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Repubblica-Chiusa una stagione si torni all'unità

Chiusa una stagione si torni all'unità MASSIMO GIANNINI LA SINISTRA sindacale in piazza: Cofferati a Milano, Epifani a Torino. La sinistra politica in corteo: quella convinta, da Diliberto ...

18/10/2002
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la Repubblica

Chiusa una stagione si torni all'unità

MASSIMO GIANNINI
LA SINISTRA sindacale in piazza: Cofferati a Milano, Epifani a Torino. La sinistra politica in corteo: quella convinta, da Diliberto a Bertinotti, e anche quella perplessa, da Fassino a D'Alema. Lo sciopero generale è un rito identitario e consolatorio. Ma se vuole andare oltre la ritualità, e soprattutto evitare l'inutilità, la protesta di oggi deve essere "conclusiva". Serve se è l'epilogo di una fase che si chiude: la Cgil arroccata in splendida solitudine, a combattere contro il governo del Polo, contro una metà dell'Ulivo e contro un pezzo della sua storia. Serve se è il prologo di un ciclo nuovo che si apre: il ricongiungimento con Cisl e Uil, in nome di una politica economica rigorosamente alternativa ma compiutamente riformista.

Uno sciopero separato non si vedeva in Italia da 34 anni. È l'ultimo tributo che la Cgil paga al suo ex segretario generale. Lo ha voluto e deciso a maggio Sergio Cofferati, con ostinata coerenza, al culmine di un braccio di ferro contro Berlusconi iniziato per difendere l'istituto della giusta causa nei licenziamenti e poi esteso al Dpef. Lo hanno rifiutato Savino Pezzotta e Luigi Angeletti, con lieve incoerenza, al termine di una trattativa tortuosa che prima li aveva portati a scioperare il 16 aprile insieme con l'alleato maggiore, poi li ha spinti a fare pace con il Cavaliere e a firmare con lui il Patto per l'Italia. Ora procedono tutti in ordine sparso. Ognuno con la segreta coscienza della propria debolezza.
C'è qualcosa di innaturale, in quello che sta capitando. È stata innaturale la scelta fatta dal governo, che espugnata l'opposizione politica ha scientemente "investito" sulla diaspora sindacale per conquistare il consenso degli industriali e mettere all'angolo il suo più insidioso oppositore sociale. È stata innaturale la risposta massimalista di un "moderato" come Cofferati, che ha contrastato una manovra ideologica del premier armando il suo sindacato con uno strumento altrettanto ideologico. È stata innaturale la soggezione culturale e il trasporto fideistico col quale Cisl e Uil hanno appoggiato l'azione del centrodestra, confusa, inefficace e palesemente velleitaria.
Guglielmo Epifani ha "ereditato" la protesta, e la difende come sa e come può. Il merito sta dando ragione a Cofferati: Berlusconi ha sbagliato e continua a sbagliare tutto. Il metodo gli dà torto: lo sciopero separato divide, e non riesce ad unire. Per cerchi concentrici, trasferisce la spaccatura dentro il centrosinistra. E scivola da giorni su un piano inclinato che nessuno sembra in grado di fermare. Tutti i protagonisti della vicenda la "subiscono", con un misto di ineluttabilità e di rassegnazione. Prigionieri di un ruolo predefinito, imbozzolati in un contesto cristallizzato a cinque mesi fa, che ora è stato dolorosamente spazzato via dall'enormità degli eventi. Questo, forse, è l'aspetto più surreale sul quale i dirigenti sindacali devono riflettere. Oggi l'agenda del Paese non vive sui dubbi di Epifani, sugli umori di Pezzotta e sugli scarti di Angeletti. Oggi ci sono due fatti nuovi e clamorosi, che impongono immediatamente l'abbandono degli ideologismi e la pragmatica riscrittura delle priorità e delle responsabilità: la spaventosa crisi della Fiat e la recessione economica. Di fronte a questi fatti nuovi è politicamente impensabile e sindacalmente suicida che Cgil, Cisl e Uil continuino a marciare da sole.
Da domani, l'impegno del sindacato deve diventare uno solo: riaprire una fase unitaria. Sarebbe troppo semplicistico arrivarci attraverso un'abiura unilaterale di Epifani, che nessuno può e deve chiedergli. Serve piuttosto un reciproco riavvicinamento delle singole posizioni e un mutuo riconoscimento dei rispettivi errori. Il primo nasce dalla ritrovata consapevolezza dell'orizzonte comune, che vede ammassate sulla stessa barca le migliaia di lavoratori di Termini Imerese a un passo dalla mobilità e di impiegati in esubero nelle banche, ma anche le migliaia di operai licenziati in tronco nelle piccole imprese, di "collaboratori coordinati e continuativi" assoldati senza statuti né contributi dai padroncini del Nord e di "sommersi" privi di tutela nelle micro-aziende del Mezzogiorno. Il secondo nasce dalla drammatica asprezza di questo autunno, che dovrebbe costringere i leader sindacali a un esame di coscienza.
La Cgil dovrebbe riconoscere di aver sbagliato a impostare in chiave difensiva e quasi resistenziale una campagna di opposizione sociale, strenua e solitaria, di cui si fa ormai qualche fatica a cogliere il contenuto preciso. È partita dall'articolo 18, si è allargata alle deleghe sul fisco e sulla previdenza, poi ha convogliato le proteste sulla sanità e sul pubblico impiego, contro la Finanziaria e contro il piano Moratti per la scuola. Uno sciopero generale, per definizione, contesta la generalità di una politica. Quella del centrodestra si sta rivelando per quello che è: un totale fallimento. Ma non per le ragioni invocate a suo tempo da Cofferati, e cioè la thatcheriana "macelleria sociale" che comporta. Semmai per i motivi opposti, cioè il doroteistico nulla che contiene. Il misto di pauperismo demagogico e di corporativismo populista che la ispira, e che produce solo galleggiamento politico e declino economico. Di fronte a tanta pochezza - che i riformisti dell'opposizione hanno denunciato per tempo e che solo i ciechi e i complici hanno voluto ignorare - un radicalismo antagonista imperniato sugli scioperi a oltranza sa davvero troppo di vecchio. E condanna la Cgil al ruolo di una "Solidarnosc" italiana, testimoniale ma sterile. Epifani lo riconosca, e passi dalla fase della lotta sistematica alla fase della proposta programmatica. Questo è riformismo.
La Cisl e la Uil dovrebbero riconoscere di aver commesso un errore madornale, a fidarsi di un falso premier operaio, di un superministro prestigiatore e di un leader industriale furbo e un po' opportunista. Dovrebbero avere il coraggio di un outing coraggioso, ma doveroso. Dovrebbero dire che, loro malgrado, il Patto per l'Italia enfaticamente firmato a luglio con Berlusconi, Tremonti e D'Amato è stato solo un bluff propagandistico. Oggi, un po' come il famoso "contratto con gli italiani" della vigilia elettorale del maggio 2001, è carta straccia. Nessuno si ricorda più a cosa serviva, né cosa c'era scritto. Dovrebbero aggiungere che non è valsa la pena sacrificare il bene attuale dell'unità del sindacato, in nome di un bene futuro che quell'accordicchio (modesto nei contenuti e strumentale negli obiettivi) non poteva e non può garantire. La concertazione è un metodo, un sistema di governo dell'economia che si sceglie e che implica regole condivise. Cisl e Uil non hanno capito (o hanno finto di non capire) che questa maggioranza non vuole concertare politiche dei redditi o strategie anti-inflattive con le parti sociali, ma ha puntato esclusivamente a isolarne una, per lasciarla fuori dal tavolo e impartirgli una lezione definitiva. Pezzotta e Angeletti lo confessino. Rinuncino al modello di sindacato gregario e para-statale e ritornino alla "via alta della rappresentanza", autonoma e collettiva, che è iscritta nella migliore tradizione del sindacalismo confederale. Questo è riformismo.
L'unità sindacale, come non si è fatta in trent'anni, non si recupera in tre giorni. Ma in questa stagione di emergenze un sindacato responsabile ha il dovere etico-morale di ricercare un fronte comune. Di superare quelle che Amato chiama le "verità incomponibili" di ciascuno, di sintetizzarle e rimetterle in fase con la minacciosa involuzione dei tempi. Non servono irrealistici proclami strategici, né finte aperture tattiche. Ma c'è un vasto e concreto terreno negoziale, che va dalla legge sulla rappresentanza ai rinnovi contrattuali, sul quale è possibile riannodare i fili del dialogo. Ne ha bisogno il sindacato. Ne ha bisogno anche l'Ulivo, che chiede alle confederazioni non certo di essere "cinghia di trasmissione", ma leva di un processo di riaggregazione sociale che facilita la ricomposizione politica del centrosinistra.
L'impulso può partire dal basso. Ieri i metalmeccanici delle tre sigle hanno annunciato uno sciopero unitario, entro il 10 novembre, contro le chiusure degli stabilimenti Fiat. È un primo segnale, da raccogliere e da valorizzare. Negli anni '80, nelle fasi più dure della vertenza a Mirafiori, con i 61 licenziati in odore di terrorismo, la crisi dei 35 giorni e poi la marcia dei 40 mila, la mitica Flm diventò l'emblema di una sconfitta ma anche il luogo fisico che consentì al sindacato "buono" di rinascere dalle sue ceneri, e di proporsi come laboratorio dell'unità confederale. Oggi Fiom, Fim e Uilm possono ritentare quell'esperienza, fino a imporre quello sforzo a tutti i gruppi dirigenti. Uno sciopero separato è una iattura, uguale e contraria a un accordo separato. Da domani, i tre leader dovranno dimostrarsi capaci di rinchiuderli entrambi, una volta per tutte, nell'armadio degli errori e degli orrori di questo decennio.


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