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Repubblica-Resta un segno incancellabile

LA GUERRA è finita. O quasi. E gli italiani, dopo mesi di vigilia e poche settimane di guerra provano a convincersi che siamo entrati nel dopoguerra. Così il clima d'opinione cambia. Tende a normali...

20/04/2003
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la Repubblica

LA GUERRA è finita. O quasi. E gli italiani, dopo mesi di vigilia e poche settimane di guerra provano a convincersi che siamo entrati nel dopoguerra. Così il clima d'opinione cambia. Tende a normalizzarsi. Le paure sfumano. Gli antagonismi si stemperano. Il senso di precarietà ripiega. La spinta propulsiva al movimento e alla mobilitazione rallenta. Ma non è, non sarà più come prima. Della guerraLa società italiana è cambiata, nel corso dell'ultimo anno, degli ultimi mesi. E il segno del cambiamento ha lasciato, lascerà, segni indelebili.
L'opposizione all'intervento militare in Iraq. Si riduce sensibilmente. Oggi coinvolge il 60% degli italiani. Oltre il 15% in meno rispetto a fine marzo, a guerra iniziata; quasi il 30% in meno rispetto a febbraio, quando ancora si discuteva, a livello internazionale, se e in che modo intervenire.
La paura, il pessimismo circa gli effetti della guerra sulla nostra sicurezza e sulla nostra economia: si ridimensionano drasticamente. Così, cambia segno la lettura delle conseguenze della guerra sul teatro Medio-orientale. Cresce sensibilmente il peso di quanti credono che l'intervento militare favorirà l'avvento di un regime democratico in Iraq, produrrà maggiore stabilità nell'area. E garantirà un'ampia disponibilità di petrolio nel mondo. Mentre l'inquietudine per il terrorismo resta elevata. La guerra è (quasi) superata. E gli italiani sono disponibili (in parte costretti) ad accettare l'idea che lo scenario emerso ha contorni meno grigi del previsto e del temuto. Da ciò la migliore percezione degli Usa. Da febbraio ad oggi la quota degli italiani che esprimono fiducia nei loro confronti è risalita sensibilmente: dal 28% al 41%.
La maggioranza degli intervistati, inoltre, si dice d'accordo sulla partecipazione dell'Italia, con mezzi e uomini propri, all'azione di sostegno assistenziale e umanitario alla popolazione irakena. Con o senza l'Onu.
Anche la protesta sociale, la partecipazione e la disponibilità a mobilitarsi, hanno ridotto la loro pressione, nelle ultime settimane. Vi sono componenti sociali (consistenti fra le persone politicamente più "incerte") che, finita l'emergenza, insieme a sollievo, hanno provato stanchezza nei confronti della protesta continua di questi mesi. Hanno voglia di quiete. Di normalità.
Tuttavia, le tracce lasciate dal lungo, intenso periodo che ha preparato e accompagnato l'intervento in Iraq, si colgono ancora, marcate e profonde. E' difficile credere che il tempo le possa cancellare.
Il giudizio sulla guerra in Iraq. Resta negativo, per una larga maggioranza di italiani: sei su dieci. Inoltre, più di nove persone su dieci non vogliono altre guerre. Auspicano, cioè, che gli Usa concludano la campagna militare contro gli Stati-canaglia. Un sentimento magari prevedibile, ma che sottolinea come l'esempio dell'Iraq non abbia generato consenso alla dottrina della "guerra preventiva". Nonostante l'intervento degli Usa abbia dissolto il regime di Saddam, favorendo l'avvio della democrazia. Peraltro, l'assenza di prove certe sulla sorte di Saddam e la sua mancata cattura, per una parte significativa degli italiani (intervistati), costituiscono un limite, che pesa sulla valutazione complessiva della guerra. D'altronde, la gestione mediatica di questo conflitto ha contribuito a "personalizzare" le posizioni in campo, riassumendole in alcune contese individuali: Bush contro l'OPM (Opinione Pubblica Mondiale); e, naturalmente, prima di tutto, Bush contro Saddam. Allo stesso modo, in vista dell'intervento militare in Afghanistan, l'esito dell'operazione era stato riassunto nella caccia a Bin Laden. Vivo o morto. Non saperlo né vederlo "vivo o morto", ha viziato il giudizio circa l'esito della "guerra mediatica". Importante, ormai, quasi quanto quella reale. Difficile che, nonostante le differenze, il problema non si riproponga in questa occasione.
Anche per questo, probabilmente, la fiducia nei confronti del Presidente Bush risulta molto più bassa di quella verso gli Usa. Ma anche rispetto a quella che riscuote l'altro protagonista della guerra: il premier inglese Tony Blair. Che ha affrontato la crisi attento alle ragioni della politica e del consenso internazionale. Blair, tuttavia, oggi attira consensi fra gli elettori del centrodestra in misura doppia rispetto a quelli di centrosinistra.
Peraltro, se la fiducia negli Usa cresce, la stima nei confronti dell'Onu e della Ue sale ancor di più. Recupera e anzi supera i livelli precedenti alla crisi in Iraq. Il che può apparire sinceramente paradossale. Perché, a differenza degli Usa, l'Onu e la Ue hanno dimostrato in questa fase un livello di improduttività e divisione persino insospettabile. Tuttavia, proprio per questo, la fiducia espressa nei loro confronti appare significativa. Un investimento. Un segno di volontà, più che di valutazione consapevole. Sottolinea, questo atteggiamento, la preferenza dei cittadini per organismi internazionali, che garantiscano un governo democratico delle questioni e delle tensioni globali. Ribadiscono, per quel che riguarda la Ue, la domanda di un soggetto dotato di autorità e forza politica, capace, per questo, di agire sul piano internazionale, in modo autonomo, efficace.
La domanda di sicurezza, di identità. Pervade gli italiani, in questa fase di ritorno alla "normalità". E si traduce nel riconoscimento, altissimo, che ottengono il Pontefice, Woityla, e il Presidente Ciampi. Riferimenti istituzionali, morali. Che, per questo, ottengono un consenso trasversale. Perché, in tempi di disorientamento, divisione, si rafforza l'esigenza di sponde a cui ancorarsi. Tali non risultano, agli occhi degli italiani, il governo e il Presidente del Consiglio, Berlusconi. Verso i quali la fiducia dei cittadini resta molto bassa. Non sembra aver giovato loro l'esito della guerra. A differenza di quel che è avvenuto per i leader dell'alleanza guidata dagli Usa. Probabilmente perché la posizione dell'Italia è apparsa ambigua. Non poteva svolgere, per oggettiva debolezza, un ruolo da protagonista. Ma non ha assunto, il governo italiano, neppure il profilo netto, controcorrente rispetto all'opinione pubblica, espresso dal premier spagnolo, Aznar. Da ciò la valutazione modesta che manifestano i cittadini nei confronti del governo e del suo leader. Indice di una politica incerta. Poco decifrabile. Anche se, per la stessa ragione, c'è da credere che il giudizio sull'opposizione e i suoi dirigenti non sia migliore.
Infine, il movimento. Il 15% di persone afferma di aver partecipato a iniziative a favore della pace, nelle ultime settimane. Un terzo della popolazione (intervistata) si dice ancora disponibile a mobilitarsi nel prossimo futuro. E una persona su quattro continua ad esporre alle finestre o sui balconi il drappo arcobaleno. E pensa di tenerla dove si trova ancora a lungo. Si tratta di misure ampie, impensabili un anno fa. Sottolineano un orientamento di valore, una disposizione a manifestare e a manifestarsi, che il tempo e l'esperienza hanno progressivamente consolidato.
L'attenzione ai temi della sicurezza globale, la domanda di luoghi e istituzioni di governo condivisi e negoziati a livello internazionale, il valore della pace, l'importanza dell'opinione pubblica, la disponibilità a partecipare. Sentimenti e modelli d'azione maturati prima e durante la guerra e destinati a restare. A comporre lo scenario della "nuova" normalità sociale.


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