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Repubblica-Il dovere del dialogo

Il dovere del dialogo ( MASSIMO GIANNINI Per ora sembra prevalere la prudenza. Ma se è vero, come spera Cofferati, che "dopo questo sciopero molte cose possono cambiare", di segnali non se...

17/04/2002
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la Repubblica

Il dovere del dialogo

(
MASSIMO GIANNINI

Per ora sembra prevalere la prudenza. Ma se è vero, come spera Cofferati, che "dopo questo sciopero molte cose possono cambiare", di segnali non se ne vedono. Il Cavaliere smorza i toni, ma conferma la sostanza: dialogo sociale sì, ma le riforme non si fermano. Così la giornata di ieri segna un pericoloso punto di non-ritorno. Chi perde sull'articolo 18 può perdere l'intera posta, di qui alla fine della legislatura. Se perde il centrodestra sbiadisce a vecchio "governo di coalizione", confermando le stesse debolezze del centrosinistra pur avendo una ben più solida maggioranza parlamentare. Se perde il sindacato regredisce a "grande patronato", subendo la fine di una stagione concertativa che l'ha visto supplire alla latitanza della politica con la sua capacità di interpretare interessi generali.
La contesa è paralizzante. Il campo è ingombro di equivoci. Il primo equivoco è considerare quello di ieri uno sciopero "politico". Non è così. A scioperare non è stata solo la Cgil (sospettata a sproposito di voler buttare giù il governo a colpi di piazza) ma anche la Cisl, la Uil, l'Ugl e i sindacati della destra. A meno di non considerare "comunisti" 13 milioni di lavoratori, la ragione di questo sciopero è dunque "sindacale". Perché sindacale è l'interesse a difendere la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa, che per pura teoria può riguardare ciascuno di quei 13 milioni di lavoratori.
Il secondo equivoco è liquidare quello di ieri come "lo sciopero dei padri contro i figli", o quello "dei conservatori contro i riformisti". Non è così. Ieri, nelle piazze di 21 città italiane, sfilavano insieme i padri e i figli, uniti da una stessa idea dei diritti. Quella proposta da Berlusconi sull'articolo 18 non è una riforma. E' una misura parziale, estemporanea e scorretta. Non risolve le sperequazioni del Welfare, che attraversano oltre 2 milioni di lavoratori coordinati e continuativi, 3 milioni di dipendenti nelle imprese con meno di 15 addetti, 4 milioni di "sommersi". L'unico effetto che produce è consentire che due persone, con contratto a tempo indeterminato, lavorino nella stessa fabbrica, alla stessa macchina, con gli stessi orari, ma uno protetto dallo Statuto, l'altro privo di qualunque tutela.
Perché tanta ostinazione nel limitare un diritto? In assenza di spiegazioni convincenti (di merito) viene il sospetto che il movente "politico" sia quello del governo che attacca, non del sindacato che resiste. E cioè che l'obiettivo vero (di metodo) sia quello di dare una lezione definitiva a quel "terribile blocco sindacale che da 20 anni ferma l'Italia", come si ostina a ripetere in privato il presidente della Confindustria.
Il sindacato non è esente da colpe. Cofferati, riformista ispirato alla migliore tradizione di Luciano Lama, avrebbe potuto e dovuto negoziare una grande riforma dello Stato sociale, trattando con il governo Prodi le proposte della Commissione Onofri o con il governo D'Alema quelle sulla flessibilità del lavoro. Bocciare quei tentativi come minacciosa espressione di un "fuoco amico" fu un errore. Ma nel bilancio degli anni '90 il sindacato lascia all'Italia un attivo formidabile. Nello sfacelo politico post-Tangentopoli, è il patto tra la tecnocrazia più illuminata e le parti sociali più responsabili che "costituzionalizza" Maastricht e risolve nell'ancoraggio forzoso all'Europa le distorsioni di un Paese altrimenti condannato a una deriva terzomondista. E' a saldo implicito di quel patto che il centrosinistra arrivato al governo nel '96 con una rilegittimazione elettorale porta Ciampi al Quirinale. Ed è a saldo implicito di quel patto che Cgil, Cisl e Uil lo sostengono, pagando sulla propria pelle il "costo" del loro senso di responsabilità. Dal 1992 al 2000 il potere d'acquisto di un lavoratore è invariato, anche se nel frattempo l'indice della produttività del lavoro passa da 100 a oltre 113 punti.
Oggi si può dire che questo patrimonio di valori, di sacrifici e di risultati si può allegramente "rottamare", buttando via insieme l'Europa, la concertazione, il Signornò della Cgil e l'intera classe dirigente dell'Ulivo che ne ha tollerato i "veti". Ma se è questo che il governo Berlusconi ha in mente, deve chiarire, a se stesso e al Paese, quale modello alternativo di società vuole proporre. La Thatcher non lo è. Sono passati quasi vent'anni. La Gran Bretagna non è l'Italia. E con tutto il rispetto, il Cavaliere non è la Lady di Ferro. Se invece Berlusconi non ha questo obiettivo, allora ha di fronte una formidabile opportunità. Colga l'occasione dello sciopero generale, per riaprire il confronto con il sindacato. E se proprio non vuole stralciare la modifica dell'articolo 18, la subordini a una grande, vera riforma del Welfare, dagli ammortizzatori sociali alla formazione. Trovi le risorse per finanziarla. Non arriva ai chimerici 10 miliardi di euro che pretende Cofferati? Si fermi ai più realistici 5 che propone Giuliano Amato. Ha il ministro del Tesoro più creativo d'Europa: possibile che non gli venga un'idea innovativa, se non quella di aggiungere un bis al suo cognome? Se fa tutto questo mette con le spalle al muro il sindacato, che ha comunque il dovere di confrontarsi su un nuovo "Statuto dei lavori", inclusivo e non punitivo. Se fa tutto questo rende un grande servizio al Paese. E fa diventare prezioso lo sciopero generale di ieri.


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