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Repubblica-Lacrime ipocrite sulla pace sociale -di Eugenio Scalfari

Lacrime ipocrite sulla pace sociale MAI come in queste settimane il governo ha tanto annaspato e la sua maggioranza è apparsa tanto divisa su alcuni problemi di fondo: la riforma della giustiz...

11/10/2002
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la Repubblica

Lacrime ipocrite sulla pace sociale

MAI come in queste settimane il governo ha tanto annaspato e la sua maggioranza è apparsa tanto divisa su alcuni problemi di fondo: la riforma della giustizia, la legge Cirami, la politica economica, il federalismo, la sicurezza. In altri tempi si sarebbe detto: la maggioranza si sfarina. Ma qui sta avvenendo qualche cosa di diverso e di più profondo: a sfarinarsi è lo stesso blocco sociale ed elettorale che il 13 giugno del 2001 scelse questa maggioranza. La questione dunque è molto più seria.
Dall'altra parte del campo tuttavia le cose non vanno meglio; anche lì, nel centrosinistra e nella sinistra si vanno acuendo tensioni e rivalità. Nella Casa delle Libertà il solo a non essere in discussione è il padre-padrone, Silvio Berlusconi. A sinistra viceversa il problema preminente è proprio quello di individuare un gruppo dirigente e un leader che ne incarni la linea e il programma. Non fatevi ingannare dall'unificante parola riformismo. Tutti sono, tutti siamo riformisti, persino Berlusconi lo è e dal suo punto di vista sarebbe difficile negare che lo sia, visto che, almeno a parole, vorrebbe riformare tutto l'esistente.
Ma tra i riformisti del centro e della sinistra esistono parecchie varianti: c'è un riformismo forte e uno debole, uno mirato a recuperare elettori che si sono ritirati sotto la tenda, un altro che vuole riportare a casa fasce sociali di operai e pensionati che votarono a destra un anno fa, un terzo che mira a spostare almeno una parte di borghesia moderata disillusa da Tremonti e dai furori leghisti.

Con la crisi Fiat mai come oggi servirebbero l'unità sindacale e la concertazione Invece raccogliamo i frutti avvelenati di mesi dissennati
I girotondisti non sono propriamente riformisti ma conservatori Infatti chiedono il rispetto della Costituzione
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
EUGENIO SCALFARI

Si potrebbe dare il nome di un leader a ciascuna di queste varianti di riformismo ma sarebbe un inutile esercizio. La lotta in corso all'interno dell'area di opposizione verte proprio a stabilire chi sia il meglio posizionato per riagguantare la vittoria quando sarà. Ciascuno dei protagonisti ritiene di esserlo lui e opera per migliorare il proprio posizionamento. E poiché siamo in piena civiltà dello spettacolo il terreno di scontro è quello mediatico, controllato a dir poco per quattro quinti dal padrone delle televisioni private e pubbliche.
Quest'anomalia, tutta e soltanto italiana, spiega le difficoltà di una partita che si gioca con carte truccate perché chi tiene il mazzo non è un normale croupier ma un giocatore in proprio che ha anche la possibilità di scegliersi gli avversari che preferisce. Una situazione simile non s'era mai vista prima d'ora. Adesso la stiamo vivendo.
* * *
Lo scontro avviene su vari campi di gioco. Uno di essi è quello dell'economia e del sociale. Anzi è il campo che coinvolge tutti gli imprenditori, tutti i lavoratori, tutti i contribuenti, tutti i consumatori, tutti i risparmiatori.
Insomma tutti i cittadini del nostro paese.
Se l'andamento dell'economia fosse di ordinaria amministrazione si potrebbero analizzare con distaccata oggettività le tesi (e i sottostanti interessi) sostenute dai vari attori della vicenda. Ma non è così. Stiamo infatti attraversando una fase percorsa da scosse profonde e da terremoti: una recessione mondiale appena superata e l'ipotesi di un'altra che potrebbe riaprirsi nelle prossime settimane; comunque un ristagno di investimenti e consumi che dura ormai da trenta mesi (come passa il tempo e nemmeno ce ne accorgiamo); caduta verticale dei profitti; sofferenze crescenti del sistema bancario.
In Italia - come se tutto questo non bastasse - si è drammaticamente aperta la crisi della Fiat. Era l'ultima grande impresa manifatturiera del nostro paese di dimensioni adeguate a fronteggiare la concorrenza mondiale. Il gruppo familiare che le stava alle spalle era riuscito a diversificare i propri interessi entrando nell'alimentare, nell'elettricità, nell'informatica, nelle assicurazioni, nelle banche.
Sembrava il punto di eccellenza dell'industria italiana e invece deperiva un anno dopo l'altro. Nel 1990 la quota Fiat sul mercato automobilistico italiano era pari al 52 per cento (con Lancia e Alfa Romeo) ma oggi è crollata al 31: ventuno punti percentuali lasciati sul terreno in dodici anni, ai quali vanno aggiunti quelli perduti nel resto del mondo di cui 6 in Europa (dal 14 all'8 per cento).
Il crollo è stato verticale e si porta appresso i destini di decine di migliaia di persone. Soltanto con i provvedimenti annunciati l'altro ieri dai vertici del gruppo i lavoratori sulla soglia del licenziamento sono più di 8 mila e diventeranno 11 mila a giugno. L'indotto coinvolto è attendibilmente stimato a 40 mila lavoratori. Si tratta in sostanza di 50 mila posti distrutti, 50 mila famiglie senza più reddito, 200 mila persone a dir poco gettate nell'incertezza e nella miseria.
Quando si parla di costi, ricavi, deficit, debiti, forse non si riflette abbastanza sul fatto che dietro quei numeri ci sono persone, anime disperate, occhi e gesti di rabbia e rancore. La crisi Fiat rischia di provocare un'esplosione di rabbia sociale estremamente pericolosa che andrà a sommarsi ad altre incertezze già presenti nella società italiana: una disoccupazione giovanile endemica nel Sud, pensioni d'anzianità a rischio, tutele fragili o addirittura inesistenti, servizi sociali senza un soldo da spendere.
Tutto ciò genera al tempo stesso rabbia e paura, crepe profonde nel tessuto sociale, sfiducia nelle istituzioni. Mai come adesso ci sarebbe stato bisogno della concertazione tra le parti sociali e d'un sindacato forte, unitario, responsabile. Ma purtroppo mai come adesso la concertazione è stata deliberatamente ridotta in pezzi e l'unità sindacale frantumata. Raccogliamo ora i frutti avvelenati di quindici mesi di governo dissennato che ha avuto in testa una sola riforma cui tutto il resto doveva subordinarsi: isolare il più forte sindacato italiano, violare l'intangibilità di un diritto, puntare verso un mercato del lavoro precario che mettesse il singolo lavoratore a tuppertù e senza intermediari validi con l'impresa datrice di lavoro.
È esattamente in queste condizioni che affronteremo le acute spine del 2003 dopo il cupissimo 2002.
* * *
Naturalmente si moltiplicano in questi giorni gli appelli a ritrovare l'unità sindacale. Vengono da sinistra, dal centro e perfino da destra; vengono dall'opposizione e addirittura dal governo e dalla Confindustria ed hanno la Cgil come unico destinatario.
Un gruppo di parlamentari della Quercia e della Margherita, rispettivamente vicini alle posizioni di D'Alema e di Rutelli, hanno addirittura stilato un documento che invita Epifani, il nuovo segretario della Cgil successore di Cofferati, a sospendere lo sciopero generale del prossimo 18 ottobre per concordare con la Cisl-Uil un'altra data o preferibilmente altre forme di lotta unitarie.
Queste iniziative hanno del fantastico. Non s'era mai visto fino a ieri che parlamentari dell'opposizione entrassero con i piedi nel piatto di decisioni esclusivamente competenti al sindacato pur di indebolire uno sciopero che ha come bersaglio principale quella stessa legge finanziaria che l'opposizione giudica nefasta in ogni suo punto, mentre la Cisl-Uil, checché ne dicano i dirigenti di quei sindacati, ne ha accettato ad occhi chiusi le cifre e quanto da quelle cifre logicamente discendeva.
La verità è che il famoso "Patto per l'Italia" firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil ed altre numerose categorie del commercio e dell'artigianato, è diventato una foglia secca in balìa della tempesta congiunturale; gli spiccioli stanziati per gli ammortizzatori sociali dovranno essere in larga misura dirottati per lanciare qualche zattera di precaria salvezza ai 50 mila Fiat e indotto messi in "mobilità lunga", cioè licenziati; gli incentivi per il Mezzogiorno sono stati aboliti e figurativamente ripristinati per il 2005; i servizi sociali erogati dalle Regioni e dai Comuni saranno ridotti all'osso; i licenziamenti da pioggia sono diventati grandine.
Si vede ora quanto fosse bugiardo lo slogan berlusconiano, fatto ingenuamente proprio da molte teste d'uovo del centrosinistra, che bisognasse togliere privilegi ai padri per aprire un futuro ai figli. Ci ha pensato la crisi Fiat a farci toccare con mano quanto poco solidi fossero quei famosi privilegi dei padri. Andatelo a raccontare ai 40-50enni di Termini Imerese, di Melfi, di Cassino, di Arese e di Mirafiori e sentirete come vi risponderanno a nome dei padri e dei figli.

* * *
Mentre tutto questo accade, mentre il governo pensa prioritariamente a bloccare il processo contro Previti e Berlusconi e a censurare le trasmissioni satiriche di Blob, i pensatori "liberal" continuano a sparare sui girotondisti. È diventato una specie di esercizio quotidiano che rimbalza da un giornale ad un altro: sarebbero loro i responsabili di tutto quello che va storto nel nostro paese.
"C'est la faute à Voltaire" cantava il monello Gavroche sfidando gli sbirri del re dalla barricata repubblicana dei "Miserabili". Nell'Italia del 2002, anno II dell'era berlusconiana, Voltaire sarebbe forse Nanni Moretti e Rousseau probabilmente Paolo Flores D'Arcais. Povero Moretti e povero Flores, ma soprattutto poveri Voltaire e Rousseau ridotti ad una dimensione così strapaesana.
Che cosa vogliono i girotondisti? Martellano i loro critici. Hanno proposte concrete da fare? Hanno un programma riformista? Oppure seguono solo la loro pulsione di sfasciacarrozze impenitenti? Personalmente non vado a girotondare, non è il mio genere e il mio gusto, né ho alcun titolo a rispondere per loro. Però credo di capire che cosa vogliono anche perché non ne fanno alcun mistero. Vogliono che la Costituzione non sia presa in giro e sistematicamente violata in materia di giustizia, di giurisdizione, di scuola pubblica, di divisione dei poteri, di pluralismo dell'informazione e perfino di pace e guerra (articolo 11 che "ripudia la guerra" ).
Se dovessi dirla tutta, i girotondini non sono riformisti ma conservatori visto che difendono la Costituzione esistente. Ma poiché di questi tempi difendere la Costituzione significa compiere un atto rivoluzionario, ecco che quei conservatori in giacca e gilè diventano rivoluzionari.
Così va il mondo, caro Ernesto Galli Della Loggia. Tu dovresti del resto saperlo che la colpa non è sempre di Voltaire.


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