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Recovery e ricerca, quel che manca è molto più di quel che c’è

La ricerca sembra destinata a ricoprire il ruolo che, purtroppo, le è “tradizionale”, ovvero evocata, a parole, da tutti, ma non ancora così centrale quando posta in competizione con altro.

18/02/2021
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ROARS

ALberto Silvani

Nell’ambito dell’attuale bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo Conte a metà gennaio e inviato al Parlamento,  la ricerca sembra destinata a ricoprire il ruolo che, purtroppo, le è “tradizionale”. Essa viene evocata, a parole, da tutti, ma non risulta ancora centrale se posta in competizione con altro. Per quanto sia difficile esercitarsi in una contabilità minuta circa il complesso delle scelte e delle risorse attribuibili al tema ricerca, anche per le limitate descrizioni e le assenti giustificazioni dei progetti indicati, si può provare a leggere il tutto inquadrandolo con quanto contenuto in altri due documenti di programmazione e di indirizzo, sostanzialmente contestuali, che associano la visione “straordinaria” del documento predisposto per l’Europa alla gestione “ordinaria” pensata per l’Italia, ovvero la legge di bilancio 2021 (LB), approvata a fine dicembre dal Parlamento, e il Programma Nazionale di Ricerca 2021-2027 (PNR), approvato dal CIPE a metà dello stesso mese.

La bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha costituito negli ultimi mesi il documento su cui si è concentrata l’attenzione del dibattito politico, investendone prima la governance (la “cabina di regia”), poi la distribuzione delle risorse (i rapporti tra le diverse “missioni” indicate) ed infine la complessiva adeguatezza rispetto alla complessità delle sfide e alla capacità di implementazione dei progetti proposti.

Tutto ciò richiede evidentemente una capacità di lettura e di conoscenza per interpretare in che misura quanto proposto si innesta su quanto esiste e, soprattutto, come le opzioni prescelte siano allo stesso tempo le più rilevanti, la più capaci di affrontare i problemi di fondo e, non ultimo, siano coerenti con i meccanismi del processo che, non dimentichiamolo, sono dettati dall’accordo europeo del Consiglio di luglio e quello che ne è seguito fino all’approvazione del Bilancio a dicembre, e devono fare i conti con le riforme ivi indicate, i tempi definiti, i meccanismi di approvazione e verifica.

Proviamo ad esaminare, seguendo questa logica, il “capitolo ricerca”. Anticipando la conclusione, nel confuso, e difficilmente monitorabile, dibattito che in questi giorni ha investito la bozza, la ricerca sembra destinata a ricoprire il ruolo che, purtroppo, le è “tradizionale”, ovvero evocata, a parole, da tutti, ma non ancora così centrale quando posta in competizione con altro.

Nel documento ora in discussione al Parlamento la ricerca è presente all’interno della cosiddetta quarta missione “Istruzione e ricerca” sotto il titolo “Dalla ricerca all’impresa”, per quasi 12 miliardi di euro (di cui oltre una decina “aggiuntivi”), ma probabilmente individuabile in molte altre missioni, sia pure con minore evidenza.

È quindi difficile esercitarsi in una contabilità minuta circa il complesso delle scelte e delle risorse attribuibili al tema ricerca, sia perché il livello di dettaglio (giustificazione risorse e descrizione progetti) è molto limitato (è infatti riassunto in una tavola e in poche righe per ogni iniziativa), sia perché la ricerca, più di altri temi, necessita di un disegno e di una continuità nel tempo. Da qui l’idea di provare a leggere il tutto inquadrandolo con quanto contenuto in altri due documenti di programmazione e di indirizzo, sostanzialmente contestuali, che associano la visione “straordinaria” del documento predisposto per l’Europa alla gestione “ordinaria” pensata per l’Italia.

Ci riferiamo alla legge di bilancio 2021 (LB), approvata a fine dicembre dal Parlamento e al Programma Nazionale di Ricerca 2021-2027 (PNR), approvato dal CIPE a metà dello stesso mese.

Il tutto cercando di verificare la corrispondenza con l’appello, peraltro evocato nel testo del PNRR, promosso da quattordici autorevoli scienziati e etichettato come “Piano Amaldi” dal nome del primo promotore, che può essere riassunto nello slogan: per la ricerca 15 miliardi in 5 anni.

Il punto di partenza

Cosa ci dicono in estrema sintesi questi due documenti programmatici “ordinari”? In primo luogo una – debole – inversione di tendenza sulle risorse investite nel settore, certamente non confrontabile con quanto richiesto dal documento Amaldi che chiedeva, e motivava, un raddoppio programmato, in un numero definito di anni, della spesa/investimento in ricerca e, nel fare questo, una forte attenzione alla ricerca libera come driver di tutto il processo. Va infatti ricordato il posizionamento attuale del nostro paese (“innovatore moderato” secondo lo Scoreboard europeo), con una ricerca pubblica di qualità ma sottodimensionata per risorse umane, economiche e strutturali e con una ricerca privata che, seppure in crescita, riflette una specializzazione produttiva non “science based” e forti disparità territoriali e tecnologiche.

Le capacità innovative ci sono ma si sente molto la mancanza di una visione di lungo periodo e la capacità di investirci con coerenza.

La ricerca nella legge di bilancio

Nella legge di bilancio si istituiscono tre nuovi fondi per la ricerca più risorse ad hoc per la costituzione di ecosistemi dell’innovazione nel Mezzogiorno, per un totale di circa 400 milioni sull’anno in corso, a cui si aggiungono incrementi di 65 milioni del Fondo ordinario degli enti di ricerca, e di 23 per il fondo per l’Antartide. Più altri interventi minori.

Nello specifico, e misurate su base triennale, le risorse sono 450 milioni a sostegno del nuovo PNR, tra enti ed Università, e 2.5 miliardi per le infrastrutture (ma su 15 anni…).

Pur senza stravolgimenti o novità sostanziali, il tutto può essere riassunto come l’introduzione di presupposti per sostenere l’avvio di un disegno più armonizzato del “sistema ricerca” e per invertire la tendenza che aveva visto negli anni un taglio di 1 miliardo al Fondo per l’Università e di circa 250 milioni a quello degli Enti.

Il Programma Nazionale Ricerca

E questo trova conferme nel nuovo PNR che è alimentato con fondi diversi (bilancio ordinario Mur, Fondi strutturali, Fondi ricerca europei a gestione diretta). Sui 7 anni del programma (2021-2027) sono indicati 14.5 miliardi (non aggiuntivi…), considerati i 12 miliardi del Fondo ordinario degli Enti, 1.5 del First, 1 del Prin Covid. Il piano comprende anche le risorse per le assunzioni. Il PNR è il risultato di un lungo processo di concertazione e trae vantaggio dall’essere stato concepito tenendo conto sia della nuova programmazione della ricerca europea (il Programma Quadro “Orizzonte Europa”) sia di quanto andava maturando per dare concretezza al Piano Europeo della “Next Generation”.

Il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza

Con questi presupposti ci si sarebbe dovuto aspettare che il PNRR, pur tenendo conto dei vincoli procedurali insiti nello strumento, rappresentasse la sintesi e la prospettiva e a tali fini indirizzasse le risorse.

Le poche pagine del documento relative alla R&S comprendono una diagnosi, abbastanza nota e condivisa, e la proposta di linee di intervento che toccano il suo rafforzamento, la promozione delle iniziative di interesse comune europeo e del partenariato, il trasferimento tecnologico e il sostegno all’innovazione. Obiettivi certamente condivisibili, ma a cui il livello di dettaglio fornito dalle brevi descrizioni dei diversi progetti che lo compongono, e, soprattutto, il dimensionamento economico riassunto dalle tabelle, non risolvono i dubbi, soprattutto per il grado di integrazione tra le singole attività previste.

Nei quasi 7.3 miliardi destinati al rafforzamento della ricerca e sviluppo e delle Iniziative di partenariato europeo (di cui circa 1.4 già in essere e quindi finanziate sul bilancio nazionale) sono anche presenti voci come gli accordi per l’innovazione, il fondo per l’edilizia e le infrastrutture, il finanziamento ai partenariati per l’innovazione, che riducono il totale di questa cifra direttamente associabile alla ricerca e con caratteristiche “aggiuntive”, a un valore compreso tra 3 e 4 miliardi sull’intero periodo.

Un valore sostanzialmente equivalente a quanto previsto a supporto del trasferimento tecnologico (circa 4.5 miliardi in totale), più articolato nelle misure previste, che comprendono un’attenzione specifica alla dimensione territoriale e un’articolazione nelle figure di dottorato ipotizzate.

Si poteva fare di più?

Probabilmente sì se si pensa alla disponibilità complessiva (223 miliardi) del Piano e a quanto indicato nella proposta del Documento Amaldi e di quello che ne è seguito. Se lo schema generale è infatti condivisibile, le voci che lo compongono non sembrano volare molto alto. A titolo di esempio vengono citate, e in più progetti, le infrastrutture di ricerca, ma non si indica il disegno che le giustifichi, e le attribuisca e le distingua con chiarezza nelle singole proposte dei capitoli di spesa. Un disegno che può essere “dedotto” solo collegando altre voci quali gli IPCEI (Importanti Progetti di Interesse Comune Europeo), i partenariati, gli ecosistemi dell’innovazione e i campioni nazionali. Così facendo non si comprende come la scelta per le infrastrutture si rapporti con quanto detto a proposito delle dieci missioni citate nei partenariati allargati o dei sette Centri “campioni nazionali di R&S” di cui viene fornito un elenco dettagliato ma che, a dispetto del nome, sono collocati nell’area del trasferimento tecnologico. L’idea è avvincente ma un giudizio definitivo si potrà dare solo al momento in cui i progetti saranno più chiari.

Un’iniezione di risorse aggiuntive in un sistema come quello della ricerca italiano, in sofferenza da troppi anni, è quanto mai necessario. È certamente positivo che questo avvenga quando anche a livello nazionale, lo ricordavamo sopra, si sta invertendo la tendenza e valutiamo positivamente lo sforzo fatto. Ma sappiamo anche che le risorse finanziarie vanno correttamente indirizzate e gestite, e che i progetti che le attribuiscono devono essere valutati. Contribuire alla costruzione di un “sistema della ricerca” intervenendo sulle sue debolezze e con una visione di lungo periodo, rappresenta la scommessa da cogliere e siamo certi che la ricerca saprà “stare in partita”. Nelle settimane che mancano al documento definitivo, pur nella turbolenza della situazione politica, proviamo a rendere il percorso per raggiungere gli obiettivi più chiaro e destiniamo motivatamente più risorse alla ricerca.

pubblicato su huffinghton post


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