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Scuola e formazione un’apatia colpevole

L’investimento in capitale umano, a maggior ragione in un mondo che verrà ridisegnato profondamente dopo la pandemia, deve essere continuo

06/12/2020
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Corriere della sera

Ferruccio De Bortoli

Se la scuola fosse un’attività economica, avesse un suo fatturato, l’avremmo trattata certamente meglio. Almeno al pari di altri settori colpiti dal virus. Se le ore perdute di lezione si traducessero in una posta di bilancio aziendale, avessero la stessa importanza di un credito bancario in sofferenza o di una commessa perduta, l’allarme sociale suonerebbe forte. Incessante. Invece non è così pur essendo il nostro Paese quello che nell’Ocse (l’organizzazione dell’economie industriali) ha chiuso le scuole più a lungo (18 settimane contro una media di 14). Dell’ultimo Dpcm (acronimo che speriamo il 2021 si porti via) tutto è parso più importante del ritorno alle lezioni in presenza: dal cenone di Natale, al veglione della notte di San Silvestro, alla vacanza sugli sci. E irrilevante la differenza fra «riaprire» (in maggiore sicurezza, soprattutto nei trasporti) il 14 dicembre e il 7 gennaio. Quanto vale un giorno di lezione? Nulla. Dimentichiamoci per un attimo la lunga estate dei banchi a rotelle, l’eccesso di fiducia sulla didattica a distanza, il peso e l’egoismo dei sindacati di settore. E chiediamoci il perché, salvo rare eccezioni, un intero Paese abbia considerato, a differenza di altri, la sospensione delle lezioni il minore dei danni, un sacrificio sopportabile, la scuola — e la formazione in generale — un ramo complementare e dunque minore della vita sociale.

Per continuare con la metafora aziendale (che non ci piace perché la scuola è prima di tutto educazione alla cittadinanza) se gli studenti, le famiglie e gli insegnanti avessero la stessa rilevanza pubblica di altre constituency, consumatori, risparmiatori e azionisti, semplici gruppi d’interesse, non avremmo problemi. Parleremmo del decumulo del capitale umano — la perdita soprattutto in prospettiva di conoscenze e competenze — almeno al pari di quanto si discuta del decumulo di capitale finanziario. Perché non c’è ristoro che tenga per il vuoto di apprendimento che sopportano ragazze e ragazzi cui è stata sottratta una quota delle loro vite sociali. Sono danni che non si riparano, come hanno lucidamente argomentato, su Repubblica, Tito Boeri e Roberto Perotti. Se avessimo piena coscienza di quello che è accaduto forse ci convinceremmo che il benessere futuro, la qualità della cittadinanza, dipendono essenzialmente dalla nostra capacità di migliorare istruzione e formazione.

Un capitale umano superiore aumenta la produttività, senza la quale non vi è crescita. Né economica né morale. E senza un capitale umano di qualità non vi è neanche cittadinanza attiva e responsabile e, nemmeno, una classe dirigente all’altezza delle sfide di un mondo, dopo la pandemia, assai diverso. E ci accingeremmo, dunque, a scrivere il Recovery Plan, per impiegare al meglio sussidi e prestiti comunitari, avendo lo sguardo rivolto alle prossime generazioni. Quelle che stanno già nel titolo Next Generation Eu che chissà perché noi non traduciamo mai. Forse perché concentrati sulle necessità immediate — alcune drammatiche altre assai meno — delle nostre tante corporazioni. I giovani non sono né una corporazione né una lobby. Ma non è una loro colpa. E, se possono, se ne vanno. Votano così. Abbiamo una dispersione scolastica del 13,5 per cento. Oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano: un record in Europa. La didattica a distanza supplisce ma non basta. Anzi, è un elemento che amplia le disuguaglianze. Una famiglia su cinque è priva di connessione ed è di fatto espulsa. Le immatricolazioni universitarie non sono per fortuna precipitate — come era accaduto dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 — anche grazie all’impegno del ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, e di tanti rettori e professori, complice la riduzione della tassazione. Ma è pur vero che molti studenti hanno scelto l’ateneo sotto casa rinunciando alla mobilità interregionale e alla scelta di corsi di qualità migliore. Secondo la ricerca Education at glance 2020, l’Italia destina all’educazione primaria, secondaria e terziaria, il 3,9 per cento del Prodotto interno lordo, una delle percentuali più basse in assoluto. Per la terziaria, cioè l’università, appena lo 0,9 per cento mentre la media Ocse è dell’1,4 per cento.

Si è parlato molto del numero dei docenti — come se i problemi fossero esclusivamente legati all’ampiezza dell’organico — e meno alla loro formazione. «Gli insegnanti italiani — scrive Andrea Gavosto nel libro Il mondo dopo la fine del mondo(Laterza) — hanno dimostrato che se chiamati a un impegno fuori dall’ordinario per il bene degli alunni non si tirano indietro». Verissimo. Sono, in moltissime occasioni, anche le più difficili, encomiabili, vanno ringraziati. «Ma l’altro lato della medaglia — continua Gavosto — è rappresentato dall’arretratezza dei docenti sul fronte della didattica e dell’uso delle tecnologie digitali, che dovrebbero diventare oggetto di formazione obbligatoria». Paolo Sestito, dell’ufficio studi della Banca d’Italia, nelle sue numerose ricerche in materia, ha insistito molto sul tema della valutazione delle scuole e soprattutto della selezione e delle motivazioni del corpo insegnanti, lamentando la progressiva emarginazione di chi ha la responsabilità di formare i futuri professionisti, imprenditori, tecnici, semplici cittadini. È un problema di ruolo, di centralità sociale, non solo di trattamento economico.

Ma la scuola e l’università non bastano. L’investimento in capitale umano — a maggior ragione in un mondo che verrà profondamente ridisegnato dopo la pandemia — deve essere continuo. Senza interruzioni. Secondo lo studio The future of job, il futuro del lavoro, del World Economic Forum, il 50 per cento dell’attuale forza lavoro dovrà essere riqualificata. Da qui al 2025 si creeranno, nei 26 Paesi osservati, 97 milioni di posti di lavoro ma se ne perderanno 85, soprattutto quelli più ripetitivi e a minor valore aggiunto, anche per il forte impulso alla digitalizzazione, alla robotica, all’intelligenza artificiale.

Il nostro Paese, dal punto di vista della formazione continua, nella manutenzione delle competenze, è ugualmente agli ultimi posti nell’Ocse. Solo un lavoratore su cinque ha accesso a un programma di formazione. In Danimarca sei su dieci. «Non è solo un problema di risorse — commenta Stefano Scarpetta, direttore per il Lavoro e gli Affari sociali dell’Ocse — ma di cultura generale. Sentirsi dire che si ha bisogno di formazione non equivale a un giudizio di inadeguatezza professionale. È una forma di rispetto semmai. La struttura economica italiana, fatta perlopiù di piccole aziende, non favorisce l’investimento in formazione. Molte imprese sono refrattarie. E spesso chi ne ha più bisogno, e non sono i più giovani, ne riceve di meno o semplicemente nulla». La Francia investe in formazione 35 miliardi l’anno. Ha creato dei «conti personali di formazione». Fondi individuali. Si fa leva sulla necessità del singolo lavoratore di migliorare la propria posizione. Si offrono delle opportunità di orientamento nella scelta del programma formativo. La differenza, rispetto al mondo pre Covid, è che la finestra di tempo per cogliere l’opportunità di riqualificare, difendendolo, il lavoro si è drammaticamente ristretta. I posti si creano e si difendono di più investendo sulle conoscenze dei lavoratori, avendo cura, in definitiva della loro dignità, non solo del loro reddito. Trattandoli come cittadini responsabili, senza ingannarli con false promesse.


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