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Repubblica-L'ARMA POLITICA DI TELEKOM SERBIA -di E.Scalfari

L'ARMA POLITICA DI TELEKOM SERBIA EUGENIO SCALFARI CHI OGGI volesse fare il punto dell'affaire Telekom-Serbia, diventato negli ultimi mesi una vera e propria bolla mediatica a uso politico,...

07/09/2003
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la Repubblica

L'ARMA POLITICA DI TELEKOM SERBIA
EUGENIO SCALFARI
CHI OGGI volesse fare il punto dell'affaire Telekom-Serbia, diventato negli ultimi mesi una vera e propria bolla mediatica a uso politico, dovrebbe leggersi una quantità enorme di documenti: atti della Commissione parlamentare d'inchiesta, testimonianze, ricostruzioni giornalistiche, dichiarazioni e interviste di protagonisti o presunti tali, di membri della Commissione, d'esponenti del governo, della maggioranza, dell'opposizione.
Personalmente, oltre ad aver seguito quella vicenda fin da quando la bolla ha cominciato a gonfiarsi anzi a esser gonfiata da chi aveva deciso di farne un'arma di distruzione di massa contro i propri avversari politici, mi sono sobbarcato a quest'ingrato compito subito dopo l'improvvida (avrebbe detto ai suoi tempi Amintore Fanfani) dichiarazione di Sandro Bondi portavoce di Forza Italia. Più o meno una settimana fa Bondi ha infatti perentoriamente invitato a dimettersi dai loro incarichi pubblici tutti coloro che avessero commesso una "culpa in vigilando" dimostrando così d'essere inadatti a esercitare incarichi di controllo di rilievo istituzionale.
Bondi non è nuovo a interventi (apparentemente) estemporanei su questioni delicate. I cultori d'una nuova e speciale disciplina che potremmo definire "bondiologia" sostengono che questo personaggio somigliante nelle fattezze del volto paffuto all'Omino di burro che conduce Pinocchio e Lucignolo nel Paese dei Balocchi, è stato incaricato dal suo burattinaio d'un compito specifico: portare all'estremo limite della vis polemica le tesi più avventurose (avventuriste) a beneficio delle curve nord e sud della tifoseria berlusconiana, per poi consentire ai suoi superiori e a tutti i "terzisti" dell'ala moderata di sopire senza troncare. Il Bondi insomma avrebbe l'incarico di far esplodere le mine collocate da sapienti artificieri, infiammare gli animi degli ultrà, diffondere sconcerto e ventilare fango, consentendo poi alla squadra dei pompieri di contenere l'incendio senza spegnerlo, in attesa di nuove e sempre più intense fiammate.
Spesso si è visto addirittura l'incendiario Bondi dare mano ai valorosi pompieri sopraggiunti, come se quelle frasi, quelle insinuazioni, quelle esche da piromane fossero state collocate da altri contro i quali il nostro Omino di burro era pronto a lanciare le sue rettifiche e se del caso le sue scomuniche.

Secondo i più esperti in "bondiologia" questi comportamenti fanno parte di una tecnica della comunicazione molto sofisticata che si fonda sulla scarsa memoria e l'ancor più scarsa attenzione del pubblico medio, al quale è sufficiente fornire una continua sequenza di impressioni subliminali senza tema di smentire o modificare quanto appena detto, che nessuno ricorda più.
Siamo insomma al trionfo dei fratelli De Rege e del teatro dell'assurdo da tribune e da persone che rivestono ruoli di rilievo nella nomenclatura politica e perfino istituzionale.
Del resto non erano passati che quattro giorni dalla sortita bondista su Telekom-Serbia che un'altra ne seguiva sull'antropologia dei giudici che sarebbero inevitabilmente matti o quanto meno disturbati mentali: il Capocomico recita la battuta, chi gli fa da spalla la rilancia. Poi lo stesso Capocomico e la sua spalla smentiscono se stessi.
Come li volete definire dei tipi così? Ce ne sono in ogni compagnia di giro, ma certo questi ne hanno fatta di strada.
* * *
Torniamo a Telekom-Serbia. Per raccapezzarsi nel mare di carte disponibili al pubblico occorre piuttosto levare che mettere, come diceva Michelangelo mentre faceva emergere a colpi di scalpello e martello le statue delle cappelle medicee dai blocchi del marmo di Carrara. Occorre cioè andare all'essenziale in attesa che sia la Commissione sia la Procura torinese concludano i loro lavori.
L'essenziale sono: i motivi che spinsero la Telecom a realizzare l'operazione e le modalità con le quali essa si svolse; le testimonianze raccolte dalla Commissione; la differenza tra il prezzo d'acquisto della partecipazione nel 1997 e il prezzo di realizzo della medesima, rivenduta cinque anni dopo allo stesso venditore di cinque anni prima; la perdita subita dal Tesoro (cioè dai contribuenti) a seguito di questo percorso. E, ovviamente, l'esistenza o meno di tangenti e l'individuazione di chi le percepì. Infine l'uso politico che fin qui è stato fatto di tutta questa vicenda, implicito fin dal nascere della Commissione d'inchiesta votata soltanto dalla maggioranza parlamentare contro il parere dell'opposizione.
Viene meno cioè fin dall'inizio quella finalità condivisa che dovrebbe presiedere alla nascita d'un organo parlamentare destinato per definizione a operare al di sopra delle parti per l'accertamento obiettivo della verità.
L'opposizione nega infatti che un'operazione effettuata da una società operante sul mercato in piena autonomia possa essere oggetto di inchiesta parlamentare; non esclude che siffatti negozi possano dar luogo a reati di varia natura, l'accertamento dei quali tuttavia è di esclusiva competenza del giudice penale e non dell'attività di controllo del Parlamento. La maggioranza invece fa discendere la competenza parlamentare dalla circostanza che la società Telecom nel momento in cui acquista la partecipazione del 29 per cento in Telekom-Serbia è ancora posseduta per il 61 per cento dal Tesoro, pur essendo in corso la sua privatizzazione che vedrà scendere la presenza pubblica nel capitale sociale al 3,9.
Ma al di là di questa controversia iniziale, l'uso politico della vicenda comincia subito dopo con il fatto che l'indagine poggia prevalentemente se non addirittura esclusivamente sulle rivelazioni del teste Igor Marini, la cui credibilità è estremamente fragile dati i suoi precedenti penali di truffatore e riciclatore di denaro sporco, sotto inchiesta per tali reati sia da parte della magistratura italiana sia da parte di quella svizzera.
L'inchiesta parlamentare comunque decolla partendo da alcuni presupposti.
Il primo è che la partecipazione in Telekom-Serbia fosse priva di qualsivoglia giustificazione economica aziendale; il secondo che essa fosse in palese contraddizione con gli obiettivi della politica estera europea e atlantica nei Balcani; il terzo che la compravendita di Telekom-Serbia avesse come solo risultato quello di impinguare le finanze del regime di Milosevic e quelle personali del dittatore serbo; il quarto che cospicue tangenti fossero state percepite da esponenti politici italiani e addirittura da membri del governo di centrosinistra dell'epoca; il quinto che dall'intera e per più versi oscura vicenda fosse scaturito un danno enorme per il pubblico erario, risultante dalla differenza tra il prezzo d'acquisto della partecipazione e il prezzo di vendita realizzato cinque anni dopo.
Su questi cinque presupposti si è sviluppata l'attività d'indagine della Commissione, guidata in buona parte del suo percorso da un assai improbabile Virgilio nella persona di quel Marini già ricordato, che ha asserito l'esistenza di cospicue tangenti ed ha fornito i nomi di alcuni percettori delle medesime nelle persone di Prodi, all'epoca presidente del Consiglio, Dini, all'epoca ministro degli Esteri, Fassino, all'epoca sottosegretario agli Esteri, Rutelli, Mastella, Veltroni. La prova delle tangenti dovrebbe trovarsi in un'ampia documentazione depositata dal Marini presso un notaio svizzero nel frattempo deceduto. Le carte in questione sono passate in un archivio pubblico svizzero e di qui trasferite dall'autorità giudiziaria svizzera a quella italiana, cioè alla Procura di Torino e alla Commissione parlamentare d'inchiesta che ne avevano fatto richiesta. Dovrebbero pervenire ai destinatari fin da domani lunedì 8 settembre ed essere rese pubbliche entro dieci-quindici giorni.
Altre prove, allo stato dei fatti, non sono emerse nonostante le molteplici testimonianze acquisite dalla Commissione, mentre si sono consolidati ed estesi sempre più consistenti indizi di truffa e riciclaggio a carico del Marini e dei suoi soci in affari da parte della Procura torinese. Dalle testimonianze sono altresì emerse modalità a dir poco inconsuete per quanto riguarda l'iter della compravendita in questione, tali da dare la ragionevole certezza che tangenti siano state pagate sia ad autorità jugoslave sia a mediatori e procacciatori e che l'intera operazione sia stata messa in essere nell'ambito di Telecom Italia senza la necessaria cautela e trasparenza richieste ad una società quotata in Borsa.
Queste evidenti anomalie, le strane modalità della trattativa di compravendita e della sua esecuzione, furono del resto oggetto di numerose inchieste giornalistiche, la prima delle quali condotta dai colleghi Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini con dovizia di informazioni e pubblicata due anni fa da Repubblica.
Va ancora osservato che mentre la Commissione d'inchiesta è tuttora in cerca di prove per quanto riguarda il pagamento di tangenti versate a uomini politici italiani (ricerca che peraltro, secondo molti studiosi tra i quali Sabino Cassese, sarebbe fuori dai compiti d'istituto di una Commissione parlamentare) la stessa Commissione, o meglio la sua maggioranza, hanno dato per certi e provati fin dall'inizio almeno quattro dei cinque presupposti sopraindicati e in particolare quelli riguardanti le motivazioni aziendali dell'operazione, le sue motivazioni politiche, l'enormità delle perdite subite dal pubblico erario. La trasformazione di tali presupposti ipotetici in certezze assolute configura quell'uso politico di cui si è già detto, unito alla propalazione di notizie calunniose su avversari politici che ne rappresenta l'aspetto più grave e più improprio.
* * *
A un certo punto della vicenda gli uomini che ne hanno fin qui guidato l'uso politico decidono una svolta di strategia. Questo punto è di grande importanza e merita secondo me un'attenta riflessione.
Il cambiamento è di pochi giorni fa e consiste nell'abbandono dell'ipotesi principale sulla quale fino a quel momento si erano mossi (tangenti percepite da uomini politici di centrosinistra) e sull'emergere di un'altra tesi e cioè quella della "culpa in vigilando". Può anche darsi che i personaggi accusati da Igor Marini non abbiano percepito tangenti, ma quelli di loro che avevano all'epoca incarichi pubblici sono oggettivamente venuti meno ai loro doveri di controllo o li hanno malissimo esercitati. Pertanto dovrebbero dare immediatamente le dimissioni dagli incarichi pubblici che tuttora rivestono, per manifesta incapacità.
Il mancato controllo riguarderebbe: l'inesistenza di motivazioni aziendali per l'operazione Telekom-Serbia; la contraddizione tra quell'operazione e la politica estera dell'Occidente nei confronti di quel paese; l'enormità della perdita subita dal pubblico erario. Appunto tre dei cinque presupposti che per la maggioranza della commissione non rappresentano ipotesi di lavoro ma assolute certezze già raggiunte.
Il mutamento di strategia viene ufficializzato dal portavoce di Forza Italia, Sandro Bondi, in una prorompente dichiarazione di pochi giorni fa; ma già era stato più volte anticipato dai "falchi" del Polo e perfino da chi da qualche tempo sembrerebbe prediligere connotati più miti. Parlo di Gianfranco Fini, che da tempo insiste sul tema della perdita erariale come del vero e inoppugnabile peccato omissivo compiuto dagli uomini del centrosinistra.
In apparenza questo mutamento di strategia parrebbe dettato dal desiderio di mitigare le roventi accuse di tangentismo e potrebbe essere stato provocato dalla sempre più evidente inattendibilità del teste Marini. Quindi sopraggiunte mitezza e cautela.
In realtà il cambio di strategia comporta un inconveniente di primaria grandezza: esso include infatti il nome del presidente della Repubblica nel novero degli accusati di "culpa in vigilando", nella sua qualità di ministro del Tesoro all'epoca dei fatti in questione. È possibile che alcuni degli autori della nuova strategia non se ne siano resi conto; è altrettanto possibile che altri ne fossero invece pienamente consapevoli e che quella fosse addirittura la loro intenzione. Nessuno potrà mai saperlo poiché le intenzioni non sono materia provabile, ma il risultato non cambia: nel momento in cui si punta sull'omesso controllo e si chiedono le dimissioni di quelli che ancora rivestono cariche pubbliche, gli obiettivi di questa manovra sono evidentemente due persone: Romano Prodi - allora presidente del Consiglio e ora presidente della Commissione di Bruxelles - e Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro e ora presidente della Repubblica.
Dopo la già ricordata dichiarazione di Bondi la nuova strategia diventa la linea di tutto il Polo e apre oggettivamente un gravissimo conflitto con il Quirinale. Ciampi ha confidato ad alcuni amici che quelle accuse non lo hanno minimamente turbato, sicuro come è della propria integrità morale e dell'inconsistenza dell'accusa di omesso controllo. Dal canto loro gli esponenti del Polo (tranne Berlusconi) si sono affrettati a escluderlo dal novero delle persone nel mirino di Bondi. Lo stesso Bondi ha negato un simile coinvolgimento. Ma queste contorsioni dialettiche non reggono: se l'accusa è quella di mancata vigilanza e la richiesta è quella delle dimissioni, esse non possono che riguardare Ciampi e Prodi. Non si può escludere Ciampi e continuare ad attaccare Prodi poiché se doveva vigilare sulle operazioni di Telecom l'allora presidente del Consiglio, altrettanto doveva fare l'allora ministro del Tesoro.
Dall'analisi dei testi emerge dunque questa prima conclusione: il portavoce di Forza Italia e tutti i maggiori esponenti di quel partito - nell'assordante silenzio del presidente del Consiglio e capo del medesimo partito - hanno chiesto le dimissioni del presidente della Repubblica insieme a quelle del presidente della Commissione di Bruxelles. Se queste non sono finalità eversive, giudichino i lettori come debbano essere definite. Tanto più che poggiano su quei famosi presupposti gabellati per verità assolute e invece del tutto inconsistenti.
* * *
Inconsistente è la rilevanza aziendale dell'operazione Telekom-Serbia, sia dal punto di vista dell'ammontare confrontato col fatturato della Stet dell'epoca sia con la situazione patrimoniale della società: a differenza delle Telecom francese e tedesca cariche di montagne di debiti, Telecom Italia era infatti nel '97 pienamente liquida e in pareggio patrimoniale. Era invece priva di partecipazioni all'estero, contrariamente alla politica espansiva seguita dalle altre sue concorrenti europee. Di qui l'attivismo che pervase in quegli anni i dirigenti di Telecom e che li indusse ad alcuni rilevanti errori e a ingiustificabili leggerezze. L'irrilevanza quantitativa dell'operazione con la Serbia emerge anche dal fatto che il consigliere delegato della società poteva concluderla senza neppure bisogno di informarne il presidente e di ottenerne la firma (vedi deposizione di Guido Rossi, allora e per poche settimane ancora presidente di Telecom). Doveva solo informarne il consiglio, cosa che Tomasi di Vignano fece in quattro minuti.
Pensare che una transazione di questa natura avesse bisogno del visto del ministro del Tesoro e del presidente del Consiglio dei ministri è pura sciocchezza: impiantare su questa sciocchezza un attacco politico di quella gravità è calunnia con finalità eversive, se consapevole; oppure assoluta incapacità di giudizio se inconsapevole.
Inconsistente è anche la pretesa contraddizione politica in cui sarebbe incorsa la Telecom stipulando un contratto con la Jugoslavia di Milosevic.
Dopo l'accordo di Dayton del 1995 l'atteggiamento degli Usa e dell'Europa verso il dittatore jugoslavo era totalmente mutato. Fu tolto l'embargo, furono riaperti i canali del credito bancario e delle istituzioni monetarie internazionali, si convenne che dare respiro all'economia jugoslava poteva avviare la dittatura verso forme evolutive e meno nazionalistiche.
Questi calcoli della diplomazia internazionale si dimostrarono radicalmente sbagliati e col senno di poi lo si può affermare. Ma questo era l'ambiente internazionale in cui maturarono vari investimenti e operazioni finanziarie con il governo di Belgrado e tra questi l'acquisto del 49 per cento di Telekom-Serbia, effettuato dall'azienda italiana e da quella greca.
* * *
Rimane la questione dell'"immensa" perdita subita dall'erario italiano. Luigi Spaventa, sul Corriere della Sera di pochi giorni fa, ne ha fornito le cifre, del resto facilmente desumibili dai bilanci di Telecom. Eccole.
Il prezzo pagato da Telecom fu di circa 900 miliardi di vecchie lire. La partecipazione fu rivenduta cinque anni dopo dall'azionista di maggioranza Tronchetti Provera per circa 400 miliardi. La differenza - gridano i falchi del Polo - è dunque di 250 milioni di euro (500 miliardi di vecchie lire) e questa è la perdita per lo Stato italiano.
Lo Stato - ricorda Spaventa - possedeva al momento dell'operazione il 61 per cento di Telecom; scese al 44 un mese dopo e al 3,90 alla fine del '98.
Nel bilancio di quell'anno la Telecom svalutò la partecipazione a 754 miliardi a causa delle turbolenze politiche che nuovamente agitavano la Jugoslavia; altre svalutazioni seguirono negli anni successivi fino ad arrivare alla cifra di 378 miliardi nel bilancio Telecom del 2000. Fu più o meno questo l'importo al quale Tronchetti Provera rivendette la partecipazione: il nuovo azionista di controllo stava liquidando gli investimenti all'estero della società e aveva interesse a far cassa; per lui fu una vendita alla pari col prezzo di carico.
Alla fine dei conti lo Stato ha perso, secondo il corretto calcolo di Spaventa, 10 milioni di euro. Crolla dunque come un castello di carte l'"immenso" danno erariale valutato 250 milioni di euro dai falchi forzitalioti.
Hanno dunque perso gli azionisti privati? Il parco buoi della Borsa? Spaventa ricorda che l'Opa di Colaninno, nel frattempo intervenuta, si effettuò in presenza della partecipazione in questione e così anche il successivo ingresso in campo della Pirelli di Tronchetti Provera. Rispetto all'entità del patrimonio del gruppo Telecom e di questi passaggi dei pacchi di controllo, la perdita sull'operazione serba non fu minimamente avvertita né nel patrimonio della società né nelle quotazioni del titolo in Borsa.
* * *
Questa è la bolla mediatica e politica della vicenda. Se la Procura di Torino troverà reati, da chiunque commessi, chiederà il rinvio a giudizio degli accusati e il Tribunale deciderà della loro eventuale colpevolezza. Siamo certi che la Procura e il Tribunale non guarderanno in faccia nessuno e si atterranno alla norma fondamentale dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Se emergeranno calunnie, Procura e Tribunale individueranno e puniranno i calunniatori. Se essi fossero membri del Parlamento è auspicabile che rinunceranno alle loro prerogative per essere giudicati.
Da questa commissione parlamentare d'inchiesta assai poco ci aspettiamo. Se rinsavisse e rispettasse i criteri di rigorosa serietà nell'adempimento dei suoi compiti d'istituto, ne saremmo lieti e lo scriveremmo.


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