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Riformista: A proposito di un articolo di Perotti

Università Alessandro Figà Talamanca

05/12/2006
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Il Riformista

Quei paragoni con l'estero fatti a uso degli amici
Nella comparazione tra il sistema italiano e quello britannico i dati sono strumentalizzati per dimostrare una propria tesi preconfezionata

Finalmente, le «sacre scritture» più volte citate negli articoli di Giavazzi, Alesina e altri economisti, che dichiarano irrimediabile la condizione dell'università italiana, e suggeriscono al governo di tagliarne i finanziamenti, sono disponibili a tutti. Lo stesso “Profeta”, autore delle «sacre scritture», il citatissimo professor Roberto Perotti, ne ha pubblicato una versione aggiornata, avendo a disposizione un'intera pagina del Sole24Ore del 30 novembre. Si può ora discutere, in qualche dettaglio, una fonte acriticamente invocata come certa e inoppugnabile, dai teologi del Dio Mercato che continuano a dominare le pagine dei grandi quotidiani sui problemi dell'università. Si può finalmente osservare che l'articolo di Perotti è un esempio da manuale di come dati statistici apparentemente obiettivi possano essere messi al servizio di una tesi preconcetta.
La tesi di Perotti è che il sistema universitario britannico è molto più efficiente e produttivo di quello italiano, come testimoniato dalla spesa media per studente e dal rapporto studenti/docenti nei due paesi.
Che dire innanzitutto di questa tesi? Io penso che ci sia moltissimo da imparare dall'esperienza inglese nelle politiche dell'istruzione superiore, e in particolare dalla loro capacità di adottare politiche coraggiose e di analizzarne gli effetti per correggerne il tiro, anche radicalmente. Tuttavia un confronto diretto tra i sistemi universitari dei due paesi sulla base di dati grossolani non ha proprio senso. In Gran Bretagna il sistema universitario è, per la metà circa, costituito da università, che sono nate come istituzioni parauniversitarie, dove ai docenti non veniva nemmeno chiesto di impegnarsi nella ricerca. In molti casi l'istruzione fornita da queste istituzioni non era di livello molto diverso da quello che era offerto dai nostri migliori istituti tecnici. Il grande e interessantissimo esperimento inglese di valutazione della ricerca scientifica che va sotto il nome di Rae (Research assessment exercises) ha avuto principalmente l'effetto di ribadire la distinzione tra università di serie A e università di serie B, dopo che, nel 1992, tutte le istituzioni parauniversitarie erano state formalmente promosse al rango di università. In Italia, questa distinzione è impossibile, come ha testimoniato il nostro esperimento di valutazione della ricerca, che imita quello inglese, e che si è concluso quasi un anno fa. Le nostre valutazioni hanno confermato che ricerca ritenuta «eccellente» si svolge, in ogni area, in tutte le grandi e medie sedi universitarie.
Vediamo invece come il professor Perotti riesce a utilizzare dati molto grossolani per sostenere la sua tesi. Il primo dato è il rapporto tra studenti dei corsi di laurea (esclusi gli studenti laureati) e i docenti di ruolo. I numeri così ottenuti, però, non gli danno ragione. Ci sarebbero 20 studenti per docente in gran Bretagna e 30 in Italia. Giustamente, Perotti osserva che in Italia tra gli studenti vengono contati i fuori corso, che dovrebbero pesare meno in termini di impegno didattico. Introduce quindi il parametro di studente «equivalente a tempo pieno» (etp). Per la Gran Bretagna questo significa contare gli studenti dichiaratamente a tempo parziale in proporzione al loro impegno. In Italia, invece, sono considerati a tempo parziale tutti gli studenti in ritardo con gli studi, in proporzione al ritardo. In pratica, tutti gli studenti italiani sono considerati in diversa misura come studenti a tempo parziale.
Il divario tra lunghezza legale e lunghezza effettiva degli studi universitari è uno dei difetti gravi del nostro sistema, che la riforma universitaria si proponeva di correggere, e in parte ha corretto. L'assurdo era, ed è, che proprio per uno studente a tempo pieno risultava impossibile completare il corso di laurea nei tempi ufficialmente previsti. Giustamente il ministero ha introdotto, attraverso il parametro utilizzato da Perotti, una misura di questa stortura, per aiutarne la correzione, ma è una vera forzatura utilizzare questa misura per un confronto internazionale, perché molti degli studenti ritardatari sono invece effettivi studenti a tempo pieno secondo gli standard internazionali. Tuttavia nemmeno questa forzatura dei dati è sufficiente al professor Perotti per raggiungere il suo obiettivo. Anche in termini di studenti etp il rapporto studenti/docenti di ruolo risulta lo stesso nei due paesi: 15 per la Gran Bretagna, 14,9 per l'Italia. È a questo punto che Perotti è costretto, per sostenere la sua tesi, a cambiare i denominatori dei rapporti. Si aggiungono ai docenti permanenti delle università inglesi i docenti che non hanno un contratto a tempo indeterminato, e ai docenti delle università italiane i «docenti a contratto» e altre figure minori, infine ai dati sui docenti inglesi si sottraggono i non meglio determinati «docenti impegnati solo nella ricerca». A questo punto, finalmente, i dati rispondono alle aspettative del professor Perotti, il rapporto studenti/docenti scende a 9,7 per la Gran Bretagna e a 7,5 per l'Italia.
Ma chi sono i «docenti a contratto» italiani che Perotti ha introdotto nel denominatore? Nelle università statali (a quelle non statali si applica invece uno speciale codicillo) sono esperti, rigorosamente esterni ai ruoli universitari, che, di regola, non sono titolari di un insegnamento ufficiale, ma sono invitati a presentare aspetti particolari, spesso applicativi, della materia insegnata. Alle loro lezioni, che si riducono a poche ore, assiste, normalmente, anche il titolare dell'insegnamento. Aggiungere queste figure al totale dei docenti universitari italiani non ha senso ai fini comparativi, ma era assolutamente necessario per dimostrare la tesi di Perotti, e cioè che i docenti universitari italiani sono troppi. In realtà il professor Perotti non manca di rilevare (con argomenti sbagliati) che l'inclusione dei docenti a contratto nel totale dei docenti italiani dà luogo a una sovrastima del numero dei docenti, ma si guarda bene dal parlarne quando tratta del rapporto studenti/docenti. Lo nota invece, confidando nella disattenzione del lettore, quando scopre che nonostante l'uso improprio, come vedremo, di un tasso di cambio artificioso, il costo medio di un docente italiano risulterebbe inferiore a quello di un docente inglese.
La seconda tesi di Perotti è che in Italia la spesa per studente universitario è superiore (o almeno non troppo diversa) dalla spesa nel Regno Unito. Sembrerebbe naturale a un ignaro lettore di giornali, paragonare le due spese, in euro e in sterline, utilizzando il cambio ufficiale. Perotti, invece, astutamente introduce un'altra unità di misura il cosiddetto «Ppp (Purchasing power parities) dollar» che tiene conto del diverso costo della vita nei due paesi. Paragoni internazionali che utilizzano questa variabile hanno certamente senso se si vogliono confrontare i livelli di consumo delle famiglie, la distribuzione del reddito disponibile, i livelli di povertà, o i salari netti. Non ha senso invece utilizzare questa variabile per paragonare la spesa sostenuta dalle università per sostenere il servizio didattico. Cosa c'entra il prezzo del pane o del latte, o comunque il “paniere” delle spese prevalenti nelle famiglie, con le spese che deve affrontare una sede universitaria?
Per fare un esempio, nel determinare il Pppdollar non si tiene certamente conto del costo del lavoro a parità di salario netto, che in Italia, in virtù di un maggiore cuneo fiscale è superiore a quello di altri paesi. Eppure il costo del lavoro al lordo delle tasse e contributi è un elemento determinante nelle spese per una attività «labour intensive» come è quella didattica. Il buffo è che nonostante la forzatura di scegliere le due variabili addomesticate del “Ppp dollar” e dello studente Etp, la spesa media per studente (non laureato) in Gran Bretagna, risulta del 27% superiore a quella italiana. Nel Regno Unito si spendono 4.200 “Ppp dollar” in più per ogni studente Etp. Calcolando le percentuali a scalare, come astutamente fa il professor Perotti, il divario scende al 20%. Tanto basta per far proclamare a Perotti che si tratta di un «divario non drammatico».
V'è un'altra interessante omissione che deve esse rilevata. Il professor Perotti non può non ricordare che nel suo scritto originario, che utilizza i dati del 1999-2000, la spesa media per studente italiano, calcolata sempre in termini di studenti Etp e di “Ppp dollari” era molto superiore alla spesa per studente inglese. Dal 2000 al 2004 la spesa media per studente Etp (non laureato) in Italia è scesa da 16.854 a 15.400 “Ppp dollar”, mentre, calcolata allo stesso modo, in Gran Bretagna è cresciuta da 12.435 a 19.600 “Ppp dollar”. Si sono invertite in termini di percentuali le posizioni dell'Italia e della Gran Bretagna. Per chi, come me, non crede a queste stime grossolane, queste variazioni non hanno molto significato. Come è possibile tuttavia che il professor Perotti, che sembra credere a queste stime, non abbia concluso dai suoi stessi dati che l'università italiana è avviata a un luminoso futuro avendo superato il sistema inglese in termini di efficienza?
Dobbiamo alla fine chiederci come sia possibile che uno stimato economista si dedichi a simili equilibrismi con dati statistici non sufficientemente disaggregati. Come è possibile che altri stimati studiosi lo citino acriticamente? La risposta, io credo, è nelle passioni suscitate nel professor Perotti e negli altri professori che scrivono sull'università, dal vero problema che sta loro a cuore, che non sono le sorti degli studenti o del Paese, ma piuttosto l'esito dei concorsi a cattedra nelle loro discipline. Per questo dobbiamo esser grati al professor Perotti, che non si è limitato, come molti suoi colleghi, a pochi accenni al problema che gli sta veramente a cuore, ma ha pubblicato nella pagina messagli a disposizione dal Sole24ore un piccolo saggio sulle beghe concorsuali del suo settore disciplinare. Uno scritto incomprensibile, credo, alla maggioranza dei lettori, me compreso, che testimonia però dove batte il cuore dell'autore. Se il cuore batte sulle beghe concorsuali, sui contrasti tra scuole diverse, sulle «capre» o gli «asini» che vengono promossi, scavalcando i nostri allievi, i nostri amici o noi stessi, non si può guardare con occhio equanime il sistema universitario. Il problema delle promozioni di quarantenni o cinquantenni che già insegnano nelle università è importantissimo per i diretti interessati, le loro famiglie, i loro amici e i loro sostenitori, ma è di scarso rilievo per l'università, la ricerca e gli studenti.

Università La Sapienza di Roma


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