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Repubblica-Il Dpef, la ricerca

Il Dpef, la ricerca ALDO SCHIAVONE Il risultato era purtroppo scontato, di questi tempi, ma non per questo meno deludente. L'ultimo Documento di programmazione economica e finanziaria è ...

20/07/2003
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la Repubblica

Il Dpef, la ricerca

ALDO SCHIAVONE

Il risultato era purtroppo scontato, di questi tempi, ma non per questo meno deludente. L'ultimo Documento di programmazione economica e finanziaria è l'ennesima occasione perduta per un'autentica svolta nelle politiche pubbliche di allocazione delle risorse nel campo della scuola e dell'università. Molte parole (senza conseguenze) sull'importanza della formazione e della ricerca, e poi le miserie di sempre, che inchiodano la spesa intorno a quel famigerato uno per cento del prodotto interno lordo (ormai un'autentica soglia della vergogna), ben lontano dall'Europa che conta - non diciamo dall'America o dal Giappone.
E tuttavia non ne parlerà nessuno: l'argomento, dopo tanto inutile discutere e denunciare, sembra ormai a tutti logoro e vieto. E poi adesso sono stati almeno evitati nuovi tagli; il ministro Moratti è riuscito a farsi sentire: qualcosa per finanziare l'avvio della riforma dei cicli scolastici sembra sia stata trovata; il sistema universitario non è stato ulteriormente penalizzato; insomma, pare sia stato ottenuto quanto basta per tirare ancora avanti un po', senza troppe proteste, e senza aumentare eccessivamente i danni.
Ma è esattamente così - silenzi per estenuazione e soddisfazione di piccoli successi tattici per evitare il peggio - che si consolida, in termini strategici, la tendenza dell'Italia ad abdicare e a fermarsi, e ad accettare come inevitabile il declino e la perdita d'orizzonte delle sue classi dirigenti: opportunità private in cambio di un desolante oscuramento dello spirito pubblico; rifiuto a raccogliere le sfide collettive, a scegliere insieme; stare ai margini, negli interstizi; galleggiare: dopo si vedrà.
Bisogna perciò saper riprendere il discorso dal suo vero punto critico, e non rassegnarsi. C'è una ammissione da fare. Mezzo secolo di politiche democristiane hanno considerato la scuola (e l'Università) molto più un serbatoio di voti e di consenso a basso costo che non una ricchezza e un investimento. Una sindacalizzazione sostanzialmente corporativa, senza storia e senza idee, ha fatto il resto. In un simile contesto, tener basso il livello delle risorse era assolutamente conveniente: la loro destinazione era, per dire così, tutta politica, e assai raramente raggiungeva obiettivi strutturali. Si produceva in tal modo una distorsione che determinava a sua volta culture, mentalità, comportamenti, attese. E che ha indotto nell'opinione pubblica la convinzione - oggi assai estesa e radicata - che il mondo della scuola, dell'università, della ricerca sia stato e continui a essere un grande universo opaco, caratterizzato da connivenze e da oligarchie impenetrabili e da una lunga tradizione di spreco di pubblico denaro, e dove quindi tagliare non fa mai male (il ministro Tremonti ne sa pur qualcosa) mentre investire è un salto nel buio.
Questa persuasione - dagli esiti davvero drammatici, perché finisce con il separare la società dai luoghi dove si prepara il suo futuro, e che emerge ad ogni stretta finanziaria - ha un suo fondo di verità, per quanto esagerato. Essa fa da retroterra e da alibi per l'attuale e colpevole abbandono. E perciò lamentarsi non basta. Se si vuole davvero cambiare, si deve riuscire a rovesciare un tale atteggiamento: e riconciliare finalmente il Paese con le istituzioni del suo sapere e della sua formazione. Ma come?
Ecco alcune regole cui, per cominciare, ci si dovrebbe attenere:
1. Vincolare ogni risorsa aggiuntiva all'indicazione precisa della sua destinazione finale, con possibilità di verifica costante dell'intero processo, dall'erogazione alla spesa effettiva, sensibilizzando contemporaneamente ogni volta l'opinione pubblica sulla necessità dell'investimento.
2. Eseguire e rendere pubblica una mappatura del sistema scolastico, con l'indicazione delle zone o delle situazioni dove si richiedono interventi strutturali per il raggiungimento di standard europei, con una rigorosa indicazione delle priorità.
3. Razionalizzare il sistema universitario (sedi e corsi di laurea) cresciuto in modo affatto caotico, attraverso una trasparente e tempestiva politica d'incentivi, che obblighi a diversificare, a specializzarsi ed essere competitivi, o a chiudere.
4. Costruire una rete dell'alta formazione (dottorati e quant'altro) intorno a poli nazionali di grande prestigio, in grado di collegare ricerca e didattica avanzata, e che diano conto regolare e pubblico delle scelte, dei programmi e dei risultati nei singoli campi in cui operano.
5. Favorire l'apertura di tavole permanenti d'incontro e di concertazione fra scuole, università, poli d'alta formazione, regioni, enti locali, sistema bancario e mondo delle imprese per l'individuazione comune di singoli obiettivi in grado d'attrarre capitali non statali, la cui gestione e spesa dovrebbe essere verificata da gruppi di controllo congiunti.
Troppo difficile? Troppo ovvio? Troppo utopistico? Ma da qualche parte bisogna pur cominciare, se non vogliamo perderci.


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