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Repubblica-Dietro la fragile unità dei Ds lo spettro della guerra di Troia

Dietro la fragile unità dei Ds lo spettro della guerra di Troia I potenziali leader della sinistra sono tanti Amato lo vorrebbe "giovane" ma il punto è un altro: non sono gli uomini che mancano ...

19/07/2002
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la Repubblica

Dietro la fragile unità dei Ds lo spettro della guerra di Troia

I potenziali leader della sinistra sono tanti Amato lo vorrebbe "giovane" ma il punto è un altro: non sono gli uomini che mancano alle idee bensì il contrario
Nel rigetto del "dalemismo" c'è molto di più della reazione a uno stile personale: c'è la ripugnanza al riformismo che, per definizione, comporta anche dei compromessi
Anche se è tornata la quiete è un segno grave che l'ipotesi della rottura sia divenuta così credibile
GIORGIO RUFFOLO

L'infaticabile Fassino è riuscito in extremis ad evitare la collisione. Può tirare un sospiro di sollievo. La guerra di Troia tra i riformisti della maggioranza e gli intransigenti del correntone, non ci sarà (per ora, almeno). L'unità è stata ricomposta, con la significativa eccezione di Salvi. Eppure, il fatto che si sia addirittura evocato il fantasma della scissione la dice lunga sullo stato, diciamo eufemisticamente, di disagio prevalente nel partito dei Ds.
Le scissioni, nella sinistra italiana, non rappresentano certo eventi straordinari. Nel suo processo storico, l'etica weberiana della convinzione '#8211; intransigente e identitaria - ha spesso prevalso sull'etica della responsabilità. È un tratto che la sinistra italiana condivide con le altre sinistre latine. Poche settimane fa, la sinistra plurale francese - si faceva chiamare così - ha dato di sé uno spettacolo folkloristico. Presentatisi in quattro o cinque formazioni diverse, per così dire, nei loro caratteristici costumi, i leader della gauche sono riusciti nel difficile compito di mandare Le Pen al ballottaggio e di costruire per quella via l'elezione plebiscitaria di Chirac, e poi il trionfo elettorale della destra.
Qui da noi, la mancanza assoluta di una causa oggettiva e seria di discriminazione ideologica e politica (come la rivoluzione d'ottobre per la scissione di Livorno, come, assai meno drammaticamente, l'accordo di governo con la Dc per la scissione del Psiup) renderebbe una scissione dei Ds, molto più una farsa che una tragedia. Questa volta, forse, il senso della responsabilità '#8211; si dovrebbe dire, in questo caso, il buon senso '#8211; finirà per prevalere. Ma è certo un segno grave che le cose siano andate tanto avanti da rendere credibile una prospettiva di rottura. Non credo che ciò si possa attribuire ai risentimenti, ai rancori, alle idiosincrasie personali. Nel rigetto del "dalemismo" da parte di uno strato significativo del partito, c'è molto più della reazione a uno stile personale sprezzante. C'è il fondo antico di ripugnanza a una politica riformista che, come tutte le politiche riformiste, comporta dei compromessi. C'è la tentazione dello sdegno sistematico e della contestazione permanente, espressionista e rivendicativa, che si sottrae al calcolo delle reazioni, delle conseguenze non volute, dei costi, come a pericolosi scivoli verso il tradimento. Questo fondo, il Pci, per lunga parte della sua storia, lo aveva imbrigliato e deviato, grazie alla sua natura anomala di partito antisistema, estraneo al mondo capitalistico, che lo immunizzava da ogni sospetto di "riformismo socialdemocratico" e al tempo stesso apriva al suo tatticismo spregiudicato un vastissimo campo di manovra politica. Scomparso il Pci, dissolta la protezione immunitaria della sua "diversità", il suo più immediato successore ha dovuto affrontare massimalismi e radicalismi come tutti i normali partiti socialdemocratici, ma senza averne né le radici, né le tradizioni. Di qui la forza del richiamo esercitato dalla sinistra esterna, quella comunista di Rifondazione, e dalla sua sinistra interna. Di qui la pressione che esse esercitano sul riformismo della maggioranza.
Ma poi: qual è la qualità e la consistenza di questo riformismo? Il richiamo al riformismo, è vero, è diventato, nella maggioranza dei Ds, una costante del linguaggio politicamente corretto. E tuttavia si vorrebbe sapere, da questi riformisti, che cosa propriamente vogliono riformare. Talvolta, taluni di essi hanno dato l'impressione di concentrare il fuoco del loro riformismo modernizzatore sui sindacati: come se il loro svecchiamento - problema che certamente esiste - costituisse la vera e decisiva discriminante tra innovatori e conservatori. Nell'assenza di un disegno e di un impegno programmatico complessivo, poi, l'omaggio alla "terza via" di Tony Blair, rischia di mancare il problema cruciale: che non è quello di compensare i guasti della mondializzazione, ma quello di "cambiare il capitalismo", dando una risposta istituzionale e politica alle tre grandi derive mondiali della mondializzazione: l'instabilità frenetica dei mercati finanziari, l'inasprimento drammatico dell'ineguaglianza economica e dell'esclusione sociale; le devastazioni del contesto sociale culturale ed etico provocate dall'ipermercatizzazione. La controprova della insufficienza della risposta blairiana sta nella sua totale insensibilità, nazionalistica e conservatrice, rispetto alla costruzione di una forte Europa politica: che è un'occasione formidabile di rilancio di una strategia socialista riorientata verso la costituzione di un nuovo ordine mondiale più equilibrato; verso la piena occupazione e il rinnovamento del welfare state; verso un nuovo equilibrio tra le istituzioni dello Stato, del mercato e del terzo sistema associativo.
È vero che questo vuoto di offerta politica riformista, i dirigenti diessini lo soffrono, oggi, insieme con quasi tutti i grandi partiti socialisti europei. Questa, però, non è una ragione di sollievo. Né di passiva amarezza. Dovrebbe essere un incitamento a investire le loro energie nella promozione di una grande forza socialista europea, di un vero partito socialista europeo (quello attuale è una sovrastruttura burocratica) capace di misurarsi con le grandi forze del capitalismo mondializzato per cambiarlo, per riformarlo.
In conclusione: il partito dei democratici di sinistra, grazie a Fassino e a un soprassalto di buon senso, ha evitato il peggio. Ma il meglio deve ancora venire. Un'ultima parola sulla leadership. Amato ha auspicato che il leader della sinistra sia giovane. Certo: e perché non donna? E magari, nera? Ma siamo veramente ridotti agli identikit? Di potenziali leader della sinistra italiana ce ne sono tanti e tutti degni, a cominciare da Amato, in ordine alfabetico, s'intende. Non sono gli uomini che mancano alle idee, ma le idee che mancano agli uomini. Un giorno, tanto tempo fa, i socialisti francesi disperati (anche allora) perché non disponevano di un leader da contrapporre a De Goulle, si inventarono un Monsieur X: l'identikit di un possibile candidato alla Presidenza della Repubblica. Doveva essere nuovo, giovane, eccetera. Molti anni dopo trovarono Mitterrand. Non era né giovane né nuovo. Era anzi uno dei più provati (e discussi) personaggi della terza repubblica. Ma con qualche idea in testa.


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