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Professione insegnante.lo rifarei-Intevista a Gabriella Giorgetti

www.casadellacultura.it Faccia a faccia: professione insegnante Intervista a Gabriella Giorgetti Come è arrivata all'insegnamento? Dico sempre che mi ha rovinato il 68. Le vie della profess...

22/10/2002
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Faccia a faccia: professione insegnante
Intervista a Gabriella Giorgetti

Come è arrivata all'insegnamento?

Dico sempre che mi ha rovinato il 68. Le vie della professione sono strane. Sono una biologa, ho lavorato per un po' all'Istituto dei Tumori. Avrei voluto fare l'ecologa, ma forse all'epoca non era molto di moda. Il mondo della ricerca non mi piaceva assolutamente, è un mondo molto competitivo. Erano gli anni Settanta, quindi bisognava essere socialmente utili e ho deciso di insegnare. Ma l'ho fatto anche perché è comunque una professione che lascia molto tempo libero, è molto faticoso ma anche molto coinvolgente. Ho insegnato a lungo nella scuola media inferiore. La mia carriera è stata interrotta a lunga da distacchi sindacali. Adesso faccio un part-time e insegno agli adulti. Posso dire che l'ho fatto perché l'esperienza con gli insegnati di scuola media era esaurita. L'età adolescenziale è faticosissima, hanno una richiesta affettiva veramente elevata, io divento sempre più vecchia e loro hanno sempre la stessa età. Ho dato, mi è piaciuto, ma non sono più disponibile a mettermi in gioco così tanto.

È quindi il rapporto con gli studenti il problema fondamentale?

L'invecchiamento della classe insegnante è un problema reale. Questo gap generazionale sempre più grande è faticoso. La mobilità professionale per gli insegnanti è utile, io non tornerei più a insegnare ai ragazzini. Lo dico in particolare per gli insegnanti delle elementari e le materne: c'è anche un rapporto fisico pesantissimo. Sono 27 bambini per sezione. Non può reggere questa cosa. Questa carenza di mobilità, l'impossibilità di cambiare tipo di lavoro è certamente faticoso.

La scuola, come mondo, in cui si è trovata a lavorare, corrispondeva alla sua idea di scuola?

Sono entrata negli anni più vivaci, politicamente più significativi, negli anni Settanta il dibattito all'interno della scuola era fortissimo. Non rimpiango di aver fatto questa scelta. Potrei anche rifarlo. Adesso il tempo di lavoro è aumentato, ma ci sono comunque grandi vantaggi; devo correggere i compiti a casa certo e devo preparare le lezioni, ma posso farlo al parco se ne ho voglia.

Stupita quindi dai dati della ricerca sul burnout tra gli insegnanti?

La relazione con i ragazzi è faticosa e non tutti riescono a reggere 35 anni di fila. È vero che la scuola è in grande crisi di identità: questa perdita di senso gli insegnanti la sentono molto. Altrettanto pesante è la mancanza di strumenti di intervento nelle classi: ci sono insegnanti che si fanno mangiare vivi dai ragazzi, vengono sopraffatti; oppure sono così emotivamente coinvolti da uscirne a pezzi. Bisogna sempre mettere un diaframma, altrimenti è un lavoro distruttivo.

Secondo lei, fare una selezione iniziale, interporre un filtro, potrebbe essere una soluzione e un aiuto?

Io sarei per un tirocinio. Oltre il percorso di laurea specifico per diventare insegnanti, deve esserci un periodo serio di tirocinio. Seguirei l'esempio della Germania: lì è previsto un tirocinio molto serio, della durata di due anni, durante i quali il "candidato" insegnante è affiancato da un tutor. Al termine di questo tirocinio si decide se confermare o no nel ruolo di docente. Non tutti possono insegnare perché il difficile è scindere se stessi dalla classe. La preparazione da noi è invece ancora molto accademica, legata alle competenze disciplinari: per molti insegnanti il rapporto con i ragazzi è mediato dalla disciplina. È inevitabile che sia uno shock dover insegnare Boccaccio a ragazzi che hanno difficoltà a leggere. L'insegnante è incapacità di riadeguare se stesso e le proprie competenze a un'utenza completamente cambiata. Me ne accorgo anche adesso che insegno agli adulti: si tratta di corsi di alfabetizzazione e licenza media; molti dei nostri studenti sono immigrati, ed è naturale che con loro si debba partire da zero. Ci sono colleghi che hanno difficoltà, che dicono io so insegnare questo, posso insegnare un certo tipo di italiano e non quest'altro.

Quanto pesa il continuo rinvio delle riforme sugli insegnanti?

Anche questo è determinante. Parlo della scuola dell'obbligo perché lì ho insegnato: i programmi della scuola media sono ancora strutturati partendo dal presupposto che questa sia la scuola terminale dell'obbligo, quando oramai da anni il 95% degli studenti passa alla scuola superiore e dunque il programma deve essere collegato a quello della secondaria superiore. La crisi della scuola nasce perché non è più l'unica agenzia di formazione. Quando io ero studentessa, la scuola aveva il monopolio dell'istruzione: era il luogo dove si imparava. Oggi, i momenti e le occasioni in cui, in senso lato, si apprendono delle cose sono tantissimi. La scuola deve necessariamente mettersi in rapporto con l'esterno. È troppo autoreferenziale, e anche gli insegnanti lo sono. È l'unica categoria che prima è stata da una parte del banco e poi dall'altra, in un ambiente poco competitivo, ovattato, dove nessuno giudica, né valuta il tuo lavoro, dove qualunque cosa può essere giustificato: questo è terribile, in particolare per gli insegnanti più motivati.

Come si reagisce di fronte ad un collega che è visibilmente in una fase critica?

Quello che ho sempre visto è che i colleghi tendono a coprire: magari subentrando al posto dell'insegnante in crisi, ma più per spirito di corporazione che con il reale intento di prendere coscienza, di aiutare. Neanche i presidi mi sembrano capaci di gestire il problema e del resto mi sembra che non abbiano tante possibilità, a parte appunto l'ammissione della non idoneità al lavoro e quindi il cambio di mansione. Non mi sembra che oggi ci siano altre strade praticabili.


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