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Repubblica-La voce dei miei studenti-intervista a Marco Lodoli

LA VOCE DEI MIEI STUDENTI Intervista a Marco lodoli, scrittore e insegnante Ha pubblicato un libro di racconti sulla scuola e ci parla dei ragazzi di oggi delle loro insofferenze e della ...

24/05/2003
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la Repubblica

LA VOCE DEI MIEI STUDENTI
Intervista a Marco lodoli, scrittore e insegnante

Ha pubblicato un libro di racconti sulla scuola e ci parla dei ragazzi di oggi delle loro insofferenze e della necessità di non farli crescere troppo in fretta
"Dice Robert Walser che quando si è giovani bisogna essere a lungo niente, non si deve aver fretta di diventare qualche cosa"
ROMA
ENRICO REGAZZONI

Nel suo ultimo libro di racconti (I professori e altri professori, Einaudi, pagg.125, euro 14 ), Marco Lodoli ci presenta il mondo della scuola come se fosse una giostra. Di quelle di una volta, con i cavalli che salgono e scendono, portando il maestro e l'allievo, a turno, uno più in alto dell'altro. Ma sempre macinando un tempo fermo, più utile al sogno che all'azione. Lui dice: "Ciò che ho capito, in tanti anni di insegnamento, è che c'è una certa sfericità della vita: a volte ci si trova a insegnare a chi ne sa tanto più di noi e a volte si apprende da chi ne sa molto meno. La vita ci colloca ogni giorno in un punto diverso".
Ma allora come si definiscono gli insegnanti?
"Quello che so è che sono persone con un forte lato adolescenziale, adulti che hanno ancora un piede nei loro diciassette anni, che è l'età delle grandi domande".
Questo lato adolescenziale deve essere piuttosto robusto in lei, considerando la nostalgia che attraversa questo libro.
"Bè, metà della mia vita è dentro la scuola. E se ci sono rimasto per tanti anni...".
Quanti anni?
"Sono lì dal 1980".
Lì dove?
"In un istituto professionale a Torre Maura, una borgata di Roma".
Quali professionalità si insegnano?
"Ci sono più settori: chimica, moda, grafica...".
Quindi sono studenti che dovrebbero entrare in fretta nel mondo del lavoro.
"Dovrebbero. Poi te li ritrovi dopo qualche anno che fanno i baristi o le commesse".
Dicevamo della nostalgia...
"Certo, è anche dentro di me. Nasce da quel resto adolescenziale ed è anche una componente forte della scrittura. Direi che è una nostalgia delle origini: lo scrittore, come l'insegnante, ha bisogno di stare in quel luogo dove le cose sono ancora un po' informi e tutto si prepara a essere. Perché intuisce che lì c'è una verità che dopo è andata perduta. Quindi torna al luogo d'origine, al luogo di speranza".
Ha un buon ricordo dei suoi anni da studente?
"Non tanto, ero in una scuola di preti... Ma più che i contorni della scuola, ricordo quel lungo periodo di incubazione. Dice Robert Walser che quando si è giovani bisogna essere a lungo niente, non si deve aver fretta di diventare qualche cosa. Forse adesso questo tempo di stallo viene un po' bruciato dai ritmi, dalle offerte pressanti della vita, dall'ansia dei ragazzi di significare qualcosa. Però io ho nostalgia di quella situazione un po' incantata che sta fra la malinconia, la noia e l'attesa, che sembra immobile e dove invece accade così tanto".
Quindi il suo modello di studente è lo Jakob von Gunten di Walser, che al colmo della serenità desidera solo essere uno zero.
"Esatto, quella è stata per me una lettura fondamentale. Immagino la scuola come un luogo dove, più che imparare qualcosa di preciso, si aspetta di incontrare se stessi, di passare da zero a uno. Un passaggio faticoso, che si può ripresentare altre volte nella vita. Ci si può ritrovare zero e dover rifare quel passo".
E cosa deve fare esattamente l'insegnante che veglia su questo incanto?
"Credo che debba proteggere i ragazzi dalla fretta di appartenere subito a una tribù, di procurarsi un'identità fittizia, dettata più dalla moda che dalla scoperta di sé. Deve tenere lontani il mondo e le soluzioni facili".
Insomma, deve perfezionare le domande anziché suggerire le risposte.
"Già, anche perché le risposte a volte non le ha neppure lui. Molto meglio, allora, cercare di mantenere viva la predisposizione allo stupore. Perché solo in questo modo può nascere un vero contatto con la propria voce interiore".
Che età hanno i suoi allievi?
"Dai quattordici ai venti, più o meno".
E la seguono, in queste lezioni di attesa?
"A volte sì, a volte no. Da un lato, come ho denunciato anche in articoli apparsi su questo giornale, c'è una retrocessione psichica generalizzata nei ragazzi d'oggi, sostenuta principalmente dal mito della facilità; dall'altro, questo tempo di attesa è anche una stagione che ha del dolore da reggere. Questa primavoltità, come la chiamava Gadda, è fatta anche di apparizioni dolorose. E non ci sono, per l'insegnante, meccanismi di stimolo che prevedono risposte immediate. Però dopo qualche anno gli ex studenti tornano a trovarti, e allora vedi che qualcuno dei semi che avevi lanciato in aria ha attecchito".
In classe ha problemi di disciplina?
"Ovviamente. C'è un senso di onnipotenza diffusa, ed è difficile far valere la logica di un ascolto pacato. Non c'è cattiveria, ma un'ansia e una fretta isterica che a volte possono tradursi in caos".
E non si incontrano anche soggetti indomabili?
"Insegnando in borgata, può accadere. Ma il vero guaio è fuori, tra quelli che non vanno a scuola. I ragazzi che entrano in classe già condividono qualche elemento di civiltà. Partecipano a una vita comune, attingono a un'educazione. Il problema è invece quel cinquanta per cento che dentro alla scuola non ci mette piede".
Scusi, ma lei insegna italiano e storia: che peso possono avere queste due materie in un istituto che dovrebbe introdurre subito gli allievi nel mondo del lavoro?
"Certo, non posso contare molto sulla lettura di Cavalcanti o di Carducci... La tradizione letteraria parla pochissimo a questi ragazzi, quindi devo cercare di impastare il passato con il presente".
In che modo? Suggerendo altri libri?
"Sì. Selezionando testi più comunicativi, che facciano crescere quella pazienza di cui parlavo".
E riesce ad appassionarli ai libri?
"Leggono poco, e faticano a farlo. Decifrano la parola scritta sillaba per sillaba, come se l'italiano fosse una lingua morta. Non leggono neppure i fumetti, che una volta erano una specie di base".
La poesia li cattura di più?
"Un po' di più. Perché ha una potenza sintetica che si avvicina di più all'anima di un ragazzo".
Propone anche poeti moderni?
"Saba e Ungaretti vanno piuttosto bene, grazie alla loro musicalità. Montale è più ostico. Ma non voglio farla facile: noi mettiamo su un piatto della bilancia cose impalpabili, a fronte di un mondo che sull'altro piatto rovescia il miraggio di una felicità violenta e immediata".
Più che dai testi, non crede che l'insegnamento nasca dal modo in cui il maestro mostra se stesso?
"Il maestro deve mostrare per primo di aver assorbito ciò di cui parla. Se qualche volta si fidano di me, è perché capiscono che la mia vita è stata trasformata dalle parole che cerco di offrire loro. Non sono un bacucco, uno tradizionale: e loro sentono che ciò che insegno riguarda prima di tutto me. Vedono che se non avessi incontrato certi scrittori, ascoltato certa musica o visto certi film, la mia vita sarebbe stata molto più confusa e infelice".
I suoi ragazzi leggono i suoi libri?
"Alcuni più di altri. Certo non il Diario di un millennio che fugge, ma piuttosto I fannulloni, Crampi, Il vento. Insomma, quelli che contengono piccoli apologhi. Come li contiene quest'ultimo, dove i professori sono un po' dei pionieri della verità che cercano il senso della vita quotidiana, fino a correre il rischio di perdersi".
E in che misura questo contatto con i ragazzi nutre la sua vena narrativa?
"Molto, proprio perché loro sono vicini alla ferita iniziale. In modo confuso e primitivo, segnalano il dolore di stare al mondo: che vuol dire chiedersi se qualcuno ci amerà, se tutto questo avrà un senso o sarà il nulla. Questo atteggiamento, che percepisco in loro, è per me un alimento quotidiano".
E non le viene mai il dubbio che non ci sia niente da insegnare? Che insomma sia solo un'altalena di generazioni e un gioco delle parti, che ci tormentano e ci fanno un po' ridicoli, e alla fine tutto sarà comunque accaduto?
"Può darsi. Forse non c'è molto da insegnare, ma c'è molto da imparare. Nell'ultimo racconto del libro ho proprio affrontato questo tema: nessuno può dirci qual è la cosa giusta da sapere, ma noi non possiamo smettere di cercarla. Non c'è la missiva dell'imperatore, e neppure il messaggio in bottiglia. Ci sono invece delle specie di scrocchi, col tempo, che dicono di una progressiva apertura interiore: ci si allarga dentro, si accoglie più mondo. Se uno si abbandona alla tensione di questa ricerca, se affida ad essa tutte le proprie energie, allora la vita acquista una ricchezza maggiore. Io almeno ho questa speranza".


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