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Repubblica-La voglia di secessione nascosta nella devolution

La voglia di secessione nascosta nella devolution MICHELE SALVATI Cerco di riassumere in quattro punti il problema politico che si è aperto colla faccenda della "devolusion", che mi ostino ...

01/12/2002
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la Repubblica

La voglia di secessione nascosta nella devolution

MICHELE SALVATI

Cerco di riassumere in quattro punti il problema politico che si è aperto colla faccenda della "devolusion", che mi ostino a scrivere alla padana per rispetto verso i processi devolutivi seri, che sono in corso in paesi seri. Si tratta di una faccenda complicata, che ha bisogno di un po' di storia.
1. In Italia, se si esclude la Sicilia nell'immediato dopoguerra e le regioni con forti minoranze linguistiche, non esistono problemi di aree e popolazioni incluse nei confini della Repubblica che reclamano autonomia sulla base di una differenza "nazionale", del sentimento profondo e condiviso di essere una comunità diversa e indipendente. In altre parole, non esistono problemi come quello basco o catalano in Spagna. Per tutta la storia unitaria, invece, nella parte più ricca del paese hanno serpeggiato sentimenti di diffidenza, estraneità, ostilità nei confronti di quella più povera, sentimenti che si accentuavano nei momenti di più forte contatto e frizione (la grande immigrazione meridionale nel Nord, tra gli anni '50 e '60) e che traevano e traggono origine da differenze effettive di cultura, mentalità, costumi, oltre che di reddito, benessere e indipendenza economica. Per un patto non esplicito ma sempre rispettato, nel corso della nostra storia nazionale i partiti politici non hanno mai speculato su questi sentimenti al fine di ottenere un facile consenso popolare: ne andava dell'unità, del prestigio e della potenza del paese, così faticosamente e fortunosamente conseguiti. Nella crisi politica tra gli anni '80 e '90, la Lega si è sciolta da questo patto: Bossi ha fiutato l'occasione di crescere impetuosamente a spese dei grandi partiti nazionali, e l'ha sfruttata quanto ha potuto. In piccolo e in farsesco non si è comportato diversamente da Milosevic: per fortuna non esistevano da noi le condizioni politiche, religiose, etniche e culturali che hanno consentito a Milosevic di commettere i crimini che ha commesso. Bossi non voleva la "devolusion" e men che meno il federalismo solidale, voleva la secessione: si è acconciato a quegli obiettivi minimi quando si è reso conto che quello massimo non era possibile e neppure desiderato se non dai più scalmanati tra i suoi seguaci, quando l'Italia è riuscita ad agganciarsi all'Euro, quando ha trovato nella xenofobia un cavallo di battaglia populista ancor più efficace della secessione. E' vero dunque che la "devolusion", l'infelice comma che Bossi vuole inserire nel corpo dell'art. 117 del Titolo V della Costituzione, è l'ultimo sussulto della strategia secessionista, un sussulto che Berlusconi gli concede per non fargli perdere del tutto la faccia.
2. Continuiamo con la storia del federalismo all'italiana. Come si è arrivati alla riforma del Titolo V della Costituzione? Perché i grandi partiti del centro-destra e del centro-sinistra - pur consapevoli che, se si escludevano i territori infestati dalla Lega, non esisteva nel paese nel suo insieme una vera domanda di maggiore autonomia - hanno posto il federalismo nell'agenda del Parlamento, sino ad arrivare ad una riforma straordinariamente impegnativa strappata per pochi voti nell'ultima fase della legislatura e confermata poi da un referendum popolare?

Scrivere questa storia in dettaglio sarebbe istruttivo: istruttivo dello splendore (poco) e della miseria (tanta) della nostra vita politica e parlamentare. Mi limito a toccarne i principali capitoli. Anzitutto gioca il disegno di utilizzare la forza eversiva della Lega incanalandola nell'alveo di un disegno di riforma autonomistica, a base comunale oltre che regionale, da lungo tempo in discussione nei principali partiti della prima repubblica, democristiano e comunista. Giocano gli interessi, se non delle popolazioni, certamente dei ceti politici locali, fortissimi in tutti i partiti. Giocano le speranze e le illusioni di molti autonomisti convinti, formatisi sulle critiche democratiche (Cattaneo, Einaudi, Salvemini, Sturzo...) contro lo Stato accentrato e prefettizio. Gioca l'opportunismo del giorno per giorno: l'intensificazione o il rallentamento della discussione seguono dappresso le iniziative e le minacce della Lega. Gioca infine, nel Centrosinistra, il desiderio di chiudere ad ogni costo la legislatura con una grande riforma, anche se imperfetta.
3. E sicuramente si tratta di una riforma molto imperfetta. Imperfetta, anzitutto, perché incompleta: un disegno di riforma dello Stato di questa ampiezza esige la specializzazione di una delle due camere come Camera delle Autonomie, esige ritocchi nella composizione della Corte costituzionale e probabilmente richiede anche un rafforzamento dei poteri del Presidente della Repubblica. Imperfetta, in secondo luogo, perché il testo dà luogo a notevoli ambiguità interpretative, soprattutto nei due cruciali articoli 117 (competenze legislative esclusive e concorrenti) e 119 (federalismo fiscale).

Ma il senso della riforma è chiarissimo, un federalismo solidale di marca tedesca, con l'aggiunta di una forte accentuazione dei poteri dei comuni: se tale senso fosse condiviso, sarebbero possibili integrazioni costituzionali e legislative, nonché prassi interpretative, che consentirebbero una gigantesca devoluzione di competenze e poteri a costi contenuti. Perché costi ci sono, necessarie duplicazioni di personale e inevitabili frizioni sulle competenze dello Stato centrale, delle Regioni e dei Comuni e di conseguenza difficoltà per i cittadini e le imprese a capire chi fa che cosa: questo dimostra l'esperienza dei paesi che hanno attuato seri processi di decentramento. Ma, appunto, essi potrebbero essere contenuti, via via ridotti se si consolidano interpretazioni coerenti, agevolmente compensati dal vantaggio di centri decisionali più vicini ai cittadini e ai loro bisogni. Quando il presidente della Camera invita la sua assemblea a mettersi in sintonia con questo spirito, con il senso della riforma del Titolo V, è difficile non essere d'accordo con lui.
4. Casini è sicuramente in buona fede. Ma non può dimenticarsi che deve il suo alto incarico ad una maggioranza che ora sta provocando una lacerazione grave (un vulnus, si direbbe nel latinorum dei politici) nel senso della riforma del titolo V e nello spirito che dovrebbe sostenerla. In un articolo precedente ho già detto che cosa ne penso: il piccolo comma che Bossi vuole introdurre nel corpo dell'articolo 117 o è pleonastico o è eversivo, perché si pone in stridente contrasto con altre disposizioni dello stesso articolo e con lo stesso spirito del Titolo V. In tal caso, come se non bastassero quelli già esistenti, non fa che creare altri e più laceranti problemi interpretativi. Insomma, o una stupidaggine, o una mina, anzi le due cose insieme: se un tecnico del diritto competente, moderato e amante dell'understatement come Andrea Manzella - anche se un po' centralista per i miei gusti - esce su questo giornale con espressioni così forti come quelle che ha usato mercoledì scorso, vuol dire che il centro-destra l'ha fatta proprio grossa. Chi scrive è un moderato, un autonomista convinto e un sostenitore del compromesso e della bipartisanship fino all'estremo, se ciò è nell'interesse del paese. Per tutti questi motivi vive con disagio la situazione creata dall'improvvida iniziativa del Polo: comunque vadano le cose, a perderci sarà quello spirito di autonomia e di federalismo che il nuovo Titolo V era riuscito a imprimere nella nostra costituzione, perché la reazione a Bossi inevitabilmente darà fiato a chi aveva deglutito a fatica la riforma. Ma ben venga tale reazione, e senza compromessi. Ci sarà il referendum. Sarà nel 2004, con le elezioni europee. E sarà questa volta un referendum, un plebiscito, non pro o contro Berlusconi, ma pro o contro Bossi. Il centro-destra ha vinto e può vincere il primo: ma se la scelta è tra l'Italia e Bossi, non c'è proprio partita. Come ha fatto Berlusconi a commettere un errore politico così marchiano?


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