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Repubblica-I rischi per la democrazia al tempo della guerra -ALBERTO ASOR ROSA

I rischi per la democrazia al tempo della guerra ALBERTO ASOR ROSA Caro direttore, a me sembra che, nonostante la mole ormai quasi sterminata delle interpretazioni, non sia ancora del...

05/03/2003
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la Repubblica

I rischi per la democrazia al tempo della guerra

ALBERTO ASOR ROSA

Caro direttore, a me sembra che, nonostante la mole ormai quasi sterminata delle interpretazioni, non sia ancora del tutto chiaro il quadro complessivo delle implicazioni derivanti dalla prossima, ormai, a quanto sembra, irresistibile "seconda guerra del Golfo". Aggiungerò qualche riflessione a quanto si è già ascoltato.
Io partirei da questo dato che ormai mi sembra sempre più evidente: la guerra all'Iraq è un pretesto per qualcosa d'altro, molto più importante. La comparsa del terrorismo globale ha imposto o, secondo taluni, semplicemente favorito l'adozione della guerra come strumento politico fondamentale di controllo globale. Terrore e guerra sono perfettamente speculari: al tempo stesso, ognuno dei due è perfettamente funzionale alla "fortuna" dell'altro.
Il terrore chiama la guerra; la guerra chiama il terrore. E così via, per un tempo imprevedibile.
L'ipotesi, che governa le scelte strategiche americane attuali, è che non si controlla il mondo, come il mercato unico globale tende a modellarlo, con i vecchi strumenti. Come ipotizza Lucia Annunziata, gli Stati Uniti, più che al Medio Oriente, pensano, con un anticipo di trenta-cinquant'anni, al modo di "tenere" la Cina e l'Asia, quando questi protagonisti avranno cambiato di dimensioni e di peso. Senza spingerci tanto lontano, per ora noi vediamo di sicuro tre cose:
1) La guerra tende a spaccare (non come un increscioso inconveniente, ma come un suo preciso obiettivo) i tradizionali Organismi internazionali di mediazione e composizione dei conflitti, proprio in quanto tali, intendo dire, perché, cioè, svolgono o almeno si sforzano di svolgere tale funzione. Gli Stati saranno identificati e classificati d'ora in poi, non per il loro prestigio internazionale e per la loro capacità di produrre scelte, volte alla pace e allo sviluppo, ma per il grado di maggiore o minore fedeltà agli Stati Uniti: satelliti, alleati sicuri, incerti, diffidenti, critici, oppure riluttanti, ostili, contrari, fino agli Stati-canaglia. L'Europa è la prima, grande vittima di questa efficace scelta strategica.
2) La guerra tende a spaccare ovunque gli schieramenti di sinistra e/o di centrosinistra. Com'è ben noto, in questi schieramenti una fragile linea di sutura ha sempre tenuto insieme quelli che vorrebbero cambiare (tutto, assai, un poco) da quelli che ritengono più giudizioso accontentarsi di governare assennatamente quel che c'è. La guerra fa saltare in un lampo questa fragile linea, costringendo gli uni e gli altri in termini brevi e ultimativi ad un atto di accettazione o di rifiuto (ambedue radicali) del "sistema".
3) Venendo a mancare i luoghi dove il contenzioso internazionale si forma, si discute e si risolve, tende ad imporsi clamorosamente il diritto del più forte.
La lesione più grave però è interna. Mentre si proclama la guerra come strumento di esportazione della democrazia, la democrazia, laddove c'è, subisce già oggi i contraccolpi devastanti della guerra. La guerra, del resto, ha sempre rappresentato una fase di sospensione, magari parziale, della democrazia, intesa come sistema di controlli, bilanciamento delle forze, garanzie, ecc. Essa accentua la vocazione plebiscitaria, demagogica e populista, presente in natura, e ab origine, nel sistema democratico. Quale cittadino americano negherebbe il suo voto al Presidente Bush finché resterà a cavalcione di un missile anti-iracheno (o anti-iraniano, o anti-siriano, o anti-coreano, ecc.)? Bush, in questo modo, e tutti i suoi satelliti, si mettono al riparo da qualsiasi passo falso, nell'amministrazione, nell'economia, nella giustizia. La guerra diventa il paracadute della politica. Se la guerra, come le fonti ufficiali ci assicurano, dovesse essere davvero infinita, Bush e gli eredi di Bush, e tutti i loro seguaci satellitari in giro per il mondo, avrebbero la carriera assicurata per qualche decennio.
Ma a me pare che si debba cominciare a prendere in considerazione la questione anche da una diversa e più inquietante prospettiva: quella del funzionamento "sistematico", attuale e futuro, della democrazia. Il paragone di Bush con Hitler è distorcente, perché impedisce di vedere che non abbiamo a che fare con una posizione nazifascista classica ma con una variante possibile, anzi possibilissima, della tradizione democratica. Il potere democratico si sta staccando sempre di più dalla sua base rappresentativa: vota sempre meno gente, la politica boccheggia, per i governanti è sempre meno importante quel che la gente pensa (come le reazioni quasi sprezzanti dei governanti agli impressionanti sondaggi pacifisti degli ultimi giorni eloquentemente dimostrano), il potere è divenuto autoreferenziale, immaginifico e roboante, magari colorato di qualche aura vagamente ma insolentemente religiosa, tende costantemente ad autolegittimarsi con arroganza senza limiti ("si vedrà domani se non avevamo ragione di prendere questa decisione catastrofica" ).
Un potere democratico cosiffatto scoprirà presto che i nemici più pericolosi, - anche i più subdoli, al livello del tradimento, - sono quelli interni. Siamo, in buona sostanza, noi, che la pensiamo in modo diverso, in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, negli stessi Stati Uniti.
In chi ha una così assoluta, impenetrabile, intransigente e intollerante concezione della propria "democrazia" (in realtà, "libertà + mercato"), non è difficile prevedere che ne seguiranno comportamenti analoghi a quelli di guerra nei confronti di coloro che, alle spalle del fronte, minano il morale delle truppe (anche metaforicamente) e si permettono il lusso d'immaginare che sia possibile un'altra strada.
Essere "contro la guerra senza se e senza ma", - parola d'ordine apparentemente ingenua nella sua radicalità, - significa per me essere non solo contro la guerra ma contro tutto questo.


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