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Repubblica-Se la lingua ci fa male. di Tullio De Mauro

SE LA LINGUA CI FA MALE Un convegno a bruxelles per discutere dell'italiano Già Croce e poi Gramsci avvertirono che queste diatribe denunciano un disagio Torna di frequent l'allarme per l'idi...

14/07/2003
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la Repubblica

SE LA LINGUA CI FA MALE
Un convegno a bruxelles per discutere dell'italiano

Già Croce e poi Gramsci avvertirono che queste diatribe denunciano un disagio
Torna di frequent l'allarme per l'idioma gentile insidiato dalle parole straniere
I numeri dicono che non c'è motivo di aver timore ma forse il problema è di natura sociale, non linguistica
L'Accademia degli Incamminati di Marzeno ha addirittura stilato un manifesto
TULLIO DE MAURO

"Identità e diversità nella lingua e letteratura italiana" è il titolo di un convegno che si terrà - da domani a sabato 19 - tra Lovanio, Louvain-la-Neuve, Anversa e Bruxelles. I temi in discussione sono di grande attualità, come il rapporto tra l'italiano e l'inglese, la posizione dell'italiano in Europa e nel mondo, lo stato di salute dell'insegnamento dell'italiano all'estero, gli atteggiamenti verso la lingua nazionale e i dialetti. Tra gli invitati, Antonio Tabucchi e Erri de Luca, il presidente dell'Accademia della Crusca Francesco Sabatini, Umberto Eco, Claudio Magris, Cesare Segre e , che ha scritto questo articolo per noi. Una trasmissione radiofonica che, in verità, si chiama "Zapping", ha lanciato in queste settimane una serie di trasmissioni intitolata "Salviamo la lingua italiana": salviamola, pare, dai troppi anglicismi che sono usati a dritto e rovescio e spesso con cattiva pronunzia. Tema antico. A parte le sciocchezze fascistiche, già nel 1977 il compianto e a torto dimenticato Giacomo Elliot pubblicò presso Rizzoli un divertente e preciso Parliamo itangliano, che ebbe l'onore di una bella recensione accorata di Primo Levi e che qualche anno fa Roberto Vacca ha recuperato e attualizzato per Einaudi sotto il titolo ironico di Consigli a un giovane manager. Ma già nel 1977 Elliot proponeva "le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera" e si giustificava: "Quando Agnelli parla con Pirelli parla itangliano".
Tema antico, che nelle ultime stagioni però ricorre di continuo, in proteste corali o individuali di scrittori, giornalisti, parlamentari e ora perfino di cardinali della Chiesa di Roma. Si veda da ultimo (o quasi) il "Manifesto agli italiani per l'italiano", redatto dall'Accademia degli Incamminati di Marzeno (presso Ravenna) presieduta da Pier Ferdinando Casini. Il primo firmatario è Giulio Andreotti e le altre firme, tra cui due di cardinali, sono degne di altrettanto rispetto. A parte qualche virgola fuori posto e un paio di mende di stile (cose che capitano in testi collettivi), il manifesto è pieno di buon senso, specie rispetto ad altre dichiarazioni in materia formulate in modo assai più esagitato. Si desidera il buon uso dell'italiano, ma non si proscrivono le lingue straniere né tanto meno le persistenze dei dialetti (vivi ancor oggi per il 60% della popolazione, informa l'ISTAT). Si condanna l'uso snobistico di parole inglesi o l'uso in nomi di istituzioni, come il ministero del Welfare, ma non l'uso che venga a colmare lacune. Si invoca l'opera di scuole, pubblici uffici, mezzi di informazione per offrire buoni esempi. Si loda il presidente Ciampi per i suoi ripetuti richiami al valore sociale e nazionale del possesso della lingua. E si ricorda che "nella lingua si ritrovano i valori umani ed etici che caratterizzano l'identità nazionale d'un popolo".
E' difficile non sottoscrivere tante di queste affermazioni, che sono così giuste ed equilibrate da poter parere ovvie. Ma, allora, perché formularle in modo così solenne? E perché l'infittirsi di appelli per la buona lingua? Non è inutile o sospetto tutto questo, come pensano alcuni specialisti di linguistica?
Credo che la risposta a questi interrogativi vada cercata in vecchi testi. Nelle più che secolari Tesi per un'estetica Benedetto Croce avvertiva che discussioni e proposte in materia di lingua erano da prendere sul serio non per la loro coerenza teorica e scientifica, spesso deficiente, ma perché manifestavano (scriveva) "esigenze unitarie e democratiche". Ho già altra volta segnalato che è uno dei rarissimi passi crociani in cui l'aggettivo "democratico" è usato in modo positivo e simpatetico (e, in effetti, sparve poi nella ripresa del testo che Croce fece nell'Estetica). Trent'anni più tardi Antonio Gramsci era ancora più deciso: le questioni linguistiche non sono oziose, perché attestano che si stanno ponendo "altri problemi", problemi di rapporto tra le classi di un paese, problemi di politica e di egemonia.
Letti con questi riferimenti, appelli e proteste forse acquistano più senso. Chi li formula appartiene al ceto dei più istruiti, a quello che il prete di Calenzano e Barbiana, don Lorenzo Milani, chiamava ironicamente il PIL, Partito Italiano Laureati. Fuori della Toscana e, in parte, di Roma questo ceto è stato fino alla metà del Novecento il depositario esclusivo non della buona o cattiva, ma della lingua italiana intera. Sapevano usare l'italiano, specie nello scrivere o in occasioni solenni, tra il 15 e (al massimo) il 30 per cento degli italiani: toscani, un po' di romani, laureati e diplomati di buona famiglia. L'italiano si imparava a scuola. E poiché il 59,2% della popolazione era privo anche della sola licenza elementare, a questa parte, per parlare, restava solo l'uso obbligatorio di uno dei tanti dialetti. Oppure restava il tacere.
So che questi numeri infastidiscono. Ma a me pare che non capiamo che cosa è successo e sta succedendo se li dimentichiamo. C'è stata per le classi giovani una grande corsa all'istruzione, che, con la lentezza dei grandi fenomeni demografici (come cercò di spiegare Paolo Sylos Labini), va sedimentando i suoi risultati nell'intera popolazione. Ragazze e ragazzi da anni completano quasi tutti la scuola di base, raggiungono ora per tre quarti il diploma, per metà premono, magari venendo da famiglie senza o con assai poca scuola, alle sacre porte dell'università. Nell'intera popolazione i senza scuola, no-schoolings dicono gli esperti, sono ormai una percentuale esigua. Laureati e diplomati si avviano a pareggiare le percentuali raggiunte in Europa da decenni. Le enormi migrazioni dal Veneto e dal Sud verso i grandi centri hanno sconvolto le basi secolari della dialettofonia esclusiva. Infine, la televisione, un mezzo rutilante, seducente e a basso costo, ha portato informazione, spettacoli e (guarda un po') conoscenze perfino scientifiche all'intera popolazione. E lo ha fatto in italiano e l'italiano ha fatto ascoltare dove mai aveva risuonato.
Il risultato attuale è che (ci dicono ISTAT e DOXA) più di nove italiani su dieci parlano italiano e i sei su dieci che usano ancora un dialetto lo fanno come alternativa possibile tra amici, non per obbligo secolare.
C'è stata una hidden revolution, come fu quella della stampa: una rivoluzione nascosta. Non bisogna più essere fiorentini o laureati: anche molti altri sono diventati depositari della lingua e padroni degli accessi che dà un accettabile parlare.
Della buona lingua? Non credo. Buona lingua, specie nel caso di una lingua antica e internamente plurima come l'italiano, presuppone, per non andar lontano, buone letture. E questo, per la nostra comunità nazionale, senza annoiare con altri numeri, è ancora un vero ponte dell'asino. E buon italiano presuppone anche, come insegnavano Manzoni e Leopardi, una buona conoscenza di lingue straniere e in più, nei particolari casi dell'italiano e dell'inglese, una buona familiarità col latino: e qui non c'è nemmeno un ponte, ma un baratro.
Forse però un numero almeno va dato: solo il 10% delle famiglie spende in un anno qualche euro per libri non scolastici; e solo il 6% mette piede in una biblioteca. La lettura non ha sorretto la scuola e il cammino verso l'italiano. Cadute e guasti nello stile sono inevitabili, tanto più dinanzi ai bisogni di comunicazione in e di una società complessa, mobile, che richiede un possesso dei mezzi espressivi molto superiore a quello della statica società a base agricola di mezzo secolo fa. Qualche bacchettata all'annunciatrice che, attonita, legge sul gobbo che "i cipressi di Bolghèri si sono ammalati" non risolve i nostri problemi. Ci serve, come Croce insegnava, una crescita del possesso diffuso di mezzi intellettuali, più libri, più giornali, più scuola secondaria superiore e corsi per adulti, come nella restante Europa. E meno rimpianti per un tempo che fu, piacevole per pochi assai.


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