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Repubblica-Quelle verità sulle pensioni che il governo non può dire

Quelle verità sulle pensioni che il governo non può dire Berlusconi ha perseguito una strategia di spaccatura dei sindacati ed è chiaro che una mossa su questa materia potrebbe ricompattare le ...

17/08/2002
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la Repubblica

Quelle verità sulle pensioni che il governo non può dire

Berlusconi ha perseguito una strategia di spaccatura dei sindacati ed è chiaro che una mossa su questa materia potrebbe ricompattare le Confederazioni
Il ministro Maroni ha inviato al Parlamento un rapporto nel quale contraddice tutte le assicurazioni fatte negli ultimi tempi dal suo ministero e da Palazzo Chigi
MASSIMO RIVA

Sostiene il ministro Maroni, di concerto con il presidente del Consiglio, che non esiste ragione alcuna per riaprire il capitolo della riforma delle pensioni. Alla luce dell'ultimo rapporto in materia predisposto dagli esperti del suo dicastero, non è chiaro se un simile atteggiamento debba essere giudicato più menzognero che irresponsabile o viceversa. Si legge, infatti, in quel documento una frase che, in poche parole, getta una luce drammatica sull'avvenire prossimo del nostro sistema previdenziale.
La frase, che il ministro Maroni non può non aver letto avendo lui medesimo inviato quel rapporto al Parlamento, è la seguente: "Il mantenimento di un rapporto stabile tra spesa pensionistica e Pil richiede una crescita media reale di quest'ultimo intorno al 2,2 per cento per tutto il prossimo decennio". Certo, se le mirabolanti previsioni economiche del governo si fossero rivelate giuste, forse il "benign neglect" del duo Berlusconi-Maroni avrebbe potuto trovare una sua temporanea giustificazione. Ma le cose, come si sa, stanno andando di male in peggio. Quest'anno l'aumento del prodotto interno non sarà del 2,3 per cento inizialmente stimato dal volenteroso Tremonti e neppure dell'1,3 indicato nella successiva correzione: sarà un lusso se si arriverà a sfiorare l'uno per cento. Quanto all'anno venturo, visti i chiari di luna della congiuntura internazionale, sarà già un miracolo se si riuscirà ad avvicinare la quota due per cento. Ciò significa che, per il prossimo biennio, è garantito un vistoso peggioramento del rapporto fra spesa pensionistica e Pil.
Dunque, piaccia o non piaccia all'on. Maroni, la bomba ad orologeria è innescata. Già oggi l'Italia denuncia un volume di spesa previdenziale prossimo al 14 per cento del Pil, che non è lontano dal doppio della media europea, e quindi più che mantenuto "stabile" dovrebbe essere nettamente ridotto. Da anni ormai, del resto, i pagamenti ai pensionati eccedono i versamenti dei lavoratori e delle imprese. Com'è logico che avvenga in un paese dove la durata della vita fortunatamente cresce, ma dove il regime pensionistico si rifiuta di prendere le misure di una pressione demografica tecnicamente insostenibile sulla base delle regole vigenti.
Attraverso la cosiddetta riforma Dini, poi ritoccata dal governo Prodi, si era pensato di aver riportato in equilibrio il sistema almeno per i primi anni del nuovo secolo, rinviando la resa dei conti con una minaccia di ulteriore rialzo della spesa che le proiezioni statistiche davano allora per certa solo fra il 2005 e il 2010. Oggi il citato rapporto del Nucleo di valutazione del ministero del Welfare dice che questa è stata un'illusione. Non solo non è in atto quel contenimento delle uscite, che sarebbe doveroso realizzare per non distaccarsi dal resto d'Europa, ma la spesa sta già crescendo più del Pil fin da ora. In altre parole: è necessario correre ai ripari subito, anche per evitare che gli sfondamenti previdenziali in corso si sommino agli altri fattori di fragilità della finanza pubblica rendendo ingovernabile il bilancio dello Stato.
Come possa il ministro Maroni far finta di non vedere questa emergenza è un mistero, ma solo apparente e comunque ben poco glorioso, al fondo del quale ci sono tre evidentissime ragioni di piccolo cabotaggio politico contingente. La prima riguarda i rapporti con il mondo sindacale. Il governo Berlusconi ha perseguito in questi mesi una deliberata strategia di spaccatura del fronte delle grandi confederazioni e di isolamento della Cgil. Per ottenere questo scopo e portare Cisl ed Uil alla firma del cosiddetto Patto per l'Italia, ha dovuto anche assicurare loro che mai e poi mai avrebbe messo il pallido Pezzotta e il suo sodale Angeletti alla stretta di un nuovo intervento su un tema così poco popolare come quello delle pensioni. E' chiaro a tutti, infatti, che una mossa governativa in materia avrebbe come primo e immediato effetto di ricostituire l'unità del fronte confederale, facendo cadere nel vuoto sia il Patto per l'Italia sia il più ambizioso obiettivo politico di assecondare la deriva corporativa di parte del sindacato per ricavarne un soggetto fiancheggiatore del governo medesimo.
La seconda ragione che spiega la riluttanza di Maroni sul nodo pensionistico attiene ai rapporti con l'altro importante alleato del governo nella manovra di rottura dell'unità sindacale: la Confindustria. In questa commedia, a parole, l'organizzazione imprenditoriale sembrerebbe l'attore che più di ogni altro invoca l'esigenza di rimettere mano al sistema previdenziale. Ma tra il dire e il fare, nel caso specifico, c'è di mezzo un tallone d'Achille che rende un po' tutte le aziende vulnerabili in materia.
Questo punto debole riguarda il denaro accumulato nelle casse aziendali a titolo di Tfr (le vecchie liquidazioni) che è, allo stato, l'unica risorsa disponibile per una riforma previdenziale mirata ad alleggerire la pressione sul bilancio pubblico attraverso la moltiplicazione dei fondi pensione. La Confindustria sa che questi soldi sono dei lavoratori e non delle imprese, ma sa anche che gran parte dei suoi associati non intende privarsi di un così rilevante strumento di finanziamento aziendale. Ecco perché fa bella mostra di spingere per una riforma, ma poi finisce per accontentarsi di chiedere al governo una riduzione dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro.
E qui siamo alla terza ragione d'imbarazzo dell'accoppiata Maroni-Berlusconi. Invece di darsi da fare per il riequilibrio progressivo dei conti dell'Inps, finora il governo di centrodestra ha provveduto in senso opposto. Da un lato, ha fatto lievitare la spesa attraverso il tanto celebrato aumento delle pensioni minime: provvedimento dagli ottimi fini sociali al quale, però, non si è trovata copertura stabile e permanente con il riassetto del sistema. Dall'altro lato, ora si medita di dare anche un bel taglio alle entrate come vuole un'iniziativa all'esame del parlamento con la quale si riducono le aliquote contributive per i neo-assunti. Insomma, minori entrate e maggiori uscite: questa sembra oggi essere l'incredibile risposta che il governo Berlusconi è in grado di dare all'allarme che gli esperti del ministero del Welfare hanno lanciato sulle minacciose tendenze della spesa previdenziale.
Che le cose stiano prendendo questa brutta piega è, del resto, confermato da qualche voce di dissenso manifestatasi all'interno della stessa maggioranza di governo. Come quella dell'on. Follini, il quale ha chiesto con forza che in autunno sia preso per le corna il toro della spesa pensionistica. Ecco, però, che la sua iniziativa è stata subito bollata dai soci di governo come quella di un disturbatore della quiete pubblica, pure lui animato da disegni politici inconfessabili. Cioè, non quello di arrivare a una seria riforma del sistema, ma quello di mettere in difficoltà il leghista Maroni e quindi anche l'asse politico Berlusconi-Tremonti-Bossi per riconquistare spazio e visibilità alla componente ex-democristiana dell'attuale centrodestra.
E così, mentre a Roma ci si trastulla con bugie e furbizie di miope opportunismo politico, il paese invecchia, la spesa corre, il debito sale. Non più solo figli e nipoti, ma anche molti lavoratori oggi in attività vedono oscurarsi la prospettiva di poter godere un giorno di una pensione magari non cospicua e però almeno certa.


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