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Repubblica-La stagione riformista per pressione popolare

La stagione riformista per pressione popolare ILVO DIAMANTI OGGI si vota, per un referendum discusso, soprattutto per quel che riguarda il quesito relativo all'estensione dell'articol...

15/06/2003
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la Repubblica

La stagione riformista per pressione popolare

ILVO DIAMANTI

OGGI si vota, per un referendum discusso, soprattutto per quel che riguarda il quesito relativo all'estensione dell'articolo 18 alle piccole aziende. È una consultazione che ha diviso gli schieramenti. Uno schieramento in particolare. Il centrosinistra. Promosso da Rifondazione, ha aperto un conflitto fra i Ds, distanziato Cofferati dal "movimento". E ha allargato la frattura tra le confederazioni sindacali: la Cgil favorevole; contrari, radicalmente, Cisl e Uil. Il buon risultato ottenuto dall'alleanza fra l'Ulivo e Rifondazione alle recenti amministrative, peraltro, ha allentato la tensione nel centrosinistra.

MA i referendum costituiscono comunque una prova elettorale, il cui esito potrebbe, al di là delle intenzioni degli interessati, produrre lacerazioni dolorose. Nonostante la penombra mediatica in cui è caduto.
Il fatto è che il referendum, per sua natura e per il modo in cui è stato interpretato nel nostro Paese, ha assunto un significato politico che va oltre le specifiche materie che affronta; mentre, per altro verso, ha accentuato un ruolo concorrente, se non alternativo, rispetto all'azione dei partiti, indebolendone la legittimazione. Così come, per il sindacato, ha costituito un metodo di lotta "interno", spostando il confronto dalle aziende alla scena politica.
Il referendum: è un istituto di democrazia diretta, attraverso il quale i cittadini possono esprimersi su specifiche leggi (perlopiù, ma non solo, con finalità "abrogative"). Anche per questo, il referendum in Italia ha assunto un significato "critico" rispetto al sistema. Perché, nella gran parte dei casi, è stato promosso da comitati trasversali rispetto ai partiti. Perché ha attratto consensi trasversali rispetto ai partiti. Perché, sempre più, ha alimentato e riprodotto il sentimento antipartitico, intercettando il distacco della società dalla politica e la crisi dei soggetti di rappresentanza.
La stagione dei referendum in Italia sorge e si afferma negli anni settanta, con l'unico precedente della consultazione fra monarchia e repubblica del 1946.
Il primo, importante referendum è quello per l'abolizione del divorzio, promosso da comitati e circoli cattolici tradizionalisti. Spacca il mondo cattolico e la Dc e diventa, per questo, l'occasione per sancire la fine dell'unità politica dei cattolici. E per dimostrare che i cattolici, in politica, sono minoranza. Da allora, esclusi il referendum sull'adesione all'Unione Europea (1989) e quello confermativo sul federalismo (2001), si è votato complessivamente 12 volte, per un totale di 53 quesiti referendari.

Negli anni Settanta essi annunciano il distacco fra società e politica e la crisi della "democrazia dei partiti all'italiana". Non a caso ne è animatore il Partito Radicale, di Marco Pannella, che nelle forme, nei toni e nel linguaggio, profetizza e sospinge la critica alla "partitocrazia". D'altronde, il referendum è in sé uno strumento antagonista rispetto al costume elettorale italiano. In un contesto di forte controllo dei partiti sulla politica e sulla società, nell'ambito di un modello elettorale di tipo "proporzionale", il referendum impone una logica "maggioritaria", che rimescola le appartenenze partitiche, anche grazie al contributo di argomenti - come il divorzio, l'aborto, la giustizia - che mettono in crisi il tradizionale rapporto tra identità e politica. Poi, nel corso di questa stagione, è la legittimazione stessa dei partiti a diventare materia di critica sociale per via referendaria. Così nel 1978 oltre il 44% dei votanti esprime il suo accordo con l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Nonostante l'orientamento dei partiti nazionali fosse ovviamente negativo. Di referendum in referendum, peraltro, si indebolisce anche il legame fra cittadini e voto. Non è solo il referendum a produrre questo effetto. E' che il disincanto politico negli anni ottanta si allarga. Il voto non è più un atto né un segno di "fede". L'astensione si allarga, in tutti i tipi di elezione. Tanto più nei referendum. Nel 1987, nel referendum che associa diverse materie, relative alla disciplina della giustizia e al nucleare, la partecipazione elettorale è scesa al 65%. Così, alla scadenza successiva, promossa dagli ambientalisti per abolire la caccia, le organizzazioni venatorie (influenti a destra, al centro e a sinistra) scoprono e perseguono l'utilità del "non-voto-utile". Fanno, cioè, fallire il referendum sollecitando l'astensione. La partecipazione elettorale, infatti, si ferma poco oltre il 40%.
Il referendum, dunque, è percepito e gestito come un meccanismo concorrente all'azione dei partiti. E la società si abitua ad usarlo in questa direzione. In modo "strumentale". Vota quando serve, per quel che serve. Senza ascoltare le indicazioni dei partiti. Semmai contrastandole. Tanto che quando nel 1991 i partiti, di fronte al referendum, promosso da Mario Segni, per ridurre a una le preferenze di voto si oppongono quasi unanimi e Bettino Craxi, invita i cittadini ad "andare al mare" (praticando il non-voto-utile), la società decide e sceglie diversamente. Il 62% degli elettori va a votare, tutti o quasi, per il sì. Una scelta che appare, qual è, un segno di sfiducia nei confronti della democrazia dei partiti, della prima Repubblica fondata sul proporzionale. Da lì parte la cosiddetta "rivoluzione all'italiana", che determina la fine della prima Repubblica. Un processo scandito, accelerato dai referendum; come quello, seguente, 1993, che introduce la legge maggioritaria per l'elezione al Senato. È un sorta di "riformismo" gestito e imposto attraverso la pressione popolare. Che, al di là di altre considerazioni, ha conseguenze politiche, ma animo antipolitico. E procede parallelamente con la crisi dei partiti storici e l'affermarsi della democrazia mediatica. Tant'è che nel 1995 (qualcuno forse l'ha dimenticato) la via referendaria boccia la proposta di limitare il controllo delle concessioni televisive nazionale (chiaramente pensato contro Berlusconi).

Questa stagione si chiude alla fine del decennio, con il referendum del 1999, volto a rafforzare il dispositivo elettorale in senso maggioritario. Il quorum è mancato per una manciata di voti. Ma ciò segna la fine del riformismo per via referendaria. E indica l'esigenza di ritorno alla "normalità"; alla democrazia rappresentativa, restituendo responsabilità alle istituzioni, al Parlamento, ai partiti (o di quel che ne resta). L'esito del referendum successivo (nel maggio 2000: 32% di votanti), impostato sul medesimo obiettivo, ne è la logica conseguenza.
Da ciò il disagio che suscita questo referendum, perché, oltre ad alimentare le tensioni nei sindacati e nei partiti di sinistra, rischia di fallire, lasciando dietro di sé divisioni e delusione. Tuttavia è altrettanto vero che potrebbe costituire un nuovo punto di svolta. Per alcune ragioni.
Da un anno il clima sociale è cambiato. Si è aperta una stagione di protesta e di mobilitazione, impostata su temi che hanno al centro questioni importanti, come l'informazione, la pace. E il lavoro. Di cui l'articolo 18 costituisce un simbolo. In modo opinabile. Perché traduce il lavoro come "valore" (rendendo difficile, per questo, ricondurlo a una logica di riforma e contrattazione); e riduce il "diritto al lavoro" alla difesa di uno specifico "posto di lavoro". Tuttavia, al di là delle specifiche (e discutibili) "ragioni" che sostiene, il referendum potrebbe mobilitare consensi proprio per i "simboli" che agita, proponendosi come bandiera della resistenza contro le politiche del lavoro, piegate alla logica dell'uomo flessibile.
Potrebbe, inoltre, il referendum, intercettare la nuova protesta nei confronti delle istituzioni e dei partiti (compresi quelli di sinistra) sottesa alla recente stagione di partecipazione, rinnovando la spinta del "riformismo su pressione popolare", che ha caratterizzato gli anni novanta.
Anche se non c'è da credere che ne possa riproporre l'impatto, dirompente. Tuttavia, anche se il quorum venisse mancato, una partecipazione elevata al referendum, costituirebbe un segnale. Che il sistema politico e soprattutto il centrosinistra difficilmente potrebbero eludere.
Ma una partecipazione rilevante al referendum potrebbe avere un significato che va oltre la specifica materia affrontata. Riguarda il rapporto con il voto. L'abitudine a non votare. Per indifferenza o per scelta. Per oblio o per strategia. Prefigurando una democrazia senza elettori, Un'abitudine alla quale, personalmente, non riesco ad abituarmi.


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