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Scrivere non serve più?

di Benedetto Vertecchi

14/10/2015
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Scrivere non serve più?

Quando si affrontano questioni cruciali per l’evoluzione del quadro culturale (ed è tale senza dubbio il confronto attorno al ruolo del linguaggio scritto nelle società ad alto livello di sviluppo economico) si corre sempre il rischio di anticipare le conclusioni riconoscendo un valore dimostrativo a congetture non dimostrate. Se ciò accade, si è di fronte a un errore che può considerarsi la conseguenza delle conclusioni affrettate alle quali si giunge quando si ricavano inferenze improprie o indebite dall’osservazione di aspetti limitati della realtà.

Ma a conclusioni improprie si può giungere se si lasciano manifestare stati d’animo che, in un modo o nell’altro, in forma diretta o indiretta, si collegano più a ciò che suscita una qualche emotività che al risultato di analisi volte a stabilire la reale consistenza dei fenomeni. Le impressioni del momento diventano il punto di partenza di proposizioni generalizzanti (che per lo più hanno un carattere abduttivo) che hanno il solo effetto, dal punto di vista della conoscenza dei fenomeni indagati, di distrarre dal considerare quale potrà essere nel medio e lungo periodo la loro reale incidenza sui profili culturali delle popolazioni. Uso il plurale, e parlo di popolazioni invece di riferirmi alla sola popolazione del nostro Paese, per la buona ragione che i fenomeni in atto si presentano, anche se in misure diverse, nella quali totalità dei paesi industrializzati. È vero, tuttavia, che alcune linee di trasformazione dei profili culturali hanno in Italia maggiore consistenza e, soprattutto, sono lasciate crescere senza che si manifestino apprezzabili tentativi di orientare lo sviluppo dell’educazione in altre direzioni.

È il caso dell’uso della lingua scritta. Non si tratta di vestire la toga del laudator temporis acti, né di bruciare un rituale granello d’incenso sull’altare delle rilevazioni Ocse. Anzi, è vero il contrario. Siamo di fronte a fenomeni che sembrano non essere rilevati dello strumentario dell’Ocse. Sono tali, in primo luogo, i fenomeni che si collegano al ridursi dell’uso del linguaggio scritto e, parallelamente, al diminuire della lettura, all’impoverimento del lessico disponibile, alla banalizzazione delle forme dell’argomentazione. In breve, se il quadro fosse quello che si ricava dai rapporti dell’Ocse, si tratterebbe solo di rilevare la modestia dei risultati ottenuti attraverso l’educazione formale (ossia quella impartita dalle scuole), mentre se si ammettesse la rilevanza di aspetti che sfuggono alla considerazione dell’Ocse, ma che non si può non prendere in considerazione se si vuol capire quale sia l’evoluzione in atto nei sistemi educativi e quali i suoi possibili esiti, arriveremmo a conclusioni molto più dense di implicazioni circa l’orientamento da imprimere alle decisioni educative. È del tutto inadeguato (e, vorrei dire, poco utile) rilevare e comparare i livelli di competenza raggiunti dagli allievi di un certo numero di paesi, mentre ci si dovrebbe preoccupare non solo di ciò che accade dentro le scuole, ma - forse ancora di più - di ciò che accade intorno alle scuole.

C’è bisogno di uscire dagli steccati delle considerazioni anguste degli esiti dell’educazione, che finora hanno fornito argomenti per distrarre l’interpretazione dei fenomeni educativi alla considerazione di una causalità complessa, e cercare nelle condizioni della vita quotidiana i segni del mutamento in atto. Non c’è fretta di sciogliersi in lamentazioni; è urgente, invece, capire quale sia la direzione dei cambiamenti in atto, che cosa sia compatibile con un disegno generale dell’educazione che, almeno a parole, sembra essere condiviso (è il disegno che in una parola possiamo considerare fondato sull’equità) e che cosa richieda decisioni che sono, in senso lato, politiche. Delle due, una: o si ritiene che il dominio della lingua scritta sia qualcosa d’importante e di necessario per l’intera popolazione, oppure se ne riconosce la rilevanza solo per gruppi determinati. In questo secondo caso, la capacità di usare la lingua scritta diventa un fattore di divisione sociale.

L’educazione scolastica, così come oggi la intendiamo, è nata cinquecento anni fa, e si può essere più precisi: è nata la vigilia di Ognissanti del 1517, il giorno in cui Lutero ha affisso le sue tesi alla porta della Cattedrale di Wittenberg. Vi si sosteneva, tra molte altre cose, il principio del libero esame, ossia del diritto-dovere dei cristiani (di tutti i cristiani) di leggere e interpretare liberamente la Bibbia. In un quadro di generale analfabetismo, questa indicazione è diventata parte di un sentire diffuso. Proprio dalla condivisione del principio, le aree d’Europa nelle quali si era affermata la Riforma religiosa hanno conosciuto un profondo cambiamento nel profilo culturale delle popolazioni: realizzare le condizioni perché tutti potessero acquisire il repertorio di simboli necessari per usare la lingua scritta è stato considerato nulla più che un problema al quale occorreva dare soluzione sul piano didattico. Nei cinquecento anni trascorsi, in cui nei paesi di cultura europea (quindi anche in vaste aree fuori d’Europa) si è assistito a una generale estensione dell’alfabetismo, non più solo per soddisfare esigenze immateriali, ma spesso per la spinta delle trasformazioni che intervenivano negli assetti politico-sociali e in quelli produttivi, si è potuto costatare che da un punto di vista educativo il problema didattico poteva avere molte soluzioni.

Oggi ci si trova di fronte a difficoltà che solo pochi anni fa sarebbero state considerate del tutto improbabili. Già dopo due o tre anni dall’inizio del percorso scolastico, che vede la rapida acquisizione da parte della grande maggioranza dei bambini della capacità di leggere e scrivere, si osservano segnali regressivi, dei quali il più evidente è una difficoltà tecnica nella scrittura manuale alla quale corrispondono altre difficoltà che investono aspetti importanti della competenza linguistica, come l’acquisizione di un lessico ampio, capace di esprimere un pensiero di crescente complessità, la correttezza grammaticale e quella sintattica. A questi segnali regressivi è stata data per lo più un’interpretazione solo interna alla scuola, anche a costo di considerarli espressioni di stati patologici che, malgrado l’innegabile miglioramento delle condizioni di esistenza, colpirebbero oggi frazioni consistenti della popolazione nell’età dello sviluppo. Ma la medicalizzazione delle difficoltà che si collegano all’acquisizione di capacità alfabetiche non solo non le risolve (mi riferisco, come è evidente, all’insieme della popolazione), ma ne favorisce la diffusione ulteriore. La questione va affrontata da un altro punto di vista, che consideri non solo l’attività delle scuole, ma tenga conto prioritariamente degli atteggiamenti sociali nei confronti dell’alfabetismo e delle pratiche che ad esso si collegano, a cominciare dalla scrittura.

Per questa ragione, nell’Invito alla ricerca, il primo passo consiste nell’osservazione di aspetti e di pratiche dipendenti dall’alfabetizzazione nelle condizioni della vita quotidiana. Le tracce di attività sono reperibili, insieme ad una strumentazione essenziale, all’indirizzo https://lps.uniroma3.it/2015/10/13/13-ottobre-2015-questa-non-e-una-mela-lapparente-e-il-reale/.


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