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Repubblica-Il dilemma fatale dell'Europa

ALMENO nei giorni del Ferragosto, giorni di vacanza e spensieratezza, bisognerebbe parlare d'altro che non i soliti guai del vivere quotidiano, privato e pubblico. Bisognerebbe parlare, credo, di feli...

18/08/2002
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la Repubblica

ALMENO nei giorni del Ferragosto, giorni di vacanza e spensieratezza, bisognerebbe parlare d'altro che non i soliti guai del vivere quotidiano, privato e pubblico. Bisognerebbe parlare, credo, di felicità. Della felicità.
Ho provato a pensarci e a buttar giù qualche idea ma, sarà per mia incapacità, con risultato zero. Le cronache ci fanno vedere un'Europa sott'acqua con immagini da diluvio e con i grandi fiumi che percorrono le sue pianure imbizzarriti come cavalli selvaggi, le sue città d'arte devastate, cose e persone imbrattate di fango tra le acque tumultuose e mulinanti. Le prospettive future parlano d'un clima impazzito, in gran parte per colpa del nostro modo di vivere: correnti deviate, venti che soffiano all'incontrario, ghiacciai che si sciolgono e livello dei mari che minaccia d'alzarsi sommergendo nei prossimi cinquant'anni coste e città.
Tra pochi giorni si riunirà a Johannesburg il grande convegno dell'Onu sullo sviluppo sostenibile, duecento paesi rappresentati, 60 mila delegati; ma già si sa che sarà un mezzo fallimento. Per salvare almeno la faccia, alla fine il solo accordo possibile sarà quello di non far nulla ma impegnarsi a curare finalmente e seriamente il pianeta a partire dal 2040, quando cioè i danni dell'incuria saranno diventati insopportabili per tutti, poveri o ricchi che siano. La generazione che prenderà questa decisione, nel 2040 non ci sarà più; poco male: ne lasceremo il peso ai figli e ai nipoti.
Tante cose stiamo decidendo di lasciare sulle spalle dei figli e dei nipoti: questo il nostro miserabile modo di procurarci un sorso di felicità immediata? Eppure negli anni della nostra giovinezza pensavamo di operare "per preparare ai figli e ai nipoti un mondo più civile, più equo, più prospero". Non l'abbiamo infinite volte ascoltato e ripetuto con convinzione questo slogan che era diventato un impegno ed anche una ragione di speranza e di futuro? Perciò - mi scuserete cari lettori - non parlerò oggi di felicità e della felicità. Aspettiamo che l'ondata passi, che passi la nottata come diceva Eduardo. Intanto facciamo quel che si può per preservare almeno il poco che resta di quanto fu costruito con tanta fatica negli anni che ci stanno alle spalle.
Gli europei assistono con palpabile indifferenza a quest'ondata controriformista che sta montando nelle capitali e nelle Vandee del nostro continente
Il passo avanti può venire solo dalla nascita dell'Unione politica, guidata da un organo sovranazionale derivato dal Parlamento già eletto democraticamente
EUGENIO SCALFARI

(segue dalla prima pagina)
Tra le realtà da preservare c'è l'Europa, o almeno dovrebbe esserci. Abbiamo impiegato mezzo secolo soltanto per metterne le fondamenta e per dotarla d'una moneta unica, ma un inestimabile risultato l'abbiamo almeno raggiunto: abbiamo bandito la guerra dal nostro continente. L'eccezione balcanica, che riesplose sanguinosamente prima a Sarajevo, poi in Serbia e in Kosovo, è infine rientrata in un'accettabile norma. Oggi, da Gibilterra fino alla tundra siberiana, la guerra ha cessato d'incombere su un territorio che per millenni ne è stato il principale teatro.
Temo che gli europei non apprezzino quanto dovrebbero un risultato così prezioso, un valore così immenso, che va perennemente consolidato con un'opera costante di manutenzione e innovazione. Vedo invece che da qualche tempo quella manutenzione è trascurata, il lavoro ancora incompiuto per la costruzione europea non procede, anzi minaccia di regredire. E vedo che gli europei assistono con palpabile indifferenza a quest'ondata controriformista che sta montando nelle capitali e nelle Vandee del nostro continente.
Le cause sono molte e sono state più volte esaminate. Va anche detto che a quelle endogene se ne aggiungono altre non meno robuste che provengono dall'esterno. Ma ce n'è una di queste cause che dipende esclusivamente da noi europei e che è d'immediata attualità. Riguarda lo stato dell'economia, dello sviluppo, del lavoro, delle regole comunitarie. Riguarda, più in particolare, quello che viene chiamato il patto di stabilità all'interno dell'area che dal 1999 si è dotata d'una moneta unica ed ha costruito attorno ad essa una costituzione finanziaria per preservarla e procedere oltre, verso l'unità politica del continente.
Questo punto specifico - il patto di stabilità finanziaria - è ora oggetto di discussione e di contestazione sotto i colpi d'una congiuntura favorevole che richiederebbe politiche espansive che il patto non prevede. Questo è il problema delle prossime settimane e non è piccola cosa. Sia pure alla lontana, rappresenta un mattone che può migliorare o peggiorare la nostra rischiosa e fuggevole felicità.
C'è chi vuole riscriverlo, il patto di stabilità, chi suggerisce di interpretarlo e chi infine si limita a ricordare che esso già contiene elementi automatici che consentono di far fronte alle variabili del ciclo economico.
La discussione è aperta tra gli Stati membri dell'Unione e tra le forze politiche all'interno di essi. Ci sono i critici del patto e i suoi devoti; ma lo schieramento è molto trasversale: il cancelliere socialdemocratico Schroeder è passato nelle ultime settimane alla schiera di chi vede nel patto un intralcio pericoloso; Chirac e Berlusconi lo fiancheggiano con prudenza sperando che sia proprio lui a togliere alla destra europea le castagne dal fuoco. Il "Wall Street Journal" inneggia al nostro Tremonti visto come una sorta di "libertador" dei popoli europei schiacciati dai vincoli creati e amministrati dai tecnocrati della Commissione di Bruxelles. Questo, più o meno è il quadro della situazione. Le decisioni dovrebbero arrivare tra poche settimane, subito dopo le elezioni tedesche.
E' forse opportuno ricordare, per poter parlare con cognizione di causa, che il Trattato di Maastricht si limita a riscrivere il limite del 3 per cento del disavanzo in rapporto al Pil di ciascun paese, oltre il quale la Commissione deve intervenire applicando sanzioni e imponendo correttivi alle politiche di bilancio. Il patto, partendo da questo vincolo del Trattato, ha costruito un percorso e una vigilanza costante con l'obiettivo di impedire o almeno di scoraggiare che il vincolo del 3 per cento sia violato. Tutto ciò a tutela della stabilità economica (prezzi) e monetaria (tassi di cambio verso le altre monete).
E' ovvio che l'insieme di queste norme tenda ad ottenere dai singoli Stati bilanci in pareggio ponendo un freno alle spese correnti e all'indebitamento pubblico. Il dilemma, in queste condizioni e in un ciclo stagnante, sta tutto qui: allargare la possibilità di indebitamento, oppure subire senza reagire il ciclo calante della congiuntura. L'aumento della pressione fiscale è escluso da tutti: rappresenterebbe un freno ulteriore alla ripresa e comunque non sarebbe accettato dall'opinione pubblica europea.

***
E' chiaro che di fronte a questi elementi di realtà la sola strada percorribile resta quella di alleggerire i vincoli del patto, il che si può fare sostanzialmente in due modi: rinviando le scadenze entro le quali i bilanci nazionali dovrebbero chiudere in pareggio (dal 2003 al 2006 se non oltre) e/o consentire che alcune spese - quelle per investimenti - escano dalla contabilità del disavanzo. Ci sono alcune possibili varianti tecniche a queste soluzioni, ma la sostanza rimane la stessa.
Forse sarà necessario arrivare a queste decisioni, sapendo però che le controindicazioni sono molto pesanti. E cioè: 1. Chi stabilisce il limite quantitativo e qualitativo alle spese di investimento? I singoli governi o l'Europa? E, se sarà l'Europa, il Consiglio dei ministri o la Commissione? 2. Una volta fissate le nuove scadenze per il pareggio dei bilanci, continuerà come previsto dal patto il monitoraggio sulle politiche dei singoli Stati o essi riacquisteranno consistenti porzioni di quella sovranità che avevano affidato agli organi dell'Unione? 3. Quando la ripresa economica dovesse finalmente verificarsi, la sospensione dei vincoli cadrà o resterà acquisita in permanenza? In sostanza, sotto la duplice pressione della congiuntura economica recessiva e dei programmi della destra europea ormai insediata in quasi tutti i governi dell'Unione, si va attuando rapidamente una vera e propria riconversione dall'ipotesi sovra-nazionale a quella di accordi flessibili tra gli Stati-nazione, con l'unico presidio comune della moneta unica e dei poteri monetari della Banca centrale europea. Poteri che - è quasi ovvio prevederlo - saranno usati in senso riequilibrativo qualora le politiche di bilancio si dimostrassero troppo permissive.
La Bce è restia a diminuire il tasso di interesse non già perché tema realmente impennate inflazionistiche ma in attesa di vedere quali saranno le prossime politiche di bilancio dei governi. Tassi di interesse contro "deficit spending": questo sarà il probabile appuntamento del 2003 con tutto ciò che può derivarne, che non sarà poca cosa.

***
Personalmente credo che per uscire di "impasse" di queste vistose contraddizioni sia necessario andare al fondo del problema che supera la cattiva congiuntura economica e coinvolge invece le istituzioni europee e la costituzione finanziaria e politica dell'Europa. Non possiamo avere due soli pilastri sovranazionali - la Bce e la Commissione - e un terzo elemento di sovranità formato dai governi nazionali con presidenze semestrali e tuttora legati alla regola dell'unanimità. Tanto più questa contraddizione diventerà fonte di scompensi e squilibri se gli Stati si riapproprieranno di parte dei poteri delegati agli organi sovra-nazionali. Voglio dire che l'indebolimento dei vincoli di stabilità finanziaria dovrebbero avvenire di pari passo con la nascita dell'Unione politica, guidata anch'essa da un organo sovra-nazionale che a sua volta non può che derivare dal Parlamento europeo, già eletto democraticamente e direttamente dai popoli europei.
Questa possibile, auspicabile e anche radicale innovazione può far compiere un passo avanti decisivo all'Europa e consentire anche un opportuno e mirato allentamento dei vincoli finanziari. Mi rendo ben conto che l'innovazione politica richiede tempi più lunghi di quelli concernenti le misure di natura economica. Ma un solenne e scadenzato impegno dei governi dinanzi ai propri parlamenti e al Parlamento europeo potrebbe bastare.
Dalle sventure può sempre nascere una buona ventura e questa certamente lo sarebbe.


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