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Ricerca, il tesoretto segreto non c’è

di Elena Cattaneo

08/02/2017
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Corriere della sera

C aro direttore, sostenere che le università e gli enti di ricerca pubblici italiani, che ogni giorno piangerebbero miseria, hanno accesso ad un «tesoro segreto» di 4,5 miliardi di euro, costituito dalla liquidità disponibile nei loro conti bancari, è fuorviante. Il dato della liquidità di ciascun ente è privo di senso se non si specifica se, e in che misura, essa sia già impegnata per progetti di ricerca e se — ad esempio — non vadano sottratti gli accantonamenti obbligatori per legge. Tacendo dell’entità della quota vincolata si lascia intendere che tutti gli enti, chi più chi meno, ricevano troppi soldi dallo Stato e siano portati a generare «tesoretti». Invece, non è così, di tesoretto a ben vedere ce n’è per un solo ente. Vediamo i dati.

Prendiamo il caso del Cnr, primo in classifica — secondo l’articolo del Corriere — fra gli enti di ricerca per disponibilità liquide: i 456.885.203 di euro in cassa sono formati per 416.976.764 dai Tfr dei dipendenti, inclusi nel bilancio del loro ente che agisce da sostituto d’imposta come prevede la legge. Non è come il caso dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) che, come ormai noto, ha accantonato 452.202.000 (a cui si aggiungono le risorse ex-Iri, equivalenti a 128 milioni di euro finite nelle casse di Iit invece che per il potenziamento della rete nazionale della ricerca) per il sovradimensionamento delle risorse pubbliche di cui è da oltre un decennio beneficiario. Cifra, che a differenza di quanto scritto, non deriva solo dalla fase iniziale di startup, ma da un metodico accantonamento del surplus dei trasferimenti, come risulta nell’aumento della liquidità disponibile nei suoi conti bancari per una cifra media di 20 milioni euro/anno, almeno a partire dal 2006. Come metro di paragone ricordo che i progetti Prin per la ricerca libera su tutte le discipline hanno avuto, dopo anni di blocco, dallo Stato 100 milioni su tre anni.

Prendiamo il bilancio del terzo in classifica per liquidità, l’Infn, pari a 351.985.857 di euro. Come scrive la Corte dei conti nella sua relazione di monitoraggio, tale somma è sostanzialmente tutta impegnata per attività pluriennale (deriva infatti da bandi competitivi per progetti finanziati ai bravi ricercatori dell’Istituto). Come evidenziato dalla Corte, ad esempio per il 2015, avanzano solo cifre molto piccole — nel caso citato 8 milioni — che servono ad un ente della dimensione di Infn a fronteggiare rischi, oneri e imprevisti.

La musica non cambia se guardiamo alla disponibilità degli atenei, per quanto riguarda l’università di Milano, di cui ho diretta conoscenza. A proposito del suo avanzo di amministrazione 2015, scrive l’università nella nota integrativa al bilancio: «Si ricorda che il cda nella seduta del 23 febbraio 2016 ha approvato una prima destinazione dell’avanzo ad utilizzazione vincolata per 305.467.561,86 euro. Tenuto conto che l’avanzo d’esercizio è stato determinato in 353.217.959,88 euro, il Consiglio è chiamato a deliberare sull’assegnazione della restante quota di 41.750.398,02 euro, escluso il fondo di riserva pari a 5 milioni». Ovvero, avendo riscontrato un avanzo di cassa superiore a quanto previsto e già impegnato per ricerca, stipendi e altri tipi di spesa nel 2016, l’università destina subito a scopo utile la differenza, impegnandola ad esempio per interventi di edilizia e di recupero e messa a norma del patrimonio edilizio in gran parte storico, e non a trasferirla in un conto bancario dove giacerà per anni inutilizzata. Scrivere infine che la crisi del governo Renzi, forse salvando i fondi del tesoretto Iit, «in realtà ha salvato tutto il mondo della ricerca perché, come un domino, il caso si sarebbe dovuto scaricare sugli altri» è dunque pura fantasia. A meno che non si pensi, seriamente, che si possa sottrarre il Tfr ai dipendenti, o cancellare impegni presi su progetti pluriennali di ricerca.

Docente alla Statale

di Milano e Senatore a vita


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