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Repubblica-La deriva perdente dei leader dissonanti

La deriva perdente dei leader dissonanti GIANCARLO BOSETTI UN'ALTRA scissione a sinistra sarebbe più che straziante inutile, nel senso che se l'idea nasce dallo scontro senza fine D'Alem...

10/04/2003
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la Repubblica

La deriva perdente dei leader dissonanti

GIANCARLO BOSETTI

UN'ALTRA scissione a sinistra sarebbe più che straziante inutile, nel senso che se l'idea nasce dallo scontro senza fine D'Alema-Cofferati, una scissione non lo fermerebbe. Il fatto è che i leader della sinistra italiana sono generalmente imbattibili nella descrizione delle malefatte della "deriva estremistica" o dello "schiacciamento moderato" dei loro avversari interni (dipende dalla tendenza), sono investigatori implacabili dei guai che deriverebbero dal prevalere degli "altri", hanno una potenza analitica che lascia ammirati quando si tratta di verificare la "credibilità di governo" dei loro colleghi o la loro tenuta "in termini di valori e di identità". Sono invece decisamente meno imbattibili quando devono convincerci - tutti, dai girotondisti del "no" ai riformisti del "non basta dire no" - del fascino della "loro" propria merce, della loro offerta politica. Se spendessero una quota fissa delle energie che dedicano a sminuzzare la linea dell'altro a ben confezionare la propria, la sinistra italiana ne uscirebbe, per quanto composta di diverse anime, visibilmente trasformata, brillante, smagliante, seducente.
Ma non è quello che accade. E non è accaduto neanche all'ultima assemblea milanese dei Ds. Non a caso il programma non è oggetto di attenzioni significative. Quel che conta è la collisione, l'urto, l'attesa cornata del cervo per il comando del branco. La lotta per il comando, si capisce, è importante. Il fatto stesso che sia in corso significa poi che non è conclusa, vale a dire che non si sa chi comanderà (la sinistra, in senso stretto; perché la coalizione intera un numero uno ce l'ha ed è Prodi). Gli scontri sono dunque fisiologici in una fase di selezione del capobranco, ma il fatto che la vita politica ordinaria dell'opposizione si trasformi in un surrogato delle primarie, che in Italia non ci sono, e che questa guerriglia duri a tempi indefiniti finisce per fare emergere leader coriacei, corazzati, muniti di corna imponenti (scusate la metafora zoologica) come l'Alce gigante d'Irlanda, che si estinse però proprio a causa della eccessiva imponenza di quella "corona".
I criteri della lotta per la selezione - ecco un'altra imperfezione dell'incompleto sistema politico italiano - non è detto coincidano con quelli funzionali alla vittoria e al governo. Il risuonare di accuse dure e incrociate: indisciplina, tradimento, regressione culturale (cito a caso dal repertorio corrente negli ultimi giorni) fa pensare che molti finiscano per amare questo definirsi "contro" più che il definirsi "per". Rischiamo di veder prevalere, nella sinistra, quelli che la letteratura del management (Goleman, Boyatzis, McKee) chiama "leader dissonanti", gente che riesce a fare spirito di squadra "contro" qualcun altro, anziché i "leader consonanti" che sanno fare spirito di squadra "per" un comune obiettivo, e che "sanno innescare sentimenti positivi nelle persone che dirigono". Nel mondo del management si sa che i "dissonanti" intossicano le aziende, provocano stress, e soprattutto fatturano di meno. L'evidenza è forte e uno si chiede se il principio di consonanza non valga anche per la politica (Tra i consonanti metteremo Prodi, Amato e ora anche Fassino. Tra i dissonanti, non c'è dubbio, D'Alema e Cofferati. E tra i consonanti non dimentichiamo, per la parte sua, Berlusconi: quello che pensa di Bossi non ce lo ha mai detto perché si vede che non si dimentica mai di averne assolutamente bisogno).
Si sa che la politica non è il regno delle mammole, e che non si vince solo accumulando punti-bontà, ma c'è un aspetto per cui la "consonanza" sembra indispensabile e vincente rispetto al metodo della guerriglia: un leader riformista, aspirante a ruolo di governo, deve per definizione "imparare" anche da coloro di cui non condivide le idee, perché ha bisogno del loro consenso per realizzare il suo governo e il suo riformismo. Il leader dissonante invece "insegna" soltanto, tratta gli avversari interni da didatta irritante anche quando ne assume magari forzosamente le posizioni (vedi le divisioni sull'Iraq in Parlamento, altrimenti inspiegabili). Insomma l'obiettivo cruciale non è eliminare quelli che non condividono la tua leadership ma convincerli a darti la loro delega. Non è indispensabile che lo facciano con un incontenibile entusiasmo, può bastare che tu rappresenti per loro il "meno peggio". Con le vere primarie per le presidenziali americane il processo risulta più chiaro e meglio scandito: il candidato democratico non ha solo il compito, decisivo, di contendere i voti degli incerti a quello repubblicano, ma anche quello, preliminare, di vincere la candidatura nel suo elettorato. Se sbaglia questa partita, l'altra non comincia neppure. Il difficile per il Clinton di turno non è battere Jessy Jackson, ma ottenere da lui la confluenza dei suoi voti e una delega a vincere per governare, su una base convincente e realistica anche per gli elettori moderati. I democratici, senza l'appoggio dell'ala sinistra non ce l'avrebbero fatta mai. E la stessa cosa è vera quasi sempre per tutte le esperienze vincenti di partiti o coalizioni elettorali di sinistra o di destra. La leadership o diventa inclusiva e consonante o perde. Sul fatto che le sinistre siano due, secondo uno schema che tende a ripetersi in tutto il mondo, ci sono pochi dubbi. Ma l'accanimento "didattico" nei confronti dei radicali perché troppo radicali o dei moderati perché troppo moderati è nocivo e inutile. Tanto poi si deve confluire. A meno che si preferisca perdere.


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