caso il governo e la sua maggioranza. Al contrario, i suoi "effetti collaterali" possono sconvolgere i rapporti di forza nell'opposizione. Possono distruggere definitivamente ciò che resta dell'Ulivo. Possono sovvertire l'attuale dirigenza dei Ds.
Il paradosso è che queste nuove lacerazioni si producono sul tema più nobile, alto e consustanziale alla stessa ragion d'essere della sinistra: il lavoro, nucleo duro di una rappresentanza generale e collante di un'identità condivisa. Un tempo univa, oggi divide.
Berlusconi e il centrodestra si schiereranno formalmente per il no. Ma sostanzialmente non gli dispiacerebbe se vincesse il sì. Il Cavaliere ha un evidente interesse tattico: se la sinistra si radicalizza intorno alla crociata di Rifondazione, lui continuerà per qualche decennio a speculare elettoralmente sull'eterno fattore K. Per l'ennesima volta, Berlusconi e Bertinotti partono dai due estremi dell'arco costituzionale e finiscono per stringere in una tenaglia micidiale le forze riformiste. Anche in questa tornata referendaria la partita decisiva si gioca intorno al raggiungimento del quorum. Se il quorum non ci sarà, al centrosinistra riuscirà almeno in parte la "riduzione del danno". Se il quorum ci sarà, la bomba atomica intelligente avrà effetti rovinosi.
L'Ulivo si avvicina al referendum senza una linea concordata e coesa. Da una parte Verdi e comunisti, ormai sempre meno riconducibili alle logiche di coalizione, seguono Bertinotti sul fronte del sì. Dall'altra parte la Margherita, che finora ha assunto la posizione più netta: "Dal giorno in cui la Consulta ha dato via libera al quesito - è il ragionamento di Francesco Rutelli - noi proponiamo una vera battaglia politica per il no, perché questo referendum uccide le piccole imprese, non crea occupazione e danneggia l'economia". La libertà di voto non ha senso: l'articolo 18 è questione politica, "sulla quale una disciplina di partito, pur non essendo obbligatoria, è comunque opportuna". Per la stessa ragione non ha senso nemmeno l'astensionismo: si può anche scommettere sul quorum mancato, per poi puntare a una legge di riforma delle tutele dei lavoratori che oggi ne sono sprovvisti, ma "solo a valle di una campagna per il no condotta in campo aperto". Questa linea incontra anche l'appoggio di Romano Prodi. Tra i suoi fedelissimi c'è chi si spinge più in là: "Dire no e basta è riduttivo: dobbiamo dire no, ma al tempo stesso sostenere con forza la proposta Ichino-Treu. Questa è una linea forte, che tiene insieme tutti i riformisti".
Per il leader della Margherita è una sfida che vale quella del referendum sulla scala mobile: da una battaglia nata su una spinta fortemente conservatrice (partita dal Pci di Berlinguer) può nascere una svolta autenticamente riformista. Su questa trincea moderata, ha un ampio margine di manovra: tiene aperti i canali del dialogo con un pezzo di Confindustria e con la Confcommercio, trova una sponda nella Cisl e nel mondo cattolico, dove le Acli di Luigi Bobba lavorano per "sabotare" il quesito. Indipendentemente dal quorum, se prevalgono i sì Rutelli perde il referendum, ma vince la partita riformista dentro un centrosinistra destinato ineluttabilmente a una diaspora. Per questo, il quesito può distruggere definitivamente quello che ancora resta dell'Ulivo. Se c'è il quorum e prevalgono i no, Rutelli vince tutto: sposta al centro l'asse dell'Ulivo, e si ripropone come candidato premier anche alle elezioni del 2006. Per questo il quesito può sconvolgere i rapporti di forza nell'opposizione.
In mezzo, come sempre, ci sono i Ds, attraversati dalle frizioni più acute. Oggi si riunirà la segreteria, per una delle decisioni più sofferte in questi 18 mesi di gestione di Piero Fassino. Il partito è spaccato. Non solo tra i sì e i no. Si ingrossa anche il fronte degli astensionisti. Nessuno si sogna di dire agli elettori "il 15 giugno andate al mare": fu un infelice cavallo di battaglia di Bettino Craxi, e non appartiene alla cultura repubblicana e alla tradizione civica della sinistra. In modo più raffinato, cresce il "partitino della scheda bianca": questo referendum è iattura economica e pura ideologia politica, e il modo migliore per neutralizzarlo non è la diserzione dall'urna, ma il non voto. C'è una controindicazione: la scheda bianca fa quorum. O è la posizione di tutto l'Ulivo, e allora ha qualche possibilità di vincere, o è pura dissociazione, e serve solo a far vincere qualcun altro.
Nel solco della modernizzazione tracciato al congresso di Pesaro, anche la Quercia dovrebbe schierarsi per il no, insieme alla Margherita. Ma non lo farà: romperebbe definitivamente con il correntone e compirebbe un altro passo verso la scissione. Così, finirà per ripiegare su una "non scelta": non darà indicazioni di voto agli elettori. Lo farà in modo "dinamico", bocciando lo strumento referendario e rilanciando le proposte di legge sull'estensione delle tutele contro i licenziamenti anche ai co.co.co. e ai lavoratori atipici. Ma questa rischia di apparire comunque come una mossa difensiva, tattica e per niente politica. Tradisce l'imbarazzo di un partito che non sembra più in grado di produrre quello che un tempo si sarebbe definito "un equilibrio più avanzato".
A differenza di Rutelli, Fassino cammina su un sentiero molto stretto. Ha due nervi scoperti a sinistra. Il primo è la Cgil. Guglielmo Epifani al direttivo del 6-7 maggio schiererà il suo sindacato per il sì. Lo farà marcando una differenza profonda rispetto alle ragioni di Bertinotti: "Un sì per le riforme, sarà lo slogan che useremo per rilanciare le proposte di legge per l'estensione delle garanzie ai lavoratori para-subordinati sulle quali la Cgil ha raccolto 5 milioni di firme". Ma dirà sì senza esitazioni. Lo farà perché glielo chiedono "tutte le categorie confederali (non certo solo la Fiom) e quasi tutte le Camere del Lavoro". Lo farà perché è convinto che "tutti i lavoratori italiani vivano anche questo referendum come un'estensione politico-sindacale delle grandi battaglie sulla difesa dei diritti di questi ultimi due anni, a partire dalla marcia dei 3 milioni al Circo Massimo di Roma".
Il secondo nervo scoperto di Fassino si chiama Sergio Cofferati. Il presidente della Fondazione Di Vittorio tiene ancora coperte le sue carte. Tra tutti i protagonisti del conflitto referendario, è forse quello che teme di più la "bomba atomica intelligente" del referendum. Bertinotti l'ha confezionata contro di lui. Ha sfruttato il principio costitutivo intorno al quale l'ex leader della Cgil ha costruito la sua linea di resistenza alle incursioni del governo Berlusconi sul tema della flessibilità: il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa non è una specifica "forma di tutela" disposta dal legislatore, ma "un diritto di civiltà" sancito dalla costituzione materiale. Ma se è così (è l'assunto del referendum di Rifondazione) l'articolo 18 va applicato a tutti i lavoratori in tutte le imprese, senza limiti dimensionali.
Oggi Cofferati è prigioniero di questa contraddizione, che lui stesso ha propiziato e che Bertinotti gli ha rivolto contro, estremizzando con dissennata coerenza una forzatura ideologica. L'impiegato della Pirelli deve marcare a tutti i costi la sua distanza dal leader rifondatore. Ma se dice no al referendum sconfessa i suoi ultimi due anni di gestione della Cgil. Se non dà indicazioni di voto indebolisce la sua immagine, e si appiattisce su Fassino. Coerenza per coerenza, sembra avere una sola possibilità: schierarsi per il sì, sulla scia della "sua" Cgil. È una mossa che presenta rischi: estremizza ancora di più il profilo di un ex sindacalista riformista. Ma presenta anche opportunità: se c'è il quorum e vincono i sì, Cofferati "scippa" la vittoria a Bertinotti. E soprattutto (sia pure su una linea invisa alle coop e al partito dei produttori in Emilia e in Toscana) sfila proprio a Fassino la poltrona di segretario dei Ds, quasi senza bisogno di un congresso straordinario. Per questo il quesito può sovvertire gli attuali equilibri al vertice della Quercia. Se il Cinese ha ambizioni in politica, non può non valutare questo sbocco. Per le ragioni uguali e contrarie, non può ignorarlo neanche Fassino: "Ecco perché, anche se volessi, non posso schierare il partito sul no - spiega in queste ore difficili il leader dei Ds - se c'è il quorum e vince il sì, io perdo tutto".


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