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Repubblica-Quella valanga di parole in libertà che tracima dalle televisioni

Quella valanga di parole in libertà che tracima dalle televisioni SANDRO VIOLA Lo dico sub...

30/03/2003
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la Repubblica

Quella valanga di parole in libertà che tracima dalle televisioni
SANDRO VIOLA


Lo dico subito, l'idea non è mia. Probabilmente mi ronzava nella testa - spuntata dal malumore di questi giorni - ed era lì lì per prender forma. Ma non è mia. È d'uno dei giornalisti che ammiro di più, Yoel Marcus dell'israeliano Haaretz. E l'idea è la seguente. Quando in Iraq tutto sarà concluso, bisognerebbe prendere i conduttori delle trasmissioni radio-televisive sulla guerra, più le schiere dei loro ospiti (esperti militari e di geopolitica, islamisti, mediorientalisti, uomini politici, prelati, pacifisti),e chiuderli in una stanza per una settimana.
Lì, un sistema di microfoni riprodurrebbe una a una le loro parole: le domande dei conduttori e le analisi, le previsioni, i pareri strategici, i giudizi morali, le diagnosi psicologiche, le sociologie, gli appelli commossi degli "ospiti". Il tutto per ventiquattr'ore su ventiquattro, ognuno dei sette giorni di quella settimana. Chiusi a chiave, e senza mai potersi tappare le orecchie, senza mai potersi sottrarre al trapano del loro stesso bla-bla.
Costretti a ficcarsi nella testa tutto quel che avevano cercato affannosamente di ficcare nelle nostre. Così da espiare la roboante vacuità dei loro discorsi, cogliere sgomenti quanto fossero risibili le loro argomentazioni, e imparare ad essere più sobri, più seri, nei giorni della prossima guerra.
Un girone dantesco, un inferno della parlantina. Sette giorni tutti insieme, "ospiti" e conduttori, sotto il peso schiacciante della loro facondia.
I conduttori di dibattiti politici e quelli che di solito interrogano le "veline" e i centravanti, il soi-disant politologo, lo pseudoislamista canuto e cotonato, Bertinotti, Pecoraro Scanio, quel direttore d'un quotidiano la cui competenza professionale non ha mai valicato i confini di Lazio e Campania, Livia Turco e Alessandra Mussolini, l'addolorato (ma ciarliero) monsignore. Tutti insieme a farsi rimbombare la testa dalle loro logorree, a patire la cacofonia delle loro grottesche discussioni. Una caduta all'inferno che serva da balsamo, edificazione e ricompensa ai taciturni.
Che torrente di chiacchiere si riversa infatti, un giorno dopo l'altro, dalle radio e dai televisori. Certo, ci sono alcune eccezioni. Quattro o cinque della trentina di "ospiti" che girano frenetici - come su una giostra - da una trasmissione all'altra, sanno quel che dicono. E infatti dopo un po' di domande e risposte, quando il dibattito è nel suo pieno, il loro sguardo si fa vitreo, dolente. Che errore, devono pensare in quel momento, essersi seduti in uno studio della radio o della tv col falso islamista, con Ignazio La Russa, con l'esperto militare che non ne ha mai indovinata una, col professore convinto di leggere nel cervello di Saddam Hussein come se fosse un libro aperto, col no global da rinviare alle scuole medie, col prelato che invoca i valori della pace. Che errore mischiare le due o tre cose precise che erano venuti a dire, con la poltiglia delle approssimazioni, delle ignoranze, delle fole da caffè che fuoriescono dalle bocche instancabili degli altri "ospiti".
Ma quei quattro o cinque sono, come s'è detto, l'eccezione. Tutti gli altri hanno la stessa esperienza di Medio Oriente, grande politica internazionale, strategie militari e problemi economici connessi, d'un comune padre di famiglia che la sera, uno sguardo al teleschermo e uno alla minestra in tavola, discuta con la moglie e i figli di quel che sta succedendo tra il Tigri e l'Eufrate. Quindi imprecisioni scandalose, zoppìe storiche e geografiche, ovvietà da far accapponare la pelle. Ma un'ora dopo - accolti da un altro conduttore come il "famoso esperto", il "grande specialista", "l'esimio direttore" -, rieccoli imperterriti su altre poltrone o sgabelli a sgranare ancora una volta il rosario delle loro vaghezze.
C'è la guerra, è vero, e bisogna essere pazienti. Accontentarsi. Io, per esempio, m'accontento che non ci sia più Samarcanda. È infatti con un brivido che immagino cosa sarebbero state le trasmissioni di Michele Santoro.

Le arringhe contro la guerra dai quartieri poveri di Bagdad, i servizi degli inviati sulla terra bruciata che si lascia dietro la marcia dei marines, e in studio Agnoletto, l'Annunziata, i politologi inesausti, quell'esperto che dalla caduta del Muro e dell'Urss fa il profeta di sventure, una pattuglia di "né con Bush né con Saddam", il monsignore di turno. Di quanta stentorea indignazione contro la guerra, di quali fervide apologie del pacifismo avrebbe risuonato in questi giorni Samarcanda. E come devono sentirsene orbi, mutilati, milioni d'italiani.
La guerra finirà, le trasmissioni sulla guerra andranno man mano scemando. Resterà il sogno di quella camera chiusa a chiave, con dentro "ospiti" e conduttori, le mani nei capelli e gli occhi fuori dalle orbite come gli omuncoli di Jeronimus Bosch, mentre per sette giorni interi senza una sola interruzione i microfoni gli riversano addosso, al massimo volume, la valanga delle loro parole in libertà.


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