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Repubblica: Le università europee al bivio tra rinascita e decadenza

RALF DAHRENDORF

08/08/2006
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la Repubblica

«Le università europee, viste nel loro insieme, non riescono a fornire quell´energia intellettuale e creativa che servirebbe a innalzare il basso livello della performance economica del continente». Questa drammatica considerazione è la premessa di un opuscolo di recente pubblicazione, di cui prendo a prestito il sottotitolo, «Rinascita o decadenza», per questa mia riflessione.
I suoi due autori, Richard Lambert e Nick Butler, non rappresentano in alcun modo gli interessi accademici costituiti. Il primo, già direttore del Financial Times, è il futuro direttore generale della Confederazione dell´industria britannica; il secondo è vicepresidente del gruppo per la strategia e la politica dello sviluppo della British Petroleum. Il loro giudizio sulle università europee potrebbe probabilmente valere anche per quelle di altre parti del mondo – ma non per gli Stati Uniti.
Lambert e Butler hanno identificato negli atenei del vecchio Continente quattro punti deboli che richiederebbero una particolare attenzione. E suggeriscono i seguenti rimedi:
1. Diversificazione in luogo dell´attuale omogeneità;
2. Incentivi per stimolare le università a perseguire il successo innalzando il livello delle loro ambizioni;
3. Meno burocrazia, più libertà e responsabilità;
4. E soprattutto finanziamenti più adeguati, per ridurre la distanza tra le università degli Stati Uniti (2,6% del Pil) e quelle europee, che mediamente devono accontentarsi di meno della metà.
Non tutti concorderanno sull´importanza cruciale dell´assunto su cui si fonda quest´analisi. Perché è indispensabile una maggiore attenzione al mondo universitario? La risposta è che oggi viviamo in una «società della conoscenza». Può darsi. Ma conta anche il fatto che per i giovani, una formazione universitaria è la miglior garanzia per trovare lavoro in un contesto globalizzato, ove l´informazione è una chiave del successo.
D´altra parte, non è affatto certo che un sistema di istruzione in cui il 50% di ogni generazione, se non di più, aspira a un titolo universitario, rappresenti la condizione migliore per far fronte alle esigenze del ventunesimo secolo. Di fatto, molti posti di lavoro non comportano affatto una formazione high tech, ma sono piuttosto «high touch», per usare l´espressione del britannico Adair Turner: con ciò si intendono in particolare i posti di lavoro nel settore dei servizi, che non richiedono una preparazione universitaria. C´è poi una proporzione anche maggiore di posti di lavoro a metà strada tra i due settori. Perciò sarebbe forse preferibile puntare sulla flessibilità e sulla diversificazione dell´offerta formativa, piuttosto che su un sistema finalizzato a conferire una laurea a cinque studenti su dieci.
Se anche si volesse puntare, ad esempio, sull´obiettivo di avviare a un percorso accademico il 25% di ogni generazione, il mondo universitario – in Europa come in altre parti del mondo – si troverebbe a dover superare un altro problema: la nefasta tendenza a definire i propri obiettivi in contrasto con il mondo economico. Una tendenza che oltre a danneggiare il mondo degli affari, privandolo del proprio apporto di ricchezza culturale, si ritorce contro le stesse università, in quanto pregiudica il loro status nel mondo reale.
C´è molto da dire a favore di un più adeguato finanziamento dell´istruzione superiore, anche attraverso le tasse universitarie, che pure sono tuttora impopolari in molti paesi al di fuori degli Stati Uniti. Ma neppure il denaro può risolvere tutti i problemi. Uno dei maggiori vantaggi comparativi delle università americane sta nella natura dei rapporti umani. I professori prendono sul serio il loro impegno con gli studenti, e non vivono nell´ansiosa attesa dei giorni liberi o delle ferie per dedicarsi ai propri progetti. Sono docenti universitari veri, a differenza di chi invoca «l´unità tra insegnamento e ricerca» al solo scopo di potersi concentrare sulle proprie aspirazioni di ricercatore, nella speranza che l´insegnamento vada avanti da solo.
Nelle università americane, l´attività di ricerca è improntata a un´atmosfera di grande cooperazione informale. Ci si incontra nei laboratori e nei seminari, ma anche negli spazi comuni, a tavola o al bar. Non c´è l´ossessione dello status gerarchico, e neppure l´abitudine a essere sempre attorniati dagli assistenti, o dal gruppo dei collaboratori di qualche progetto circoscritto.
Malgrado l´accanita competizione per le cattedre, gli spazi sui giornali e sui media e gli avanzamenti di carriera in genere, c´è sempre un dialogo tra colleghi. È questo che piace agli studenti venuti ad iscriversi ai corsi di laurea o di specializzazione delle università americane, e in parte anche britanniche. E di questo sentono la mancanza quando ricadono nelle cattive abitudini dei loro paesi d´origine. Per queste ragioni – ma anche per molte altre - le università europee, come del resto quelle del Giappone, della Corea del Sud e di altri paesi del mondo in via di sviluppo, compresa la Cina e l´India, devono allentare la rigidezza delle strutture e cambiare le loro abitudini, se vogliono evitare la decadenza e dare nuova linfa vitale alla rinascita.

Copyright Project
Syndicate / Institute
for Human Sciences, 2006
www.project-syndacate.org

Traduzione
di Elisabetta Horvat


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