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Repubblica-I giovani e la nuova "razza flessibile"

I giovani e la nuova "razza flessibile" di Ilvo Diamanti SINGOLARE il modo di affrontare la questione giovanile, in Italia. Meglio: di "non" affrontarla. Ci si stupisce perché il tasso di disoccup...

14/07/2002
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la Repubblica

I giovani e la nuova "razza flessibile" di Ilvo Diamanti

SINGOLARE il modo di affrontare la questione giovanile, in Italia. Meglio: di "non" affrontarla. Ci si stupisce perché il tasso di disoccupazione giovanile nel nostro paese sia il più alto, fra i paesi industrializzati. Raggiunge il 30 per cento, secondo l'Ocse. In crescita rispetto all'anno scorso, mentre tutti gli altri indicatori vedono l'Italia migliorare la situazione dell'occupazione. Tranne che fra i giovani, appunto. Ma il confronto sulle politiche del lavoro e della previdenza, causa di polemiche roventi tra sindacati, governo e forze politiche, viene affrontato "a prescindere". Senza fare i conti con la "questione giovanile". Certo, l'esigenza di allungare l'età pensionabile riflette il cambiamento demografico. Il protrarsi della vita attiva (avere sessanta ma anche settant'anni oggi è ben diverso rispetto a trent'anni fa). Riflette, inoltre, l'aumento insostenibile della spesa sociale, in un paese in cui il peso dei trasferimenti "pensionistici" è preponderante. Tuttavia, allungare l'età pensionabile, favorire la compresenza della pensione con altre attività, secondo le linee previste dal governo (non solo questo, naturalmente) rallenta le possibilità di ricambio; frena l'ingresso dei giovani sul mercato del lavoro. E li costringerà a pagare un costo elevato, per sostenere le pensioni dei padri e dei nonni. Inutile, peraltro, attendersi uno "sciopero generazionale", dei figli contro i padri, come paventò, provocatoriamente ma non troppo, Mario Monti qualche anno fa.

Perché i padri continuano e continueranno a "mantenerli" a lungo, i loro fili. Perché, inoltre, questa situazione riflette un modello culturale "dato per scontato". Assecondato, in modo più o meno consapevole, dalle strategie dei soggetti istituzionali ed economici, in materia di giovani. È la "politica della non politica". La scelta di non scegliere. Di lasciare che giovani si arrangino da soli, nel lavoro e nella vita. Che a sostenerne i problemi ci pensino le loro famiglie. Al più, gli enti locali, dove la pressione giovanile è più forte e diretta.
In fondo, per restare al tema del mercato del lavoro, sono loro il bersaglio delle strategie riassunte nella formula di "flessibilità". Fa un po' specie assistere alle polemiche furiose sull'esigenza di "adeguare" il modello italiano ad altri, ritenuti più efficienti del nostro: gli Stati Uniti, l'Inghilterra. Perfino il Giappone. Rendendo anche l'Italia più "flessibile". Per legge. Visto che in Italia, se valutiamo l'ingresso nel mercato del lavoro, la flessibilità è generalizzata. Da tempo. Su livelli che l'Inghilterra e la stessa America ci dovrebbero invidiare (ammesso che si tratti di un aspetto comunque "invidiabile").
Più di metà dei nuovi assunti negli ultimi anni, infatti, sono reclutati mediante contratti cosiddetti "atipici". A tempo determinato, parziale, interinali, di formazione-lavoro. Oppure si tratta di "co.co.co.": acrostico che fa pensare ai polli di allevamento, ma sta a indicare i contratti di collaborazione continuativa. Forme di lavoro "autonomo", che sostituiscono, spesso, rapporti di lavoro, ma senza vincoli per l'azienda. E poi, le mille e mille partita Iva.
Nel complesso, considerando l'insieme dei lavori "atipici" sul totale degli occupati, secondo l'Istat, si passa dal 18 per cento nel 1996, al 23,4 nel 2000. Il che significa, da un milione e mezzo di persone a 2 milioni e 200mila, in 4 anni. Va ricordato, peraltro, che nell'ultimo anno questo processo ha registrato una ulteriore progressione.
Ormai una persona su 4, fra gli occupati, ha un rapporto di lavoro atipico. Questa componente, tuttavia, fra i giovani diventa molto più ampia. Nell'industria e ancor di più nei servizi. Nelle "imprese sociali". Nel campo della comunicazione. Quasi tutti sono "atipici". Per questo poco interessati (nel senso di "coinvolti direttamente") dalla discussione sull'articolo 18. E dal dibattito sulla "flessibilità". Perché per loro la "flessibilità" è diventata "norma". Mentre atipiche sono la "routine", la continuità, la regolarità.
I giovani, una "razza flessibile". Abituata a badare a se stessa. Da sola. Con l'aiuto fondamentale della famiglia.
Sono "flessibili", i giovani, non solo nel lavoro, naturalmente. La loro competenza tecnologica è totale. Usano il cellulare, gestendone tutte le funzioni, già alle scuole medie. Navigano su Internet, senza difficoltà, fin dalle elementari. Consultano motori di ricerca, comunicano per e-mail, chattano. Mentre, su questo terreno, i loro genitori arrancano. E i nonni (cinquant'anni d'età, non un secolo...) si perdono'
I giovani: conoscono le lingue. Viaggiano. Nel tempo libero. E soprattutto per motivi di studio. Basti pensare alla diffusione esponenziale che hanno conosciuto le borse di studio all'estero tra laureandi e neolaureati.
La nuova "razza flessibile". Che ha di fronte una carriera instabile e discontinua, punteggiata di molti "lavori", un reddito incerto e aperto, una previdenza sanitaria e una pensione collegate al sistema assicurativo e bancario-finanziaro (affidandosi, coraggiosamente, all'àlea). La "nuova razza flessibile". Agisce racchiusa in piccoli gruppi oppure all'interno dei perimetri generazionali che essa stessa ha tracciato (le discoteche, ma anche i centri sociali). Agile. Adattiva. Tattica. Comunicativa. Costretta al "rischio". E, per questo, incerta nei confronti del futuro.
Le politiche del governo (dei governi) trascurano questo aspetto. Lo specifico giovanile. La sua impronta sempre più flessibile. La sottovalutano anche gli attori sociali. Il sindacato, ad esempio. Perché dovrebbero riflettere criticamente sul proprio modello di rappresentanza.
Anche per questo i giovani tendono a divenire un'enclave. La barriera che separa loro, "flessibili", da noi, i genitori, i nonni: gli "inflessibili", diventa evidente.
Ma non diventa un muro, una frattura. Perché fra noi, fra le generazioni, c'è complicità. Noi, i genitori, la famiglia, compensiamo i costi della "loro" flessibilità. Noi, con un lavoro relativamente stabile e la speranza di arrivare alla pensione, garantiamo la precaria e zigzagante carriera dei giovani. Siamo la stazione in cui essi si fermano, tra un segmento e l'altro della loro vita lavorativa. Della loro vita. Noi. Il chiodo a cui si appigliano, nei momenti di emergenza. Di insicurezza. Per questo i giovani, anche se, anzi: proprio perché "flessibili", restano legati alla loro casa e alla loro famiglia. Sempre più a lungo. Anche se fisicamente sono poco presenti. (E noi li attendiamo, pazienti e disponibili, perché sono figli unici, e senza di loro soffriamo la solitudine...).
I giovani, nuova "razza flessibile": la mente aperta, un presente e un futuro lavorativo composito e scomposto, scarsamente assistito. E per questo "protetti", ma anche "condizionati" dagli adulti, dalla famiglia.
È l'effetto, lo specchio di una società flessibile, che non ha un progetto. Che non ha un modello di welfare alternativo. Sfalda quello precedente senza crearne un altro. Scarica sui giovani e sulle famiglie il compito di pensare al futuro. Di affrontarne i rischi. Secondo il tradizionale modello del bricolage.
Inutile sorprendersi. È il "liberismo all'italiana


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