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Perché l’università delle piattaforme è la fine dell’università

Un gruppo di docenti di alcune università italiane ha scritto una lettera aperta sulle conseguenze dell’uso di piattaforme digitali proprietarie nella didattica a distanza

18/12/2020
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ROARS

Segnaliamo ai lettori il seguente documento relativo all’uso di piattaforme proprietarie per la teledidattica.

Un gruppo di docenti di alcune università italiane ha scritto una lettera aperta sulle conseguenze dell’uso di piattaforme digitali proprietarie nella didattica a distanza. Auspichiamo che si apra al più presto una discussione sul futuro dell’educazione e che gli investimenti di cui si discute in queste settimane vengano utilizzati per la creazione di un’infrastruttura digitale pubblica per scuole e università.


Care colleghe e cari colleghi, care studentesse e cari studenti,

come certamente sapete, le scuole e le università italiane, da quando è iniziata l’emergenza COVID, per ragioni inizialmente comprensibili, si sono affidate per la gestione della didattica a distanza (esami inclusi) a piattaforme e strumenti proprietari, appartenenti, perlopiù, alla galassia cosiddetta “GAFAM” (Google, Apple, Facebook, Microsoft e Amazon). Esistono poche eccezioni, come il Politecnico di Torino, che ha adottato soluzioni non-proprietarie e autoprodotte. Tuttavia, il 16 luglio 2020 la Corte di Giustizia Europea ha emanato una sentenza molto importante, dove, in sintesi, si afferma che le imprese statunitensi non garantiscono la privacy degli utenti secondo il regolamento europeo sulla protezioni dei dati, conosciuto come GDPR (General Data Protection Regulation). Dunque allo stato tutti i trasferimenti di dati da UE a Stati Uniti devono essere considerati non conformi alla direttiva europea e perciò illegittimi.

Sul tema è in corso un dibattito a livello comunitario e il Garante Europeo ha esplicitamente invitato “istituzioni, uffici, agenzie e organi dell’Unione europea a evitare trasferimenti di dati personali verso gli Stati Uniti per nuove operazioni di trattamento o in caso di nuovi contratti con fornitori di servizi.” Mentre il garante irlandese ha direttamente vietato i trasferimenti dei dati degli utenti Facebook verso gli Stati Uniti. Alcuni studi infine sottolineano come la maggioranza della piattaforme commerciali usate durante la “didattica emergenziale” (in primis G-Suite) pongano seri problemi legali e documentano una “sistematica violazione dei principi di trasparenza.”

In questa difficile situazione, varie organizzazioni, tra cui (come diremo sotto) alcuni docenti universitari, stanno cercando di sensibilizzare scuole e università italiane ad adeguarsi alla sentenza, nell’interesse non solo di docenti e studenti, che hanno il diritto di studiare, insegnare e discutere senza essere sorvegliati, profilati e schedati, ma delle istituzioni stesse. I rischi legati a una didattica appaltata a multinazionali che fanno dei nostri dati ciò che vogliono non sono, infatti, solo economici e culturali, ma anche legali: chiunque, in questa situazione, potrebbe sporgere reclamo al garante della privacy a danno dell’istituzione in cui ci troviamo a lavorare.

La questione va però al di là del diritto alla privatezza nostra e dei nostri studenti. Nella rinnovata emergenza COVID sappiamo che vi sono enormi interessi economici in ballo e che le piattaforme digitali, che in questi mesi hanno moltiplicato i loro fatturati (si veda lo studio pubblicato a ottobre da Mediobanca), hanno la forza e il potere per plasmare il futuro dell’educazione in tutto il mondo. Un esempio è quello che sta accadendo nella scuola con il progetto nazionale “Smart Class”, finanziato con fondi UE dal Ministero dell’Istruzione. Si tratta di un pacchetto preconfezionato di “didattica integrata” dove i contenuti  (di tutte le materie) li mette Pearson, il software Google e l’hardware è Acer-Chrome Book. (Per inciso, Pearson è il secondo editore al mondo, con un fatturato di oltre 4 miliardi e mezzo di euro nel 2018.) E per le scuole che aderiscono non è possibile acquistare altri prodotti…

Infine, sebbene possa apparirci fantascienza, oltre a stabilizzare la teledidattica proprietaria come “offerta”, si parla già di intelligenze artificiali che “affiancheranno” i docenti nel loro lavoro.

Per tutte queste ragioni un gruppo di docenti di varie università italiane ha deciso di reagire.

La loro e nostra iniziativa non è al momento finalizzata a presentare un reclamo immediato al garante, ma ad evitarlo, permettendo a docenti e studenti di creare spazi di discussione e indurre a rettificare scelte che coinvolgono la loro libertà d’insegnamento e il loro diritto allo studio. Solo se la risposta istituzionale sarà insufficiente o assente, ricorreremo, come extrema ratio, al reclamo al garante della privacy. In tal caso il primo passo sarà sfruttare la “falla” aperta dalla sentenza della corte UE per spingere il garante italiano a intervenire (invero lo aveva già fatto Antonello Soro, ma è rimasto inascoltato). Lo scopo di queste azioni non è certamente quello di “bloccare” le piattaforme che erogano la didattica a distanza e chi le usa, ma spingere il governo a investire finalmente nella creazione di un’infrastruttura pubblica e basata su software libero per la comunicazione scientifica e  didattica. Esistono vari modelli (vedi quello proposto qui) ai quali ispirarsi, per esempio in Francia, ma anche in Spagna, ecc. e la stessa UNESCO nel 2019 ha approvato una Raccomandazione per l’uso di risorse e strumenti aperti in ambito educativo.

Come dicevamo sopra, prima di arrivare al garante nazionale è necessario una tappa preliminare. Ciascuno deve scrivere al responsabile del trattamento dati richiedendo alcune informazioni (qui il fac-simile di modulo per docenti che abbiamo preparato). Se non si riceverà risposta entro trenta giorni, o se la risposta è considerata insoddisfacente, si potrà procedere col reclamo al garante nazionale. A quel punto, il discorso cambierà, perché il reclamo al garante potrà essere fatto non solo da singoli, ma da gruppi o associazioni. È importante sottolineare che, anche in questo evitabile scenario, la domanda al responsabile del trattamento dati non può essere assolutamente interpretata come una “protesta” contro il proprio ateneo, ma come un tentativo di renderlo, per tutti e tutte, un ambiente di lavoro e di studi migliore, adeguandosi alle norme europee.


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